“Effetto
serra e glaciazioni. Prospettive per un meccanismo di regolazione dei
cambiamenti globali su basi fisiche” era il titolo del progetto di
Edward Teller presentato ad Erice nel 1997. Lowell Wood, allievo di Teller, era secondo firmatario di quella proposta. (1)
Il
fisico Lowell Wood aveva avanzato diverse idee per “riparare” il clima
terrestre, compreso l’aumento del ghiaccio del Mar Artico da utilizzare
come un condizionatore d’aria planetario per succhiare il calore delle
medie latitudini. Un modo per realizzare tutto ciò, secondo lui, era
usare grandi impianti d’artiglieria per sparare nella stratosfera
artica milioni di tonnellate di aerosol di solfato altamente riflettente
o di nano-particelle appositamente preparate, per deviare i raggi del sole.
Lowell Wood: il ritorno del Dottor Destino
Dice che per fermare il global warming basta oscurare il cielo…
Nell’estate
del 2006 un’élite di scienziati si riunisce nello ski resort di
Snowmass, vicino ad Aspen, in Colorado, per discutere sulla fine del
mondo. Il seminario è organizzato da Energy Modeling Forum, un gruppo di
ricercatori universitari e dirigenti d’industria affiliati alla
Stanford University. Qualche mese prima, il professore John Weyant, il
direttore del gruppo, ha chiesto ai partecipanti di considerare uno
scenario da incubo: è il 2010, la coltre glaciale della Groenlandia e
dell’Antartico orientale si sta sciogliendo a una velocità mai vista. Le
previsioni parlano di un innalzamento del livello del mare di circa sei
metri entro il 2070. Le conseguenze sarebbero devastanti: la Florida
sparirebbe, New York diventerebbe un acquario e Londra assomiglierebbe a
Venezia.
Domanda: cosa fareste voi per porre un “freno immediato” alle
emissioni di biossido di carbonio, senza però mettere a rischio
l’economia globale? Rimpiazzare il carbone e il petrolio con
biocombustibili, infatti, richiederebbe una massiccia espansione
dell’agricoltura, radicali cambiamenti nell’infrastruttura energetica
del mondo, una leadership politica coraggiosa e miliardi di dollari.
Lowell Wood si avvicina al podio. 65 anni, alto e largo come un silos
per missili, con una folta barba rossa e occhi azzurro chiaro che
bruciano di una luce termonucleare, nei circoli scientifici è una stella
oscura, il protetto di Edward Teller, padre della bomba a idrogeno e
ideatore del sistema di difesa missilistico “Star Wars” dell’era
reaganiana.
Fisico al Lawrence Livermore National Laboratory da più di
40 anni, Wood è stato per lungo tempo uno dei maggiori progettisti di
armi del Pentagono (dai laser a raggi x ai reattori a fusione nucleare) e
affiliato alla Hoover Institution, una commissione di esperti di
estrema destra di Stanford. Tutti, a Snowmass, conoscono la sua
reputazione. Wood collega il suo portatile e va dritto al punto: cosa
succederebbe se l’opinione comune sulla gestione del surriscaldamento
globale fosse errata? Cosa succederebbe se si potessero portare a una
risoluzione le problematiche sul commercio dei combustibili fossili e si
scoprisse che i costi iniziali non si aggirerebbero intorno ai miliardi
di dollari, ma a poche centinaia di milioni di dollari all’anno (il
costo per la costruzione di qualche centrale eolica di medie
dimensioni)?
La
proposta di Wood non è tecnologicamente complessa. È basata sull’idea,
largamente dimostrata dagli studiosi dell’atmosfera, che le eruzioni
vulcaniche possano alterare il clima per mesi, offuscando il cielo con
micro particelle che agiscono come mini-riflettori, indebolendo la luce
del sole e raffreddando la Terra. Perché non applicare gli stessi
principi per salvare il Circolo Polare Artico? Immettere le particelle
nella stratosfera non sarebbe un problema: si potrebbero generare
abbastanza facilmente grazie alla combustione di zolfo, per poi
scaricarle ad alta quota con un 747, spruzzandole nel cielo con un lungo
tubo flessibile o addirittura spargendole con l’aiuto dell’artiglieria
navale. Sarebbero invisibili a occhio nudo, sostiene Wood, e innocue per
l’ambiente.
A
seconda del numero di particelle immesse, si potrebbe non solo
stabilizzare il ghiaccio polare della Groenlandia, ma addirittura
aumentarlo. I risultati sarebbero pressoché immediati: se si iniziassero
a diffondere particelle nella stratosfera domani, i cambiamenti nel
ghiaccio diventerebbero visibili entro pochi mesi. E se funzionasse per
l’Artide, si potrebbe espandere il programma fino a includere il resto
del pianeta. In effetti, si verrebbe a creare un termostato globale da
abbassare o alzare in base alle esigenze della gente. Alcuni scienziati,
incluso Richard Tol, un modellatore climatico che collabora con
l’Economic and Social Research Institute di Dublino, trovano le idee di
Wood degne di ulteriori ricerche.
Altri si indignano per l’arrogante
proposta di questo progettista di armi. Il clima della Terra, asserisce
uno scienziato, è un sistema caotico: spargere particelle nella
stratosfera potrebbe avere conseguenze impreviste, come ad esempio
l’allargamento del buco dell’ozono, che si rivelerebbero solo dopo che
il danno è stato fatto. Cosa succederebbe se le particelle influissero
sulla formazione delle nubi, causando un’inaspettata siccità nel Nord
Europa? Bill Nordhaus, un economista di Yale, si preoccupa delle
implicazioni politiche: se la gente crede che ci sia una soluzione al
surriscaldamento globale, che non richieda scelte difficili, nel caso in
cui ci sia bisogno di cambiar vita e limitare le emissioni sarebbe di
certo in difficoltà.
Weyant,
sorpreso dal dibattito “emotivo e religioso” scatenato dalla proposta
di Wood, tronca la discussione per evitare che si trasformi in una lite
da bar. Ma Wood rimane piacevolmente colpito da quella baruffa. «Sì, la
discussione era abbastanza animata», si vanta con me oggi. «Ma un
sorprendente numero di persone mi chiese: “‘Perché non ne abbiamo mai
sentito parlare?”». Poi, sul suo viso, compare un ghigno diabolico.
«Credo che qualcuno di loro fosse pronto a passare al lato oscuro».
Molti scienziati, favorevoli all’idea di controllare attivamente il
clima della Terra, credono che sia troppo tardi per prendere in
considerazione un approccio più graduale. James Lovelock, che ha coniato
nel 1960 la teoria Gaia (il pianeta come organismo vivente), paragona
la geoingegneria alla chemioterapia: «È rimasta solo una possibilità di
salvare il paziente, ma abbiamo il dovere di tentare». «Lowell ama
interpretare il ruolo del Dr. Evil», dice Ken Caldeira, un’esperto
scienziato del Carnegie Institution’s Department of Global Ecology a
Stanford, «ma riesce anche a essere brillante. Ed è una delle poche
persone che conosce che si impegna seriamente nel trovare un modo che ci
consenta di gestire il clima terrestre.
Non lo definirei uno
scienziato, ma un ingegnere planetario». Lowell Wood è sempre stato un
genietto. Figlio di un immobiliarista, è cresciuto nel sobborgo di Simi
Valley, a Nord di Los Angeles, proprio mentre i vecchi ranch in noce
venivano abbattuti dai bull-dozer per dare spazio a enormi ville e
l’aria si riempiva di bang sonici provocati dai jet militari. Divorava
libri sulla missilistica e sull’esplorazione spaziale. Lì vicino c’era
il Santa Susana Field Laboratory, un’infrastruttura governativa dove
venivano testati i motori che potenziavano i missili dell’Apollo e dove
lavorava a volte il famoso pioniere tedesco della missilistica Werner
von Braun. «Spesso camminavo per miglia solo per vedere i lanci di
prova», sostiene Wood. Dopo la scuola superiore, si laureò in chimica e
matematica alla Ucla, dove incontrò l’uomo che gli avrebbe cambiato la
vita per sempre: Edward Teller. Teller, che abbandonò da ragazzo la
nativa Ungheria per sfuggire ai nazisti, partecipò alla costruzione
della bomba a idrogeno e fu uno dei fondatori del Lawrence Livermore
Laboratory.
Con enormi sopracciglia scure, una protesi al piede e
un’inossidabile convinzione che l’Unione Sovietica fosse un Impero del
Male, Teller fu uno dei più influenti scienziati dell’era nucleare. E
rimase talmente colpito da Wood da invitarlo a collaborare al Livermore
Laboratory. All’inizio, Wood esplorò la fissione nucleare e
l’astrofisica delle supernova, ma entro i primi anni 70 era già
attivamente impegnato nella progettazione delle armi nucleari.
Per
Teller, le bombe nucleari non erano solo strumenti bellici, ma
dimostrazioni di progresso. Si imbarcò nel “Progetto Plowshare”, uno
schema perverso atto a promuovere l’uso di reattori nucleari per scavare
porti, canali e miniere. Riuscì quasi a ottenere il consenso all’uso di
cinque bombe nucleari per scavare un porto a Cape Thompson, Alaska,
prima che i piani venissero bloccati da un moto di protesta
internazionale. Teller propose perfino di far esplodere una bomba
nucleare qualche centinaio di metri sotto la crosta lunare, sostenendo
che avrebbe liberato un’enorme fontana d’acqua e avrebbe permesso
all’umanità di colonizzare la superficie della luna. Negli anni 80, con
Wood, sviluppò l’idea di lanciare nello spazio laser a raggi x
potenziati con energia nucleare, in modo da poter annientare i missili
sovietici prima che potessero raggiungere gli Stati Uniti. Era un
progetto costoso e complesso, ma riuscì a venderlo al Presidente Reagan.
Ufficialmente battezzato come “Strategic Defense Initiative” (SDI), ma
comunemente noto in Italia come “Scudo Spaziale” e in tutto il mondo
come “Star Wars”, il progetto divenne il perno della politica
difensivista di Reagan. Miliardi di dollari fluirono nelle casse del
Livermore, la maggior parte dei quali servirono per finanziare l’O
Group, un gruppo mal organizzato di laureati di Berkeley e Stanford
assemblato da Wood. Ma il laser a raggi x si rivelò una debacle,
condizionata da problemi di progettazione, costi troppo elevati e dalla
caduta dell’Unione Sovietica. In tutto, per il programma “Star Wars”, si
volatilizzarono 60 miliardi di dollari. Quando il progetto fallì,
Teller era già ultraottantenne, ma non aveva smesso di impiegare il
cervello per risolvere i problemi più gravi. Ad esempio: cosa sarebbe
successo alla razza umana durante la prossima era glaciale? Al tempo,
molti scienziati erano convinti che i cicli climatici avrebbero
inevitabilmente ricondotto il pianeta a una forte glaciazione.
Così
Teller e Wood iniziarono a valutare dei sistemi per modulare la
riflettività del pianeta, dando effettivamente la possibilità agli umani
di alzare o abbassare la temperatura della Terra a loro piacimento. La
razza umana potrebbe creare un escamotage per imitare il sistema di
raffreddamento del clima proprio della natura: i vulcani. La più grande
eruzione mai registrata, quella del Monte Tambora, in Indonesia, nel
1815, causò un abbassamento delle temperature così drastico che il
periodo successivo divenne famoso come “l’anno senza estate”. Nel 1991,
quando il Pinatubo eruttò nelle Filippine, abbassò la temperatura media
della regione di un grado. Gli effetti climatici di un’eruzione possono
durare a lungo, raffreddando gli oceani per decenni.
Teller
e Wood adattarono un’idea astratta alla vita reale. Stabilirono che
minuscole particelle, grandi solo un decimo del diametro del più piccolo
granello di polvere visibile a occhio nudo, avrebbero potuto disperdere
in modo molto efficace la luce del sole. Queste particelle potevano
essere ricavate da una sostanza metallica non reattiva, come ad esempio
l’alluminio, o generate dallo zolfo, una sostanza facilmente accessibile
come sottoprodotto della raffinazione del petrolio. Sarebbe bastato un
miliardo di dollari all’anno, quasi 100 volte meno rispetto al costo che
avrebbe avuto una riduzione delle emissioni di CO2. Quando Wood
presentò l’idea durante una conferenza del 1998 al Global Change
Institute di Aspen in Colorado, non ricevette un benvenuto
particolarmente caloroso: ora il protetto del vecchio si era messo a
proporre di salvare il pianeta per mezzo di una gigantesca nuvola di
polvere?
A un certo punto, ricorda Ken Caldeira, Wood si mise perfino a
scherzare sul fatto che, secondo lui, il modo migliore per fermare il
surriscaldamento globale sarebbe stato iniziare una guerra nucleare. «Fu
abbastanza oltraggioso», ammette Caldeira. «Ma ora mi rendo conto che
era una provocazione». La presentazione di Wood lasciò a Caldeira dei
dubbi. Pensava che la cosa avrebbe inavvertitamente potuto scombussolare
le differenze di temperatura fra il giorno e la notte, attenuare i
cambiamenti fra le stagioni e sconvolgere la distribuzione del calore
fra l’equatore e il polo. Così verificò queste teorie utilizzando un
programma informatico che riproduceva il clima della Terra.
Dopo
qualche mese di simulazione, i risultati gli apparvero sconvolgenti:
immettere particelle nella stratosfera aveva uno scarso effetto sul
clima locale. Le teorie di Wood, evidentemente, erano esatte. Quando
arrivo al laboratorio nucleare di Livermore, la sala conferenze dove
devo incontrare Wood è vuota. Qualche minuto più tardi, noto quello che
sembra un custode lottare con la serratura della porta laterale. La
camicia blu penzola fuori dai pantaloni e la fronte è imperlata dal
sudore. Soltanto quando vedo il suo badge realizzo che si tratta del
“grande inventore di armi”. Wood sembra la caricatura di un professore
distratto: spettinato, assente, con le tasche piene di strani pezzetti
di carta. Negli anni 60 i colleghi nascosero un mattone di piombo nella
sua valigetta e Wood se lo portò dietro per giorni senza nemmeno
notarlo.
Quando il progetto “Star Wars” affondò, Wood divenne un
“paria”. Senza più l’Unione Sovietica, aveva bisogno di un nuovo nemico
da combattere, e quindi nuovi finanziamenti. Ultimamente, il terrorismo è
tornato utile allo scopo. «Mi occupo di minacce», dice. «Aiuto il
governo a farsi un’idea su chi potrebbe ucciderci, del come e del
quando». Il suo primario interesse, in questo momento, riguarda la
diffusione di una pandemia studiata a tavolino, come l’antrace o il
vaiolo. Wood è riluttante a parlare della sua vita personale, a parte il
fatto che è sposato e che ha una figlia teenager (che, manco a dirlo, è
un prodigio della matematica).
Nonostante a volte lavori come
consulente per alcune società, il denaro chiaramente non riveste una
grande importanza per lui (guida una Toyota sporca e scassata). Si
potrebbe pensare che l’amministrazione Bush apprezzi il suo progetto,
non fosse altro che per la possibilità di garantire al mondo un’altra
generazione di combustibile fossile in abbondanza. In realtà la
geoingegneria ha ricevuto poco sostegno dai repubblicani, nonostante la
complessità tecnologica di questa materia sia pari a zero. «Oltre a
raffreddare il pianeta», sostiene Wood, «immettere particelle nella
stratosfera potrebbe anche aiutare ad aumentare i raccolti, a ridurre
l’irradiazione dei dannosi raggi uv, che causano 60mila morti ogni anno
per cancro alla pelle, e perfino a rendere i colori dei tramonti più
accesi. A chi non piace un bel tramonto?». Molti scienziati sottolineano
i possibili effetti collaterali della geoingegneria: immettere
particelle nell’atmosfera potrebbe distruggere gli oceani.
Quando la CO2
in eccesso si dissolve nell’acqua, forma acido carbonico che, a sua
volta, viene assorbito dagli oceani, il che porterebbe alla scomparsa
delle barriere coralline e al rischio di estinzione per il plancton, che
sta alla base della catena alimentare oceanica. Lo scorso giugno,
Caldeira e Wood decisero di tentare una simulazione al computer: quanta
luce solare, si chiesero, sarebbe necessario riflettere per fermare lo
scioglimento dei ghiacci? Quali effetti potrebbe avere sul resto del
clima della Terra? Dopo alcune settimane, Caldeira concluse che ridurre
di meno del 25% la concentrazione diretta di luce solare sulla calotta
polare, preserverebbe il “naturale” livello di ghiaccio nell’Artico,
anche con un raddoppio dei livelli di CO2 atmosferica. Portare la
riduzione al 25%, equivarrebbe a far aumentare i ghiacci. E la cosa
interessante è che il ristabilimento avverrebbe in un tempo molto breve:
nell’arco di cinque anni, la temperatura si abbasserebbe di circa due
gradi.
Secondo
i calcoli di Wood ci vogliono 300mila tonnellate di particelle all’anno
per schermare la luce solare nell’Artico del 25%: una quantità
irrisoria, su scala planetaria. Per portarle lassù basterebbe una mezza
dozzina di 747. Oppure costruire un tubo di Kevlar lungo 15 miglia, con
un diametro leggermente più largo di una canna da giardino. Il fondo
della canna dovrebbe essere collegato a un combustore che crei la
micronizzazione, mentre la cima verrebbe allacciata a un aliante o a un
dirigibile idoneo alle altitudini elevate. Siccome le particelle
verrebbero lanciate solo sopra l’Artico, il rischio di impatto diretto
sugli umani sarebbe minimo.
E soprattutto, si potrebbe cominciare
provando per qualche anno e vedere se funziona. Se qualcosa andasse
storto, si potrebbe sospendere la prova e nel giro di un anno tutte le
particelle si dissolverebbero. Wood è convinto che la decisione di
proseguire nella ricerca e mettere in atto un progetto di geoingegneria
su larga scala, non debba essere presa da un’élite scientifica.
«Discutiamone insieme», afferma. «E poi votiamo tutti». Ma nella sua
visione ottimistica – o, in questo caso, a causa della sua sfacciata
convinzione di riuscire ad arginare il pericolo – nessuna distruzione
globale provocata dal surriscaldamento globale potrebbe mai essere tanto
grave da non consentirci, in tutta la nostra ingenuità, di fermarla.
«Gli esseri umani sono come gli scarafaggi», dice Wood con il suo tipico
humor nero. «È relativamente semplice uccidere il primo 10% della
popolazione e, se ti impegni, puoi perfino arrivare a un altro 10% e via
dicendo. Ma per quanto ti possa sforzare, non riuscirai mai a far fuori
l’ultimo 10%. Troveremo sempre un modo per sopravvivere».
FONTE http://www.rollingstonemagazine.it/archivio/lowell-wood-il-ritorno-del-dottor-destino/
LINK DI APPROFONDIMENTO:
Lowell Wood
Lowell Wood’s Home Page
QUEI GENIALI MONACI DELLE ARMI SPAZIALI (Repubblica1984)fonte: http://www.nogeoingegneria.com/timeline/personaggi/chi-conosce-lowell-wood/
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