lunedì 25 agosto 2014

Cosa ha fatto davvero guarire i due americani con l’ebola?


(Foto: AP Photo/John Bazemore/LaPresse)

Anche se sono stati trattati con il farmaco sperimentale ZMapp, non ci sono prove che sia stato determinante. Fondamentale invece il sistema sanitario hi-tech

I primi due cittadini americani colpiti dal virus dell’ebolaNancy Writebol e Kent Brantly, sono entrambi guariti e hanno potuto lasciare ieri l’ospedale dell’Emory university ad Atlanta. I due cooperanti internazionali, un missionario e un medico, erano stati contagiati in Liberia mentre fornivano assistenza medica e all’inizio di agosto erano stati trasferiti negli Stati Uniti per via delle loro gravissime condizioni di salute.


Ora, dopo settimane trascorse in isolamento e dopo essere stati trattati con il farmaco sperimentale ZMapp, Writebole e Brantly sono risultati per più giorni consecutivi negativi al virus, e possono finalmente ritornare a casa. Tuttavia,  gli stessi medici dell’ospedale hanno dichiarato che non c’è alcuna prova che la guarigione sia avvenuta proprio grazie al farmaco. Anzitutto perché anche la forma più letale del virus ha un tasso di sopravvivenza di almeno il 10%, e in alcuni casi si arriva anche al 50%: quanto accaduto, quindi, potrebbero rientrare nelle normali statistiche di guarigione dalla malattia. A questo si aggiunge anche che il terzo paziente occidentale a cui è stato somministrato lo ZMapp nei primi giorni di agosto, un sacerdote spagnolo rimpatriato dall’Africa e ricoverato a Madrid, è deceduto all’inizio della settimana scorsa nonostante la terapia.

Anche se nella comunità medica si parla di “prospettive incoraggianti”, per quello che la scienza può dire per ora è possibile anche che il trattamento abbia anche avuto l’effetto opposto, ossia che abbia ostacolato o rallentato la guarigione dei due pazienti infetti. Bisognerà attendere almeno che la struttura ospedaliera renda pubblici i dati sui due casi, ma comunque serviranno test e studi clinici molto più ampi per dimostrare se lo ZMapp è davvero efficace. A oggi, nemmeno la sperimentazione animale del farmaco è arrivata a conclusione.

Ciò che invece non è oggetto di discussione, come hanno chiarito gli stessi medici statunitensi, è che gli equipaggiamenti e gli strumenti di alto livello (e costosi) messi a disposizione dalle strutture sanitarie hanno consentito un fondamentale monitoraggio dello stato dei pazienti. Durante le crisi, ad esempio, sono stati determinanti l’idratazione, la ventilazione e l’uso di farmaci antiemorragici e per mantenere costante la pressione dei pazienti, oltre alle analisi svolte di continuo per misurare le quantità di elettroliti e di fattori coagulanti nel sangue dei malati. Queste analisi hanno consentito di regolare in tempo reale le terapie e la somministrazione dei medicinali, rendendoli più efficaci. Una tecnica simile però è difficile da adottare in Africa, dal momento che richiede di maneggiare sangue infetto e – se non si è dotati delle necessarie precauzioni igieniche – rischia di facilitare la diffusione dell’epidemia e provocare il contagio del personale sanitario.


 Gianluca Dotti


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