Una nuova porta che si apre sul mondo della coscienza
Un
monaco buddista, inseguito da una tigre, corre, corre, corre, fino a
che davanti a un dirupo non cade. Si aggrappa all’ultimo secondo a una
pianta e, sospeso, con la tigre che ancora lo minaccia, nota davanti a
sé una pianta di fragole con una fragola rossa e matura e pensa: “Toh,
una fragola!”.
I koan sono piccole storie zen il cui scopo è veicolare una cultura che per propria natura fonda le sue basi sull’esperienza.
Cosa successe dopo al monaco, la storia non ce lo narrerà mai, quale sia il vero messaggio neanche. Un elemento che spicca è sicuramente il fatto che il monaco abbia notato la fragola in un momento in cui stava rischiando la vita. Minacciato dal vuoto e dalla tigre, la sua attenzione, che in gergo tecnico definiremmo diffusa, gli permette di notare che davanti a lui c’è una fragola. Ma provate a fare un esperimento, provate a chiedere a delle persone cosa notano della storia e se volete anche quale messaggio, quale morale ha la storia.
Probabilmente ogni persona farà delle associazioni con i suoi ricordi, i
suoi giudizi e con le sue visioni di vita, rispondendo cose diverse
l’una dalle altre. Il nostro cervello nasce infatti con la straordinaria
abilità di effettuare connessioni e associazioni con le informazioni
già apprese. È questa abilità che ci permette di astrarre il
ragionamento da una specifica situazione e generalizzarlo riferendolo a
diversi contesti. Un’altra abilità è quella di automatizzare le risposte
che proprio dalle associazioni precedentemente fatte risultano
favorevoli. In altre parole il nostro cervello è molto abile a trovare
soluzioni innovative ai problemi che si trova ad affrontare, basandosi
su quello che sa già e creando nuove associazioni. Se poi la soluzione
trovata risulta essere efficace, viene ricordata e utilizzata ogni volta
che ce n’è bisogno e quindi, nel caso si presenti spesso la stessa
situazione, viene automatizzata.
Automatismi: buoni o cattivi?
Il cervello si basa su un principio di economia in cui ciò che ci è utile viene memorizzato e possibilmente proceduralizzato, viene cioè reso indipendente dalla nostra attenzione. Si svilupperanno così i nostri comportamenti automatici, comportamenti che non necessitano di una costante attenzione nell’eseguirli, come ad esempio guidare la macchina. Dopo anni di pratica siamo in grado di parlare con il passeggero seduto vicino a noi o pensare a quello che dobbiamo fare nella serata e in concomitanza guidare senza prestare attenzione a ogni singolo gesto che facciamo. Ben diversa è la situazione quando impariamo a guidare: ogni movimento ci appare difficile da coniugare con gli altri, ricordare la sequenza dei gesti da effettuare è faticoso e tantomeno la nostra attenzione si distacca da quello che stiamo facendo. Diverso ma simile è il meccanismo alla base della categorizzazione e del conseguente giudizio; infatti impariamo a riconoscere gli oggetti, come anche le situazioni, basandoci su pochi elementi. Siamo in grado di riconoscere un oggetto familiare con pochi tratti, anche se viene presentato per poche decine di millisecondi. La velocità di giudizio di una situazione, se la vediamo in chiave evolutiva, può salvarci la vita.
Riconoscere e
reagire a una situazione di pericolo è una abilità importante per la
sopravvivenza e nell’evoluzione è stata decisamente favorita. Il
cervello è quindi abituato a sommare gli elementi e trarne rapidamente
un giudizio di massima, questo viene eseguito in parallelo sia da
strutture comprese nel paleoencefalo, sia più lentamente dalla
corteccia. L’obiettivo è quello di capire se la situazione, ad esempio, è
pericolosa o meno e quale reazione è la più indicata. Più sono
coinvolte le strutture antiche come l’amigdala, una piccola area del
nostro cervello, più la reazione comportamentale sarà “cablata” e
difficilmente modificabile, tanto che spesso reagiamo alla paura senza
neanche renderci conto di quello che stiamo facendo. L’amigdala infatti
media le risposte vegetative alla paura, innescando tutte le risposte
necessarie alla reazione di fuga o attacco, come il rilascio di
adrenalina.
Con
il coinvolgimento della corteccia diveniamo esperti giudici di
situazioni e in più possiamo elaborare, ancora prima che la situazione
possa diventare oggettivamente pericolosa, elementi che ci indicano se
lo può diventare. La necessità di giudicare la realtà diviene, rispetto a
questa visione, la necessità di semplificare il quantitativo di
informazioni a cui siamo esposti, categorizzandole e inserendole in
schemi già conosciuti. Processi di deduzione e induzione ci aiutano a
fare ciò, e ci permettono di vivere senza dover imparare tutti i giorni
le stesse cose. Immaginate di cambiare macchinetta del caffè,
sicuramente potreste avvertire qualche difficoltà se vi sono differenze
sostanziali tra il modello vecchio e nuovo, ma sarete sicuramente più
rapidi di chi una macchinetta del caffè non l’ha mai vista e se poi i
modelli si somigliano probabilmente non avvertirete nessuna difficoltà.
Gli automatismi e la generalizzazione ci aiutano ad avere a che fare con
una realtà molto complessa che non si presenta mai uguale, ma in cui
noi riusciamo comunque a muoverci. Automatismi buoni quindi, perché ogni
volta che prendiamo la macchina non dobbiamo imparare a guidare
nuovamente.
Cosa ci perdiamo? Ci perdiamo proprio la complessità, vivere in una realtà che illusoriamente ci figuriamo come completamente prevedibile e categorizzata non ci lascia apprezzare le differenze, la novità, la meraviglia di qualcosa che non è mai uguale a se stessa.
Cosa ci perdiamo? Ci perdiamo proprio la complessità, vivere in una realtà che illusoriamente ci figuriamo come completamente prevedibile e categorizzata non ci lascia apprezzare le differenze, la novità, la meraviglia di qualcosa che non è mai uguale a se stessa.
La fragola
Ci perdiamo la fragola della storia del nostro monaco, troppo intenti a prevedere, analizzare, categorizzare, ricordare, dare dei giudizi o peggio semplicemente non considerare la realtà che ci circonda: dal momento che tutti i processi precedenti sono ormai automatici, perdiamo il contatto con il qui ed ora. Il grande rischio è che ci si trovi a vivere una vita priva di piacere, proiettati nel futuro di quello che deve accadere, incapaci di prendere in considerazione le sensazioni e le emozioni che, istante per istante, ci aiutano a scegliere cosa ci piace e cosa no, ci aiutano a sentire il sapore della vita e ci indicano quale percorso, a parità di senso logico, intraprendere e quale vale la pena lasciare.
La mindfulness si propone come tecnica – ma sarebbe più esatto definirla modalità di vita – in grado di aiutarci a ritrovare il presente. Jon Kabat-Zinn (2003) la definisce come la consapevolezza che emerge se prestiamo attenzione in modo intenzionale, nel momento presente e in modo non giudicante, al dispiegarsi dell’esperienza momento per momento. La potremmo definire in altri termini come meta-consapevolezza, essere consapevoli di esserlo. Una capacità che distingue l’essere umano da tutti gli altri esseri viventi. Siamo tutti intrinsecamente mindful, ora più ora meno a secondo dei momenti, e questa pratica che deriva dalla meditazione zen ci aiuta a coltivare e raffinare questo stato.
Il qui ed ora
Il passato e il futuro per la mindfulness non esistono, esiste solo il presente, momento per momento. Nonostante possa essere difficile accettare un concetto del genere, è interessante la spiegazione che ne viene data: il passato non esiste più, è passato appunto, e il futuro deve ancora venire. Per aiutarci a comprendere a fondo cosa si intende, basta pensare come noi esperiamo il mondo e il tutto può diventare più chiaro. I nostri sensi sono la porta per conoscere la realtà: la vista, l’udito, l’olfatto, il tatto, il gusto, ma anche come ha proposto Siegel (2007) la propriocezione (sensazione del proprio corpo rispetto all’ambiente), la sensazione del proprio mondo mentale ed emozionale e infine la sensazione relazionale. Questi sensi, che portano le informazioni dell’ambiente circostante al nostro cervello per essere elaborate e avere come risultato un’immagine interna di esso, lavorano solo nel presente.
Sono, come l’olfatto o
il gusto, chimicamente stimolati e trasformano solo nel presente
l’informazione in un segnale che le nostre aree cerebrali possono
elaborare. Certo, possiamo pensare al sapore di quel caffè speciale in
quel giorno speciale o siamo in grado di pensare al possibile odore del
caffè di domani mattina, ma questo è un ricordo, non esiste, esiste
solamente nella nostra mente. È utilissimo, specialmente se il caffè nel
bar dove siamo stati ieri non ci è piaciuto, però non è un caffè reale.
Solo nel qui e ora possiamo rispondere alla domanda “come ti senti?” basandoci sulle sensazioni reali che stiamo provando e che il nostro cervello sta percependo e non su un’astrazione.
Solo nel qui e ora possiamo rispondere alla domanda “come ti senti?” basandoci sulle sensazioni reali che stiamo provando e che il nostro cervello sta percependo e non su un’astrazione.
Momento dopo momento, le nostre sensazioni corporee cambiano e ci danno gli elementi per sentire le nostre emozioni e trasformarle in pensieri: ho una stretta allo stomaco, sento rabbia, questa situazione mi ha stancato.
Porre l’attenzione al qui ed ora ci permette di uscire dagli automatismi che ci portano a vivere una vita con il pilota automatico inserito, una realtà già pensata, già vista e quindi priva di particolare interesse. In particolare, la mindfulness promuove l’equilibrio di quattro flussi di consapevolezza: la sensazione, l’osservazione, la concettualizzazione e la conoscenza, equilibrio che ci permette di raggiungere uno stato di meta-consapevolezza. Porre attenzione a questi quattro flussi di consapevolezza è un modo per far si che ciò che sappiamo del mondo non ci limiti nel prendere in considerazione ciò di cui stiamo facendo ora esperienza...
Continua la lettura su Scienza e Conoscenza n. 33!
Marco Capozza e Laura Pieroni - 28/08/2013
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