giovedì 3 settembre 2015

Chi conosce LOWELL WOOD ?


“Effetto serra e glaciazioni. Prospettive per un meccanismo di regolazione dei cambiamenti globali su basi fisiche” era il titolo del progetto di Edward Teller presentato ad Erice nel 1997. Lowell Wood, allievo di Teller, era secondo firmatario di quella proposta. (1) 

Il fisico Lowell Wood aveva avanzato diverse idee per “riparare” il clima terrestre, compreso l’aumento del ghiaccio del Mar Artico da utilizzare come un condizionatore d’aria planetario per succhiare il calore delle medie latitudini. Un modo per realizzare tutto ciò, secondo lui, era usare grandi impianti d’artiglieria per sparare nella stratosfera artica milioni di tonnellate di aerosol di solfato altamente riflettente o di nano-particelle appositamente preparate, per deviare i raggi del sole.

Lowell Wood: il ritorno del Dottor Destino

Dice che per fermare il global warming basta oscurare il cielo…

Nell’estate del 2006 un’élite di scienziati si riunisce nello ski resort di Snowmass, vicino ad Aspen, in Colorado, per discutere sulla fine del mondo. Il seminario è organizzato da Energy Modeling Forum, un gruppo di ricercatori universitari e dirigenti d’industria affiliati alla Stanford University. Qualche mese prima, il professore John Weyant, il direttore del gruppo, ha chiesto ai partecipanti di considerare uno scenario da incubo: è il 2010, la coltre glaciale della Groenlandia e dell’Antartico orientale si sta sciogliendo a una velocità mai vista. Le previsioni parlano di un innalzamento del livello del mare di circa sei metri entro il 2070. Le conseguenze sarebbero devastanti: la Florida sparirebbe, New York diventerebbe un acquario e Londra assomiglierebbe a Venezia. 

Domanda: cosa fareste voi per porre un “freno immediato” alle emissioni di biossido di carbonio, senza però mettere a rischio l’economia globale? Rimpiazzare il carbone e il petrolio con biocombustibili, infatti, richiederebbe una massiccia espansione dell’agricoltura, radicali cambiamenti nell’infrastruttura energetica del mondo, una leadership politica coraggiosa e miliardi di dollari. Lowell Wood si avvicina al podio. 65 anni, alto e largo come un silos per missili, con una folta barba rossa e occhi azzurro chiaro che bruciano di una luce termonucleare, nei circoli scientifici è una stella oscura, il protetto di Edward Teller, padre della bomba a idrogeno e ideatore del sistema di difesa missilistico “Star Wars” dell’era reaganiana. 

Fisico al Lawrence Livermore National Laboratory da più di 40 anni, Wood è stato per lungo tempo uno dei maggiori progettisti di armi del Pentagono (dai laser a raggi x ai reattori a fusione nucleare) e affiliato alla Hoover Institution, una commissione di esperti di estrema destra di Stanford. Tutti, a Snowmass, conoscono la sua reputazione. Wood collega il suo portatile e va dritto al punto: cosa succederebbe se l’opinione comune sulla gestione del surriscaldamento globale fosse errata? Cosa succederebbe se si potessero portare a una risoluzione le problematiche sul commercio dei combustibili fossili e si scoprisse che i costi iniziali non si aggirerebbero intorno ai miliardi di dollari, ma a poche centinaia di milioni di dollari all’anno (il costo per la costruzione di qualche centrale eolica di medie dimensioni)?

La proposta di Wood non è tecnologicamente complessa. È basata sull’idea, largamente dimostrata dagli studiosi dell’atmosfera, che le eruzioni vulcaniche possano alterare il clima per mesi, offuscando il cielo con micro particelle che agiscono come mini-riflettori, indebolendo la luce del sole e raffreddando la Terra. Perché non applicare gli stessi principi per salvare il Circolo Polare Artico? Immettere le particelle nella stratosfera non sarebbe un problema: si potrebbero generare abbastanza facilmente grazie alla combustione di zolfo, per poi scaricarle ad alta quota con un 747, spruzzandole nel cielo con un lungo tubo flessibile o addirittura spargendole con l’aiuto dell’artiglieria navale. Sarebbero invisibili a occhio nudo, sostiene Wood, e innocue per l’ambiente. 

A seconda del numero di particelle immesse, si potrebbe non solo stabilizzare il ghiaccio polare della Groenlandia, ma addirittura aumentarlo. I risultati sarebbero pressoché immediati: se si iniziassero a diffondere particelle nella stratosfera domani, i cambiamenti nel ghiaccio diventerebbero visibili entro pochi mesi. E se funzionasse per l’Artide, si potrebbe espandere il programma fino a includere il resto del pianeta. In effetti, si verrebbe a creare un termostato globale da abbassare o alzare in base alle esigenze della gente. Alcuni scienziati, incluso Richard Tol, un modellatore climatico che collabora con l’Economic and Social Research Institute di Dublino, trovano le idee di Wood degne di ulteriori ricerche. 

Altri si indignano per l’arrogante proposta di questo progettista di armi. Il clima della Terra, asserisce uno scienziato, è un sistema caotico: spargere particelle nella stratosfera potrebbe avere conseguenze impreviste, come ad esempio l’allargamento del buco dell’ozono, che si rivelerebbero solo dopo che il danno è stato fatto. Cosa succederebbe se le particelle influissero sulla formazione delle nubi, causando un’inaspettata siccità nel Nord Europa? Bill Nordhaus, un economista di Yale, si preoccupa delle implicazioni politiche: se la gente crede che ci sia una soluzione al surriscaldamento globale, che non richieda scelte difficili, nel caso in cui ci sia bisogno di cambiar vita e limitare le emissioni sarebbe di certo in difficoltà.

Weyant, sorpreso dal dibattito “emotivo e religioso” scatenato dalla proposta di Wood, tronca la discussione per evitare che si trasformi in una lite da bar. Ma Wood rimane piacevolmente colpito da quella baruffa. «Sì, la discussione era abbastanza animata», si vanta con me oggi. «Ma un sorprendente numero di persone mi chiese: “‘Perché non ne abbiamo mai sentito parlare?”». Poi, sul suo viso, compare un ghigno diabolico. «Credo che qualcuno di loro fosse pronto a passare al lato oscuro». Molti scienziati, favorevoli all’idea di controllare attivamente il clima della Terra, credono che sia troppo tardi per prendere in considerazione un approccio più graduale. James Lovelock, che ha coniato nel 1960 la teoria Gaia (il pianeta come organismo vivente), paragona la geoingegneria alla chemioterapia: «È rimasta solo una possibilità di salvare il paziente, ma abbiamo il dovere di tentare». «Lowell ama interpretare il ruolo del Dr. Evil», dice Ken Caldeira, un’esperto scienziato del Carnegie Institution’s Department of Global Ecology a Stanford, «ma riesce anche a essere brillante. Ed è una delle poche persone che conosce che si impegna seriamente nel trovare un modo che ci consenta di gestire il clima terrestre. 

Non lo definirei uno scienziato, ma un ingegnere planetario». Lowell Wood è sempre stato un genietto. Figlio di un immobiliarista, è cresciuto nel sobborgo di Simi Valley, a Nord di Los Angeles, proprio mentre i vecchi ranch in noce venivano abbattuti dai bull-dozer per dare spazio a enormi ville e l’aria si riempiva di bang sonici provocati dai jet militari. Divorava libri sulla missilistica e sull’esplorazione spaziale. Lì vicino c’era il Santa Susana Field Laboratory, un’infrastruttura governativa dove venivano testati i motori che potenziavano i missili dell’Apollo e dove lavorava a volte il famoso pioniere tedesco della missilistica Werner von Braun. «Spesso camminavo per miglia solo per vedere i lanci di prova», sostiene Wood. Dopo la scuola superiore, si laureò in chimica e matematica alla Ucla, dove incontrò l’uomo che gli avrebbe cambiato la vita per sempre: Edward Teller. Teller, che abbandonò da ragazzo la nativa Ungheria per sfuggire ai nazisti, partecipò alla costruzione della bomba a idrogeno e fu uno dei fondatori del Lawrence Livermore Laboratory. 

Con enormi sopracciglia scure, una protesi al piede e un’inossidabile convinzione che l’Unione Sovietica fosse un Impero del Male, Teller fu uno dei più influenti scienziati dell’era nucleare. E rimase talmente colpito da Wood da invitarlo a collaborare al Livermore Laboratory. All’inizio, Wood esplorò la fissione nucleare e l’astrofisica delle supernova, ma entro i primi anni 70 era già attivamente impegnato nella progettazione delle armi nucleari.


Per Teller, le bombe nucleari non erano solo strumenti bellici, ma dimostrazioni di progresso. Si imbarcò nel “Progetto Plowshare”, uno schema perverso atto a promuovere l’uso di reattori nucleari per scavare porti, canali e miniere. Riuscì quasi a ottenere il consenso all’uso di cinque bombe nucleari per scavare un porto a Cape Thompson, Alaska, prima che i piani venissero bloccati da un moto di protesta internazionale. Teller propose perfino di far esplodere una bomba nucleare qualche centinaio di metri sotto la crosta lunare, sostenendo che avrebbe liberato un’enorme fontana d’acqua e avrebbe permesso all’umanità di colonizzare la superficie della luna. Negli anni 80, con Wood, sviluppò l’idea di lanciare nello spazio laser a raggi x potenziati con energia nucleare, in modo da poter annientare i missili sovietici prima che potessero raggiungere gli Stati Uniti. Era un progetto costoso e complesso, ma riuscì a venderlo al Presidente Reagan. 

Ufficialmente battezzato come “Strategic Defense Initiative” (SDI), ma comunemente noto in Italia come “Scudo Spaziale” e in tutto il mondo come “Star Wars”, il progetto divenne il perno della politica difensivista di Reagan. Miliardi di dollari fluirono nelle casse del Livermore, la maggior parte dei quali servirono per finanziare l’O Group, un gruppo mal organizzato di laureati di Berkeley e Stanford assemblato da Wood. Ma il laser a raggi x si rivelò una debacle, condizionata da problemi di progettazione, costi troppo elevati e dalla caduta dell’Unione Sovietica. In tutto, per il programma “Star Wars”, si volatilizzarono 60 miliardi di dollari. Quando il progetto fallì, Teller era già ultraottantenne, ma non aveva smesso di impiegare il cervello per risolvere i problemi più gravi. Ad esempio: cosa sarebbe successo alla razza umana durante la prossima era glaciale? Al tempo, molti scienziati erano convinti che i cicli climatici avrebbero inevitabilmente ricondotto il pianeta a una forte glaciazione. 

Così Teller e Wood iniziarono a valutare dei sistemi per modulare la riflettività del pianeta, dando effettivamente la possibilità agli umani di alzare o abbassare la temperatura della Terra a loro piacimento. La razza umana potrebbe creare un escamotage per imitare il sistema di raffreddamento del clima proprio della natura: i vulcani. La più grande eruzione mai registrata, quella del Monte Tambora, in Indonesia, nel 1815, causò un abbassamento delle temperature così drastico che il periodo successivo divenne famoso come “l’anno senza estate”. Nel 1991, quando il Pinatubo eruttò nelle Filippine, abbassò la temperatura media della regione di un grado. Gli effetti climatici di un’eruzione possono durare a lungo, raffreddando gli oceani per decenni.

Teller e Wood adattarono un’idea astratta alla vita reale. Stabilirono che minuscole particelle, grandi solo un decimo del diametro del più piccolo granello di polvere visibile a occhio nudo, avrebbero potuto disperdere in modo molto efficace la luce del sole. Queste particelle potevano essere ricavate da una sostanza metallica non reattiva, come ad esempio l’alluminio, o generate dallo zolfo, una sostanza facilmente accessibile come sottoprodotto della raffinazione del petrolio. Sarebbe bastato un miliardo di dollari all’anno, quasi 100 volte meno rispetto al costo che avrebbe avuto una riduzione delle emissioni di CO2. Quando Wood presentò l’idea durante una conferenza del 1998 al Global Change Institute di Aspen in Colorado, non ricevette un benvenuto particolarmente caloroso: ora il protetto del vecchio si era messo a proporre di salvare il pianeta per mezzo di una gigantesca nuvola di polvere? 

A un certo punto, ricorda Ken Caldeira, Wood si mise perfino a scherzare sul fatto che, secondo lui, il modo migliore per fermare il surriscaldamento globale sarebbe stato iniziare una guerra nucleare. «Fu abbastanza oltraggioso», ammette Caldeira. «Ma ora mi rendo conto che era una provocazione». La presentazione di Wood lasciò a Caldeira dei dubbi. Pensava che la cosa avrebbe inavvertitamente potuto scombussolare le differenze di temperatura fra il giorno e la notte, attenuare i cambiamenti fra le stagioni e sconvolgere la distribuzione del calore fra l’equatore e il polo. Così verificò queste teorie utilizzando un programma informatico che riproduceva il clima della Terra. 

Dopo qualche mese di simulazione, i risultati gli apparvero sconvolgenti: immettere particelle nella stratosfera aveva uno scarso effetto sul clima locale. Le teorie di Wood, evidentemente, erano esatte. Quando arrivo al laboratorio nucleare di Livermore, la sala conferenze dove devo incontrare Wood è vuota. Qualche minuto più tardi, noto quello che sembra un custode lottare con la serratura della porta laterale. La camicia blu penzola fuori dai pantaloni e la fronte è imperlata dal sudore. Soltanto quando vedo il suo badge realizzo che si tratta del “grande inventore di armi”. Wood sembra la caricatura di un professore distratto: spettinato, assente, con le tasche piene di strani pezzetti di carta. Negli anni 60 i colleghi nascosero un mattone di piombo nella sua valigetta e Wood se lo portò dietro per giorni senza nemmeno notarlo. 

Quando il progetto “Star Wars” affondò, Wood divenne un “paria”. Senza più l’Unione Sovietica, aveva bisogno di un nuovo nemico da combattere, e quindi nuovi finanziamenti. Ultimamente, il terrorismo è tornato utile allo scopo. «Mi occupo di minacce», dice. «Aiuto il governo a farsi un’idea su chi potrebbe ucciderci, del come e del quando». Il suo primario interesse, in questo momento, riguarda la diffusione di una pandemia studiata a tavolino, come l’antrace o il vaiolo. Wood è riluttante a parlare della sua vita personale, a parte il fatto che è sposato e che ha una figlia teenager (che, manco a dirlo, è un prodigio della matematica). 

Nonostante a volte lavori come consulente per alcune società, il denaro chiaramente non riveste una grande importanza per lui (guida una Toyota sporca e scassata). Si potrebbe pensare che l’amministrazione Bush apprezzi il suo progetto, non fosse altro che per la possibilità di garantire al mondo un’altra generazione di combustibile fossile in abbondanza. In realtà la geoingegneria ha ricevuto poco sostegno dai repubblicani, nonostante la complessità tecnologica di questa materia sia pari a zero. «Oltre a raffreddare il pianeta», sostiene Wood, «immettere particelle nella stratosfera potrebbe anche aiutare ad aumentare i raccolti, a ridurre l’irradiazione dei dannosi raggi uv, che causano 60mila morti ogni anno per cancro alla pelle, e perfino a rendere i colori dei tramonti più accesi. A chi non piace un bel tramonto?». Molti scienziati sottolineano i possibili effetti collaterali della geoingegneria: immettere particelle nell’atmosfera potrebbe distruggere gli oceani. 

Quando la CO2 in eccesso si dissolve nell’acqua, forma acido carbonico che, a sua volta, viene assorbito dagli oceani, il che porterebbe alla scomparsa delle barriere coralline e al rischio di estinzione per il plancton, che sta alla base della catena alimentare oceanica. Lo scorso giugno, Caldeira e Wood decisero di tentare una simulazione al computer: quanta luce solare, si chiesero, sarebbe necessario riflettere per fermare lo scioglimento dei ghiacci? Quali effetti potrebbe avere sul resto del clima della Terra? Dopo alcune settimane, Caldeira concluse che ridurre di meno del 25% la concentrazione diretta di luce solare sulla calotta polare, preserverebbe il “naturale” livello di ghiaccio nell’Artico, anche con un raddoppio dei livelli di CO2 atmosferica. Portare la riduzione al 25%, equivarrebbe a far aumentare i ghiacci. E la cosa interessante è che il ristabilimento avverrebbe in un tempo molto breve: nell’arco di cinque anni, la temperatura si abbasserebbe di circa due gradi.

Secondo i calcoli di Wood ci vogliono 300mila tonnellate di particelle all’anno per schermare la luce solare nell’Artico del 25%: una quantità irrisoria, su scala planetaria. Per portarle lassù basterebbe una mezza dozzina di 747. Oppure costruire un tubo di Kevlar lungo 15 miglia, con un diametro leggermente più largo di una canna da giardino. Il fondo della canna dovrebbe essere collegato a un combustore che crei la micronizzazione, mentre la cima verrebbe allacciata a un aliante o a un dirigibile idoneo alle altitudini elevate. Siccome le particelle verrebbero lanciate solo sopra l’Artico, il rischio di impatto diretto sugli umani sarebbe minimo. 

E soprattutto, si potrebbe cominciare provando per qualche anno e vedere se funziona. Se qualcosa andasse storto, si potrebbe sospendere la prova e nel giro di un anno tutte le particelle si dissolverebbero. Wood è convinto che la decisione di proseguire nella ricerca e mettere in atto un progetto di geoingegneria su larga scala, non debba essere presa da un’élite scientifica. «Discutiamone insieme», afferma. «E poi votiamo tutti». Ma nella sua visione ottimistica – o, in questo caso, a causa della sua sfacciata convinzione di riuscire ad arginare il pericolo – nessuna distruzione globale provocata dal surriscaldamento globale potrebbe mai essere tanto grave da non consentirci, in tutta la nostra ingenuità, di fermarla. 

«Gli esseri umani sono come gli scarafaggi», dice Wood con il suo tipico humor nero. «È relativamente semplice uccidere il primo 10% della popolazione e, se ti impegni, puoi perfino arrivare a un altro 10% e via dicendo. Ma per quanto ti possa sforzare, non riuscirai mai a far fuori l’ultimo 10%. Troveremo sempre un modo per sopravvivere». 


FONTE  http://www.rollingstonemagazine.it/archivio/lowell-wood-il-ritorno-del-dottor-destino/




LINK DI APPROFONDIMENTO:

Lowell Wood

Lowell Wood’s Home Page

QUEI GENIALI MONACI DELLE ARMI SPAZIALI (Repubblica1984)


fonte: http://www.nogeoingegneria.com/timeline/personaggi/chi-conosce-lowell-wood/

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