Quando crollò l’Urss, e con essa l’ordine mondiale bipolare, le
valutazioni furono in generale assai ottimistiche e molti si spinsero a
prevedere che tutto ciò avrebbe portato ad un crollo nelle spese
militari, non essendoci più alcuna gara negli armamenti, dirottando
ingentissime cifre verso investimenti sociali. Si parlò addirittura di
un incombente “Nuovo Rinascimento”. Non pare che le cose siano andate in
questo modo: dopo un relativo calo nei primi anni Novanta, la spesa
militare è invece sensibilmente aumentata, a danno di quella sociale e,
quanto al “Nuovo Rinascimento”, chi lo ha visto? Quelle rosee previsioni
si basavano sulla certezza di un nuovo ordine mondiale monopolare, nel
quale gli Usa,
senza neppure dover spendere le cifre del passato, avrebbero assicurato
una stabile governance mondiale. Si calcolava che, almeno sino al 2060,
non avrebbe potuto esserci alcuna potenza in grado di sfidare
l’egemonia americana, e sempre che la nuova potenza trovasse le risorse
necessarie, mentre gli Usa segnassero il passo.
Le cose sono andate, poi, molto diversamente: la Russia si riprese
abbastanza presto dal ciclo negativo 1991-1998, la Cina crebbe a ritmi
molto maggiori del previsto e così l’India; gli Usa
dovettero misurarsi con le turbolenze mediorientali che ingoiarono
montagne di dollari e ad esse si sommò la lunga serie di interventi
minori in Africa (Sudan, Somalia, ecc.). I nuovi venuti, grazie ai
sostenuti tassi di crescita, iniziarono ad armarsi (o riarmarsi) e la
gara riprese: già nei primi anni 2000 le spese militari mondiali avevano
superato di slancio quelle del periodo bipolare. Poi venne la crisi
del 2008 e, pur se con molte incertezze e ritardi, è diventato chiaro a
tutti che, come scrive Alessandro Colombo, «l’unipolarismo a guida
americana è diplomaticamente, economicamente e persino militarmente
insostenibile» (“Tempi decisivi”, Feltrinelli 2014. A proposito: ve ne
consiglio caldamente la lettura).
La crisi ha dimostrato che gli Usa non hanno il fiato economico per reggere l’Impero, che ha costi proibitivi e non solo per il sopraggiungere della crisi
finanziaria, ma anche per le diseconomie della sua macchina militare.
Il ritiro americano da Iraq e Afghanistan, prima ancora che i “regimi
amici” vi si fossero consolidati, non meno che i mancati interventi in
Siria e Iran, sempre annunciati e mai realizzati, hanno tolto
credibilità alle minacce americane. Non che gli americani abbiano
rinunciato alle pretese di essere l’Impero mondiale, da cui discendono
moneta, lingua, diritto e legittimazione politica,
ma non sanno più come fare. Dal 2011 hanno provato a consociare gli
alleati europei negli interventi militari, ma l’esperimento libico è
restato un caso isolato e di ben scarso successo; per il resto, c’è
molto poco da aspettarsi dal vecchio continente. Stanno cercando di
creare una cintura di alleati per contenere la Cina, ma anche qui le cose sono molto al di sotto delle aspettative.
Nel frattempo i conflitti locali iniziano a sommarsi, descrivendo archi di crisi
lunghissimi. Accanto ai conflitti non risolti che ci portiamo dietro da
anni (dalle Farc colombiane alla Somalia, dal Sudan a Cipro e a Timor)
si sono aggiunti altri punti di guerra
o intervento straniero (Mali, Costa d’Avorio) mentre altre linee di
confine si surriscaldano (Cina-Vietnam, India-Pakistan). Ma soprattutto
si sono profilate due linee di frattura particolarmente lunghe e
pericolose, come quella russo-ucraina e la sommatoria di conflitti e crisi
mediorientali (Libia, Gaza, Iraq, Siria, Afghanistan, Turchia, Barhein,
Yemen) mentre l’Iran è pronto a intervenire. L’elenco è incompleto,
anzi appena accennato, ma basta a dire che, dal 1945 in poi, non c’è
mai stata una situazione altrettanto conflittuale. Anche la crisi
indocinese o quella arabo-israeliana erano ben più circoscritte e
controllate, come pure le guerriglie africane e latinoamericane.
Nel complesso, il “bipolarismo imperfetto” (c’erano anche i “non
allineati”) aveva trovato un suo modo di funzionare e una lingua comune
ai contendenti. Non dico che si debba rimpiangere quell’equilibrio, che
aveva molti aspetti di assoluta negatività, ma insomma, era un
equilibrio che assicurava un certo ordine mondiale, mentre oggi non ce
n’è alcuno. Le ragioni di questo nuovo “disordine mondiale” sono molto
complesse e richiederebbero molto più di un semplice articolo, per cui
ci limitiamo solo ad abbozzare alcune possibili linee di
approfondimento. La spiegazione più immediata e semplice (fatta propria
da Prodi nella sua intervista all’“Espresso”) è quella del “ritiro”
americano e dell’indisponibilità delle altri grandi
potenze ad assicurare una efficace governance mondiale assumendosi la
responsabilità di intervenire quando questo sia necessario.
C’è del vero in questo (ammesso che l’intervento esterno sia la
soluzione cui ricorrere, cosa di cui, in linea di massima, non saremmo
poi così convinti), ma per certi versi questo è più il sintomo che la
malattia, perché occorrerebbe spiegare perché una stagione ventennale di
interventi esteri ha fatto registrare una lunga serie di fallimenti. Ci
sono molti aspetti che vanno indagati; qui ci limitiamo a segnalarne
uno di particolare rilevanza: lo schema concettuale con il quale gli
americani sono entrati nella globalizzazione pretendendo di guidarla.
Sia lo schema di Fukuyama dell’ “esportazione della democrazia”
quanto quello di Huntington del “conflitto di civiltà”, si sono
rivelati completamente fallimentari (e il primo molto più del secondo)
nella loro incapacità di capire il mondo ed assumere le ragioni degli
altri come qualcosa con cui confrontarsi.
Bruciati dai fatti questi due schemi di azione, gli Usa
sono rimasti senza strategia alcuna. Mirano a mantenere la loro
posizione egemonica ma non hanno più un disegno credibile di ordine
mondiale. Le esitazioni sui casi di Siria e Iran stanno lì a
dimostrarlo. Certo l’idea di impantanarsi in un nuovo conflitto di lunga
durata e di altissimo costo resta la ragione che (per fortuna!)
scongiura l’ennesimo intervento a stelle e strisce, ma non si tratta
solo di questo. Il problema principale, per gli americani, è che non
sanno bene cosa verrà fuori una volta ingaggiato il conflitto. Prendiamo
il caso siriano: forse non sarebbe neppure una guerra
lunga e dispendiosa e, con un urto concentrato, si potrebbe ottenere la
caduta del regime di Assad in un paio di settimane, ma dopo? A
beneficio di chi andrebbe questa spallata? I contendenti non sono
esattamente quanto di più rassicurante dal punto di vista occidentale, persino le fazioni sostenute da turchi e sauditi danno ben poche assicurazioni in questo senso.
Anzi, ad essere chiari, in Siria gli alleati storici degli
occidentali, a cominciare dai francesi nel 1919, sono proprio gli
alauiti (il gruppo etnico di Assad) che, infatti, vengono visti dagli
altri islamici come sorta di traditori alleati agli “infedeli”. Ce
l’hanno un’alternativa ad Assad gli americani? Nel caso iraniano le cose
potrebbero stare differentemente, perché c’è una opposizione “liberal”
più solida e consapevole, però la maggioranza della popolazione sta
dall’altra parte e anche gli alleati storici di Washington, come i
sauditi, pur odiando furibondamente gli sciiti, non gradirebbero affatto
un Iran “liberal” che potrebbe rappresentare una fonte di contagio di
altre rivolte. E allora, come gestire la situazione? Anche nei confronti
del “Califfato” non pare che gli Usa
abbiano le idee chiare su cosa fare, fra una convergenza con gli
iraniani o uno sforzo unilaterale americano. Di fatto la situazione si
trascina, moltiplicando il rischio che questa buffonata di Califfato,
che mette insieme fanatici religiosi, tagliagole, briganti e
avventurieri di ogni risma, possa diventare un problema molto serio,
qualora riuscisse a diventare un simbolo intorno al quale si riuniscano
le masse islamiche. Questo vuoto di strategia degli americani diventa
anche paralisi tattica con conseguenze tutt’altro che trascurabili.
(Aldo Giannuli “Il vuoto strategico americano”, dal blog di Giannuli del 27 luglio 2014).
fonte: http://www.libreidee.org/2014/08/fallita-la-globalizzazione-gli-usa-non-sanno-piu-che-fare/
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