giovedì 16 gennaio 2014

GIORDANO BRUNO

Il Giornale OnlineHo fatto quel che un vincitore poteva metterci di suo: non aver temuto la morte, non aver ceduto con fermo viso a nessun simile, aver preferito una morte animosa a un'imbelle vita.

LA VITA E LA CONDANNA

Giordano Bruno (il suo vero nome era Filippo Bruno, ma assunse quello di Giordano entrando nell'ordine domenicano), ebbe una vita piuttosto movimentata: nato nel 1548 a Nola, presso Napoli (dove studiò e ricevette una prima formazione di stampo aristotelico), prese i voti, ma ben presto i suoi dubbi sulla dottrina trinitaria e su quella dell'incarnazione lo misero in contrasto con gli ambienti ecclesiastici. Allontanatosi da Napoli nel 1576, iniziò a peregrinare per l'Europa: prima a Ginevra, poi a Tolosa e a Parigi (ove godè il favore di Enrico III), dove ebbe inizio la sua produzione filosofica; quindi in Inghilterra (ove fu anche accolto dalla regina Elisabetta), dove insegnò ad Oxford e in questo periodo effettuò la stesura dei dialoghi italiani e di alcune opere latine. Ritornato a Parigi, nuovi contrasti con gli ambienti universitari legati alla tradizione aristotelica lo costrinsero a trasferirsi in Germania, dove insegnò a Marburgo, Wittemberg e Francoforte e completò le opere latine.

Accettata infine l'ospitalità del nobile veneziano Giovanni Mocenigo, nel 1592 fu da questi denunciato all'Inquisizione e fatto arrestare per i suoi dubbi sulla funzione della religione e i sospetti di eterodossia gravanti sulle sue dottrine. In un primo tempo riuscì ad evitare la condanna con una parziale ritrattazione, ma nel 1593 fu trasferito all'Inquisizione di Roma e, dopo sette anni di carcerazione, fu condannato a bruciare sul rogo a Campo dei Fiori (Roma) il 17 febbraio del 1600: l'imputazione mossagli fu di dubitare della trinità, della divinità di Cristo e della transustanziazione, di voler sostituire alle religioni particolari la religione della ragione come religione unica e universale e di affermare che il mondo é eterno e che vi sono infiniti mondi. Giordano Bruno é uno di quei pensatori diventati famosi per via di vicende in parte estranee alla loro filosofia; é uno di quelli che ha avuto vicende "disgraziate", é un martire del pensiero, un pò come Socrate: fu infatti processato dalla Chiesa cattolica e infine condannato a bruciare sul rogo. Giordano Bruno fu di carattere particolarmente irrequieto e, come detto, fin dall'inizio non si sentì convinto da alcune verità dogmatiche della chiesa cattolica e finì per abbandonare i voti e distaccarsi dalla chiesa cattolica.

Durante le sue peregrinazioni arrivò a simpatizzare per la causa calvinista per ovvi motivi: gli sembrò essere una protesta ai danni della chiesa cattolica nella sua dimensione istituzionale; del calvinismo colse quindi soprattutto il messaggio "liberatore". Comunque poi abbandonò questa simpatia per il calvinismo e, paradossalmente, tornò indietro sui suoi passi accettando alcuni valori della dottrina cattolica. Da notare che il suo processo é durato diversi anni, il che testimonia che l'inquisizione romana non era poi così efferata e malvagia come si può pensare, a differenza di quella spagnola. Dove e quando potevano i giudici della chiesa romana cercavano delle vie di compromesso: c'era una "buona volontà" nella chiesa cattolica che trovava qualche appiglio nelle posizioni di Giordano Bruno: fu lui che non ebbe alcuna intenzione di rinunciare ai principi di fondo della sua "dottrina" e quando si trovò al momento della decisione finale preferì morire ma mantenere le sue posizioni. Ci doveva pur essere qualcosa che poteva dare adito a un confronto e a un dialogo con la chiesa cattolica se ci misero quasi otto anni a ucciderlo: la parziale accettazione del cattolicesimo, sulla base essenzialmente di posizioni averroistiche: anche con la fede si può raggiungere la verità, sebbene si tratti di una verità di second'ordine rispetto a qella filosofica, una verità insomma destinata alla massa, al volgo.

Giordano Bruno, comunque, era convinto che le religioni potevano essere buon strumento per far acquisire alla "massa" alcune verità, magari meno precise e più discutibili, e soprattutto potevano essere strumento di controllo delle masse; é evidente che Giordano Bruno rientra pienamente nell'aristocraticismo intellettuale propugnato da Averroè. E'ovvio che questo per i giudici dell'inquisizione non bastava per salvarlo, ma in fin dei conti poteva essere un buon punto di partenza per una sorta di trattativa. Dovendo poi scegliere tra le religioni, quella che maggiormante si confaceva alle istanze di Giordano Bruno era il cattolicesimo e non certo il calvinismo, per vari motivi: innanzitutto quella di Calvino era essenzialmente una protesta e non solo intellettuale (come voleva Giordano Bruno), ma anche "fisica": il calvinismo divenne vero e proprio strumento di guerra e di disordine ed é quindi comprensibile che Giordano Bruno preferisse il cattolicesimo, che se non altro si prefigurava come strumento di pace. In più Giordano Bruno non poteva accettare l'idea della predestinazione tipica del calvinismo: principio ispiratore della filosofia di Bruno é proprio la libertà e l'idea di essere predestinati dall'eternità non lasciava ad essa grande spazio.
Fatte queste premesse, é ovvio comunque che la Chiesa si comportò con Bruno (e con molti altri) in modo subdolo e riprovevole, condannando a morte una persona solo perchè sostenitrice di idee diverse; qualunque cattolico non può non riconoscere la meschinità di questa condanna, di questo gesto che ben sintetizza l'atteggiamento della Chiesa nel corso della storia; altri fulgidi esempi di questo scempio cattolico sono il Savonarola e il pugliese Cesare Vanini, in un certo senso precursore dell'illuminismo. Ben diverso é poi l'esito del processo di Bruno rispetto a quello di Galilei: Bruno é condannato, Galileo abiura, ossia firma un documento dove c'é scritto che le sue teorie sono false e viene così salvato. Galileo é stato più volte criticato perchè pur di salvare la pelle ha fatto per così dire "marcia indietro", rinunciando alle sue teorie. In realtà c'é una questione di fondo: la diversità degli atteggiamenti di questi due intellettuali, Giordano Bruno e Galilei, nasce non solo da diversità caratteriali, ma anche dagli ambiti di interesse dei due. Galilei é uno scienziato più che un filosofo: questo é significativo perchè la filosofia può aver bisogno di martiri perchè in qualche modo é una verità soggettiva, che va vissuta, non é un fatto meramente teoretico; non é la verità matematica, inconfutabile e solida: detto in altri termini, di Galilei ci ricordiamo malgrado la sua figura, ma Bruno, se avesse abiurato, avrebbe senz'altro avuto meno importanza nella storia del pensiero. Non a caso questi personaggi "martiri" come Socrate, Anassagora sono tutti personaggi per i quali la testimonianza che hanno dato diventa un elemento della loro filosofia:

Socrate aveva ben ragione a suo tempo a dire di non poter fare "marcia indietro ", perchè sarebbe stato come negare tutto ciò che per una vita intera aveva sostenuto. Invece ha ugualmente ragione Galilei a dire il contrario, tant'é che si racconta che uscito dal tribunale dove aveva firmato il documento di abiura scalciasse contro la terra dicendo: "eppur si muove!", che é come dire: "io ho firmato il documento, sono salvo e posso proseguire i miei studi, però la verità da me sostenuta continua ad essere vera: la Terra continua a muoversi anche se io ho effettuato questa scelta!". In un certo senso Galilei ha fatto bene ad agire così perchè tanto le sue verità sono emerse nonostante la condanna e inoltre, dopo il documento di abiura, ha scoperto nuove verità che non avrebbe potuto scoprire se messo sul rogo. Questo non sarebbe certo stato valido per Socrate o per Bruno; egli é diventato simbolo della libertà di pensiero, un simbolo strano si dovrebbe aggiungere, in quanto c'é spesso stato chi di lui ha fatto un eroe laico, il che é vero fino ad un certo punto: é vero che é andato contro alla chiesa cattolica, però poi il contenuto della sua filosofia é tutto fuorchè laico. In modo simile a Socrate, Bruno preferì terminare la propria esistenza in modo eroico e coerente piuttosto che rinnegare i suoi ideali e condurre una vita che avrebbe perso di significato: "Ho lottato, é molto: credetti poter vincere (ma alle membra venne negata la forza dell'animo), e la sorte e la natura repressero lo studio e gli sforzi. E'già qualcosa l'essersi cimentati; giacchè vincere vedo che é nelle mani del fato. Per quel che mi riguarda ho fatto il possibile, che nessuna delle generazioni venture mi negherà; quel che un vincitore poteva metterci di suo: non aver temuto la morte, non aver ceduto con fermo viso a nessun simile, aver preferito una morte animosa a un'imbelle vita. "(De monade, numero et figura).


L'INFINITA' DELL'UNIVERSO
Esaminiamo ora i contenuti veri e propri della sua filosofia: Bruno é uno strenuo sostenitore della infinità dell'universo; uno degli aspetti della rivoluzione scientifica fu la rivoluzione astronomica, ossia le nuove teorie sulla struttura dell'universo. Con Copernico dalla teoria geocentrica si passò a quella eliocentrica, un radicale cambiamento di punto di vista: certe cose non potevano essere spiegate guardando dalla Terra, e così Copernico passò ad esaminare dal Sole, cambiando appunto il punto di vista. E'importante l'impatto che ebbe sul mondo questa teoria: ci fu chi la rifiutò perchè faceva letteralmente paura perchè dava il senso di perdita di punti di riferimento: da Aristotele in poi si era abituati all'idea di un mondo finito posto al centro dell'universo con punti di riferimenti assoluti. Con Copernico non si arriva ad affermare l'infinità del mondo, ma si vengono a "scardinare"alcuni punti di riferimento, primo fra tutti la centralità della Terra. Molte persone videro subito nelle teorie di Copernico qualcosa che faceva traballare non solo la Terra ma anche l'uomo, che non era più il centro; con Copernico i centri di rotazione diventano due: il Sole é centro di rotazione dei pianeti e la Terra é centro di rotazione della Luna; per la prima volta non c'era più un centro assoluto e ammettere due centri é un primo passo per arrivare a dire che di centro non ce n'é proprio nessuno!

Son tutte cose che psicologicamente fan paura alla gente comune. Ci fu anche chi accolse positivamente l'ipotesi copernicana, essenzialmente per due motivi: scientificamente era più vera e quindi Galilei non tarderà ad accettarla, poi chi la accettò, come Bruno, non per motivi scientifici (basti pensare che quando Bruno ne parla nelle sue opere pare avere le idee un pò confuse a riguardo: ha sì compreso le linee essenziali del pensiero di Copernico, ma non perfettamente), bensì per motivi sociologici: gli interessa esattamente ciò che impauriva gli altri; prende la teoria copernicana come punto di partenza e non di arrivo, cioè a differenza di Copernico stesso che (ricordiamolo) aveva negato l'infinità dell'universo, Bruno accetta la teoria come punto di partenza per ammettere l'infinità dell'universo. Ma come faceva la teoria copernicana a consentire l'infinità dell'universo? Ammettere due punti di rotazione é un primo passo verso l'ammissione di più punti di riferimento assoluti e in qualche modo già questo lascia intravedere la possibilità di una infinitezza: quale era il ragionamento di Aristotele per dire che il mondo é finito? Diceva: se prendo una penna e la lascio cadere va per terra, verso il suo luogo naturale; dalla presunta constatazione dell'esistenza di moti e di luoghi naturali allora deve esistere un centro assoluto: perchè ci siano un alto e un basso assoluti ci deve essere un mondo finito; se il mondo fosse infinito non ci sarebbero alto e basso, diceva Aristotele.

Copernico quindi aveva posto le premesse per dimostrare la infinitezza del mondo. Poi c'é un'altra faccenda: l'universo aristotelico é finito e piuttosto piccolo: la distanza tra la Terra e il cielo delle stelle fisse (la "pelle" del mondo) era circa due - tre, magari anche dieci volte quella che separa la Terra dal Sole. Invece Copernico deve fare i conti con un'obiezione, quella dell'inesistenza dell'effetto di parallasse: supponiamo di ammettere la teoria aristotelica che vuole la Terra ferma: il cielo delle stelle fisse si muove e la Terra sta ferma. Se ci muoviamo nell'ambito della teoria Copernicana la Terra si muove intorno al Sole: i rivali di Copernico lo criticavano perchè se fosse stato vero ciò che diceva lui noi dovremmo vedere (per l'effetto di parallassi) le stelle in modo diverso a seconda delle stagioni, ossia a seconda di come é orientata in quel momento la Terra intorno al Sole, ma visto che ciò non accade, allora la Terra é ferma: a quei tempi infatti si era arrivati a capire che il cielo delle stelle fisse fosse fermo e se quindi la Terra fosse stata in continuo moto si sarebbe dovuto vedere il cielo delle stelle fisse "muoversi", o meglio, cambiare di posizione. Copernico fu quindi costretto a dire che l'effetto di parallassi c'era ma era talmente piccolo che non si vedeva e quindi dovette aumentare la grandezza dell'universo, la distanza Terra-stelle fisse: la Terra si muove, diceva Copernico, e l'effetto di parallassi c'é, solo he il cielo delle stelle fisse é così distante da noi che manco ce ne accorgiamo.

Copernico continuava sì a riconoscere finito l'universo, ma esso diventava comunque enormemente più grande, in altre parole apriva la strada per il mondo infinito. Bruno non fa altro che sfruttare queste considerazioni per dire che il sistema copernicano é giusto e per sostenere positivamente l'infinità dell'universo. Quello che per i più era segno di smarrimento e perdita di riferimenti, per Bruno diventa punto di partenza per una visione liberatoria dell'universo: l'universo finito per lui sarebbe stato troppo piccolo per lasciare spazio alla libertà dell'uomo: l'universo finito fisicamente per Bruno é una casa ma anche una gabbia, quello infinito non può più essere una casa ma neanche più una gabbia e questo a Bruno piace. L'idea del mondo infinito dà l'idea di un'infinita libertà umana. Comunque Bruno propone anche argomentazioni scientifiche a supporto dell'infinitezza del mondo, che ricalcano quanto già avevano detto Ockham e Cusano: Ockham aveva detto che il mondo é finito, ma che nella sua onnipotenza Dio avrebbe potuto farlo infinito; Cusano in modo un pò ambiguo (doveva essere compatibile col cristianesimo) diceva che la causa infinita non può che estrinsecarsi in un effetto infinito e diceva anche che il mondo é infinito nel senso che é somma infinita di enti finiti.

Invece Bruno dirà una volta per tutte che l'universo é infinito proprio perchè effetto di una causa infinita; non solo, ma se esaminiamo la questione in termini cusaniani, ossia se il centro dell'universo può essere identificato con qualsiasi punto dell'universo stesso (dato che la concezione dell'universo come contrazione di Dio conduce Cusano a vedere in esso la stessa infinità di Dio), la sua circonferenza, cioè il suo confine, non può essere determinato ed esso si estende in misura ugualmente indeterminata da ogni lato: quindi la caratteristica principale dell'universo non é il suo confine, ma la sua illimitatezza, e se esso si estende all'infinito, così anche la vita che in esso pullula si propaga all'infinito: per Bruno ci sono due generi di corpi nel cosmo, i soli e le terre: i primi luminosi ed ignei, le seconde cristalline o acquee e lucide: il fatto che noi vediamo solo i soli (ossia le stelle) e non le terre, dipende esclusivamente dal fatto che gli uni son grandi e le altre, molto minori, son rese invisibili dalla distanza. Non c'é altra diversità di natura e di dignità tra gli astri: "si noi fussimo ne la luna o in altre stelle, non sarreimo in loco molto dissimile a questo, e forse in peggiore "(La cena de le Ceneri). Comuni a tutti gli astri sono il movimento, i motori, la materia e lo spazio in cui si muovono. Il loro moto é circolare. Infiniti sono i soli e infinite le terre: credere che esistano solo i pianeti che già conosciamo é come credere che esistano solo gli uccelli che passano davanti alla propria finestra!

Con le sue affermazioni Bruno sapeva bene di andare a finire nel panteismo (ossia che Dio e il mondo sono la stessa cosa), ma il suo rapporto con la religione era ben diverso da quello di Cusano, che lavorava all'interno della Chiesa stessa. Se Bruno nutre grandi simpatie per la teoria copernicana, che apre le porte all'infinitezza del mondo, egli non può che disapprovare le dottrine di Aristotele per diversi motivi: in primo luogo Bruno é un umanista e tipica dell'Umanesimo é l'avversione nei confronti dello Stagirita in quanto filosofo preferito dei Medioevali; in secondo luogo Aristotele aveva strenuamente sostenuto la finitezza dell'universo; nel De immenso, composto in Inghilterra nel 1583, Bruno, difendendo l'infinitezza dell'universo, designa Aristotele come "il Sofista", anzichè "il Filosofo" come erano soliti chiamarlo i Medioevali: proprio come i sofisti, che partendo dal presupposto che la parola può tutto, dimostravano le cose più strampalate e distanti dal vero, così Aristotele (che sempre nel "De immenso "Bruno definisce" ministro della stoltezza") dimostra la finitezza dell'universo. Nella Cena delle ceneri (Inghilterra, 1584) Bruno critica le tesi del teologo luterano Osiander, che, nella prefazione anonima al De revolutionibus orbium coelestium, sostiene che il modello astronomico eliocentrico non ha valore fisico e cosmologico, essendo soltanto un’ipotesi astronomica, modello geometrico utile per spiegare congetturalmente i fenomeni celesti. Questa interpretazione, sostenuta dai professori inglesi calvinisti, riduce il contrasto della teoria con la lettera della Sacra Scrittura.

Contro di essa Bruno afferma la verità fisica e cosmologica dell’eliocentrismo, tentando di mantenersi su di un piano esclusivamente filosofico, non volendo affrontare la questione (teologica) della concordanza tra eliocentrismo e Bibbia. Nella Cena la critica si indirizza innanzitutto contro le premesse filosofiche del geocentrismo. Vengono presi di mira i capisaldi della fisica aristotelica, allo scopo di confutare gli argomenti tradizionali contro il movimento della terra: Bruno perviene a principi quali quello di relatività dei movimenti e di inerzia. Detto questo, Bruno cerca di spiegare che rapporto c'é tra universo e Dio: si serve dell'esempio della statua, già usato da Aristotele. Il rapporto tra Dio e il mondo é lo stesso rapporto che c'é tra lo scultore e la statua: se io guardo la statua, essendo essa effetto dello scultore, io conoscendo la statua conosco in qualche misura anche lo scultore; ma non lo conosco totalmente perchè nella statua ci mette una parte di sè, non tutto se stesso: rimane una parte che é inconoscibile. Bruno fa anche una distinzione tecnica tra due parole, nella sua opera "Della causa principio ed uno".

C'é differenza tra dire causa e dire principio: causa é quando qualcosa produce restando fuori dalla cosa prodotta ("ciò che concorre alla produzione delle cose esteriormente, ed ha l'essere fuor de la composizione"), principio é quando qualcosa é parte di ciò che ha prodotto ("ciò che intrinsecamente concorre alla costituzione della cosa e rimane nell'effetto"): per esempio nelle famose quattro cause di Aristotele, la causa materiale e quella formale sono principi perchè generano la cosa e ne fanno parte; quella efficiente no perchè sta fuori dalla cosa prodotta. Lo scultore in questo senso é causa e principio contemporaneamente perchè agisce dall'esterno, ma qualcosa di sè all'interno della statua lo lascia. Lo stesso discorso vale per il rapporto Dio - mondo: il mondo é l'effetto di Dio. Dio ha prodotto nel mondo e in qualche modo é quindi presente nel mondo, nulla impedisce tuttavia di pensare che Dio non si sia "esaurito" nel creare il mondo: mantiene una sottile distinzione Dio-mondo.

Il mondo é sì un'estrinsecazione di Dio, ma ciò non significa che Dio sia tutto solo nel mondo. Però Bruno faceva questa aggiunta: come filosofo posso conoscere solo ciò che Dio ha messo di sè nel mondo: nel mondo colgo la presenza di Dio. Non posso però, come per la statua, conoscere tutto Dio, posso conoscere come Dio si é espresso nell'universo. Non posso conoscere Dio in sé, ma posso conoscerlo come presente nel mondo: si parla di "Deus super omnia " e "Deus insitus omnibus": l'idea di un Dio che sta sopra all'universo ma che vi sta anche dentro. Allora Bruno diceva che quello che é Deus super omnia l'uomo non può conoscerlo (a meno che Dio non glielo voglia far sapere tramite verità rivelate, alle quali peraltro Bruno non pare dare molto peso); come filosofo posso conoscere Dio solo nella misura in cui si é calato nell'universo: questo consente a Bruno di poter dire che non si può parlare del Dio che non si é calato nell'universo: non può (perchè la ragione non può arrivare a tanto) e non vuole (perchè non nutre interesse per la questione). Bruno ammette che Dio esista come super omnia, ma fino a che punto il suo discorso era sincero? Probabilmente era solo una scusa quella che il Dio super omnia non lo si può conoscere e quindi non se ne può parlare perchè forse Bruno credeva solo in quello insitus omnibus.

BRUNO, PLOTINO, CUSANO E GLI STOICI
Esaminiamo le differenze tra gli atteggiamenti di alcuni pensatori in qualche modo "vicini"a Giordano Bruno per quel che riguarda le idee filosofiche: quella di Plotino, quella di Cusano, quella degli Stoici e quella di Bruno sono infatti tutte filosofie con forti tendenze immanentistiche o addirittura panteistiche, pur con varie differenze e sfumature tra loro. La filosofia di Plotino si reggeva su un equilibrio tendenzialmente instabile perchè aveva aspetti sia trascendenti (le idee), sia immanenti (le cose sensibili, riflesse dall'anima): egli per descrivere il rapporto Dio-mondo si serviva della metafora della fonte: Dio é la sorgente che genera le cose sensibili (che sono il corso d'acqua): la fonte é radicalmente altra cosa dal ruscello e quindi c'é la trascendenza, ma il legame ruscello - fonte é davvero stretto, indisgiungibile: per qualche verso la fonte si identifica nel ruscello, é presente in esso: non c'é il rapporto creazionistico che separa creatore e creatura (e che é il fondamento stesso del Cattolicesimo) e ciò che viene "emanato" dalla fonte é sempre legato alla fonte stessa. Il risultato é che c'é un equilibrio instabile tra immanenza e trascendenza. Cusano, dal canto suo, riprendendo queste teorie, accentua la trascendenza perchè insiste sul concetto di "contrazione", ossia il concetto che gli serve a mantenere netta la distinzione tra mondo (massimo contratto) e Dio (Massimo assoluto); in altre parole Cusano rende Plotino compatibile al cristianesimo e al creazionismo, introducendo il concetto di contrazione.

Giordano Bruno fa in un certo senso lo stesso lavoro, ma in senso contrario: certamente recupera parecchi elementi cusaniani, per esempio la coincidentia oppositorum con tutte le sue articolazioni; però c'é una grande differenza tra i due: mentre Cusano, infatti, porta Plotino in una direzione (la trascendenza), Bruno lo porta in quella opposta, ossia verso l'immanenza. Per dirla con uno slogan, Bruno é Cusano senza la contrazione, cioè tende a ridurre al minimo, fino ad eliminare la differenza tra creato e creatore e a creare il rapporto di creazione: Dio é causa ma é anche principio, ossia é una causa che resta "dentro" a ciò che causa. C'é sì in Bruno sullo sfondo l'idea di un Dio trascendente, come detto, ma lui di fatto non se ne occupa perchè convinto che per l'uomo sia impossibile occuparsi di un qualcosa che non può assolutamente conoscere (con la ragione). Questo, tra l'altro, permette di effettuare un collegamento Bruno - Telesio: Telesio scrisse l'opera "La natura spiegata secondo i suoi principi" dove diceva che é vero che ci sarà un Dio che crea la natura, ma non importa: a lui interessava studiare la natura e non Dio. E'esattamente il discorso che fa Bruno, in chiave più religiosa: può darsi che ci sia un principio soprannaturale, ma io non me ne occupo. Magari c'é un Deus super omnia, ma non é oggetto di filosofia, tutt'al più di fede.

L'unico Dio che veramente c'é per l'uomo, e ancora di più per il filosofo, é il mondo, il Deus insitus omnibus. Cusano diceva "in Dio ci sono determinate cose, nel mondo ci sono ma in maniera diversa, non più assoluta": la Trinità c'é in Dio e c'é anche nel mondo sotto forma dei tre momenti in cui si articola il moto. Bruno invece dice che tutto ciò che si può affermare di Dio lo si può affermare anche del mondo, perchè essi finiscono per essere la stessa cosa. In Bruno poi c'é anche qualcosa di stoico: é infatti il tipico autore umanista che recupera tutto ciò che non sia aristotelico e che quindi recupera pure gli stoici. La sua, infatti, é certamente come quella stoica una concezione immanentistica; c'é anche nella tradizione stoica l'idea che libertà e necessità coincidano: la vera libertà umana per loro non é il libero arbitrio, ossia il poter scegliere questo invece di quello, ma la capacità dell'uomo di adattarsi alla razionalità del tutto (il Logos), farsi governare dalla propria natura intrinseca. Gli stoici ammettono la coincidenza degli opposti, perchè dire che necessità e libertà, che sono due concetti antitetici, coincidano significa proprio effettuare una identificazione degli opposti. Ma ci sono anche diversità tra Bruno e stoici: la posizione stoica é panenteistica (Dio é dappertutto), ma non panteistica: il mondo non si identifica totalmente con Dio, é la forma del mondo che si identifica con Dio; per loro la forma e la materia sono uniche e la forma é proprio il Logos, o Dio che dir si voglia: Dio é dappertutto perchè in ogni cosa c'é la forma, la quale é espressione del Logos.

Invece in Bruno questa distinzione é assente: in Bruno non c'é Dio che si identifica con la forma e accanto la materia; in Bruno non c'é opposizione materia - forma e quindi la sua attenzione é totalmente rivolta al mondo, che si identifica con Dio; quella di Bruno é quindi una concezione radicalmente panteistica perchè tutto il mondo é Dio, non solo nei suoi aspetti formali, ma anche in quelli materiali. Motivi plotiniani sono anche coglibili nel De umbris idearum: egli muove dal presupposto neoplatonico dell'inconoscibilità dell'essenza divina, a cui tuttavia l'uomo si avvicina, come l'ombra, partecipe della luce e delle tenebre, si avvicina alla luce: dal quale presupposto si svolgono i due processi opposti del descensus da Dio all'uomo e del conseguente ascensus mistico dall'uomo a Dio: nel De umbris idearum compare la famosissima asserzione "umbra profunda sumus"; le idee vengono analizzate in rapporto alle ombre e in se stesse. Di qui si sviluppa un’arte della memoria. La conoscenza umana è strutturalmente umbratile, non può conoscere la verità, guardare in faccia Dio (questo tema verrà ripreso e ribadito nel De la Causa, per cui della divina sustanza nulla possiamo conoscere se non per modo di specchio, ombra o enigma; e nei Furori: non possiamo vedere Dio se non come in ombra e specchio).

Vediamo platonicamente la realtà come l’ombra che si proietta sul fondo della caverna, alla quale volgiamo le spalle sin dalla nascita. Le idee umane, ombre dell’eterna idea, possono essere pensate, e ricordate, solo se rivestite di forme sensibili, adeguate ai nostri sensi. Esse sono un ponte tra luce e tenebre, e consentono di cogliere l’unità della realtà e gli intimi legami da cui essa è permeata. Dal punto di vista delle idee, non vi è alcun aspetto della realtà che non abbia valore, esse connettono infatti i massimi e i minimi. Si dà così (contro i peripatetici) scienza del singolare e del particolare. Bruno stravolge qui la tradizione filosofica occidentale attraverso il tema dell’ombra: in ambito gnoseologico, ontologico, cosmologico. Dal nesso ombra-luce, nei dialoghi italiani scaturiscono l’universo, la differenza tra Dio e universo, tra infinità e infinità. Sul piano etico della natura umbratile si svilupperà, attraverso il tema del limite, l’eroico furore. Nel De Umbris compare anche il tema ermetico dei Mercuri inviati dagli dei, con i quali Bruno finirà per identificarsi. L’ars memoriae si concentra sull’idea secondo cui nell’universo è presente e operante una trama di intrecci, combinazioni, acquisibile tramite un sapere operativo in grado di conoscere e trasformare. Vi è un profondo nesso tra mnemotecnica e magia. Questa stessa ars memorie ricompare poi nel Cantus Circaeus, in forma di compendio (e che con alcuni tagli ricompare nell’Ars reminiscendi pubblicata in Inghilterra).

È inoltre alla base del rinnovamento religioso e politico dello Spaccio e della Cabala. Una crisi della memoria, in rapporto all’umbratilità, si sviluppa come scissione all’interno della natura, tra essere e apparire.. Nel Cantus circaeus affiora il tema della crisi che travaglia il mondo. Circe osserva come si siano rotte le leggi della natura, la giustizia e la virtù siano venute meno. Si è spezzato alla radice il nesso tra essere e apparire (nesso che verrà ristabilito nel De la causa in senso ontologico e cosmologico, e nello Spaccio in senso storico e “religioso”), tra l’essere e i caratteri con cui l’essere si manifesta. Circe si accinge a ristabilire l’armonia tra essere e apparire, tra anima e corpo. Trasforma dunque gli uomini in quello che essi effettivamente sono, e li priva delle armi essenziali al loro malefico dominio. Ridotti a bestie, restano senza lingua e senza mano, senza gli strumenti con cui avevano spezzato le leggi naturali e l’armonia: ciò che appare (i caratteri) coincide con ciò che è. Dall’analisi dei caratteri manifesti è quindi possibile individuare l’uomo (il tipo) che si cela sotto le forme animali. L’esempio del porco (che, secondo il Mocenigo, durante il processo a Bruno rappresenta il papa), è comprensibile tramite una presentazione mnemotecnica dei suoi caratteri. Ma questa forma di neoplatonismo, acquisito dalla tradizione e scevro di importanti novità, é la parte meno originale del pensiero bruniano.

Interessante é invece la commedia il Candelaio, nella quale Bruno avvia una riflessione generale sulla civiltà umana. Come ciascun mondo nell'universo é centro e circonferenza, così per similitudine ogni uomo é strumento di un unico infinito che lo condiziona, ma che é a sua volta condizionato dalla realizzazione all'infinito di ciascuna potenzialità umana. L'uomo cosciente di ciò realizza con successo le sue capacità infinite nella creazione artistica, o nell'azione finalizzata al bene comune. Nell'idea di civiltà umana guidata da Dio, sono infiniti anche i possibili sviluppi di ciascun uomo verso una rinnovata convivenza pacifica ed é "infinitamente infinito" il bene che l'uomo può raggiungere imitando nel mondo le operazioni di Dio nella natura. Inoltre il Candelaio riprende il motivo del tempo, della crisi e delle idee. Qui Bruno scrive: "Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa s’annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente, uno, simile e medesmo". Questa è la filosofia che “aggrandisse” l’animo. La vicissitudine universale è un alternarsi di luce e tenebre, di ignoranza e sapienza. Emerge ancora il ruolo dell’ombra. In essa è radicata la felicità del sapiente, non quella del furioso. L’eroico furore è invece il rovesciamento esatto di questa consapevolezza dello scioglimento della crisi, di questa felicità e sapienza. Il furioso si pone infatti su un estremo, su un oltre, forzando il limite entro cui si salda la virtù del saggio.


IL SUPERAMENTO DEI DUALISMI
Stabilito che Bruno é più panteista di tutti gli altri filosofi esaminati e che di Plotino accentua soprattutto l'immanenza della realtà, dobbiamo ora vedere il rapporto tra Dio e cose, tra l'infinito e il finito: é il classico problema presente fin dalle origini della filosofia del rapporto uno - molti. In Bruno uno e molti finiscono per essere la stessa cosa perchè il principio é tutto interno al mondo; ma allora che rapporto intercorre tra il principio e le cose che da esso si articolano? Per capirlo possiamo fare riferimento ad un'immagine che propriamente é di Spinoza, il quale é un filosofo che si richiama palesemente al panteismo bruniano; si capisce che non é un'immagine di Bruno perchè é "matematica" e in fin dei conti l'uso che fa Bruno della matematica é puramente "magico": non a caso il suo processo comincia con l'accusa da parte del nobile veneziano che lo ospitava e pare che egli lo abbia denunciato per dispetto, in quanto Bruno gli aveva promesso di insegnargli la magia - matematica, ma lui era insoddisfatto degli insegnamenti. Al di là di questa vicenda personale, é interessante notare l'interessamento di Bruno per la magia, ossia la capacità di trasformare la realtà.

Nel De Monade numero et figura tra numeri e figure si stabilisce un nesso organico che permette di conoscere la realtà trasformandola: tramite caratteri immagini e sigilli, tramite le strutture che regolano il ritmo. Conoscere i rapporti numerici e le figure geometriche significa individuare le proprietà delle cose, capire il loro significato nell’ordine del mondo, poter agire (e agire effettivamente) sulle cose. Però da un passo di Bruno emerge che cosa egli effettivamente intendesse per magia; il passo dice: "grande magia sarebbe quella di uno che fosse in grado di passare dall'unità alla molteplicità e dalla molteplicità all'unità". La magia é da lui intesa come capacità di cogliere i meccanismi secondo i quali l'unità si articola nella molteplicità, e la molteplicità é tutta "ricomposta"nell'unità. Si tratta del vecchissimo problema che risale alle origini della filosofia: già Talete diceva che il principio fosse l'acqua e in qualche modo doveva spiegare in che senso essa poteva diventare tutte le cose e in che senso tutte le cose erano acqua: come possono l'uno e il molteplice collegarsi tra loro?

Bruno affrontava la questione sfruttando teorie pitagoriche, ma questo non riusulta particolarmente interessante. Torniamo ora all'immagine di Spinoza che ben spiega la questione: é un'uso metamatematico, alla Cusano: "il mondo e tutte le sue articolazioni (i modi) derivano dall'unica sostanza divina come le proprietà del triangolo derivano dall'essenza del triangolo": questa immagine che di non bruniano ha solo l'uso metamatematico é particolarmente significativa perchè fa capire come il passaggio dall'uno al molteplice non implichi un "uscir fuori" del molteplice dall'uno: il passaggio dall'uno ai molti era sempre stato visto come un esteriorizzarsi dell'uno: per esempio, in Plotino quando l'essere usciva dall'Uno manteneva pur sempre un legame con esso, un "peduncolo", tuttavia la fonte non era il ruscello; stesso discorso valga per Cusano; invece pensiamo al triangolo e alle sue proprietà e ai suoi teoremi: ragionando sull'essenza del triangolo, per dire, posso arrivare a dimostrare che la somma degli angoli interni vale 180 gradi.

Allora é chiaro che dall'unica essenza del triangolo faccio venir fuori cose che erano implicite; in fondo é l'idea cusaniana dell'esplicazione e della complicazione: tutto é complicato nell'essenza del triangolo e poi si esplica sotto forma di teoremi, proprietà, ecc. Però una diversità rispetto a Cusano c'é: la contrazione di fatto non c'é, non c'é un uscir fuori, un distaccarsi del mondo rispetto a Dio: i teoremi non stanno mica fuori dal triangolo, mica escono fuori da lui; in Cusano invece era come se con la complicazione ci fosse quasi un'altra cosa, diversa dal massimo assoluto. Gli enti singoli e finiti che compongono l'universo (che poi é Dio) non sono altro che manifestazioni individuali dell'unica sostanza divina: già per gli stoici le cose erano modi di manifestarsi dell'unica forma, sostanza divina (il Logos). Quella di Bruno é quindi, in modo radicale, una concezione monistica: non ci sono tante sostanze, ma una sola, che di fatto é Dio e si identifica con il mondo. Quelle che noi chiamiamo comunemente sostanze sono solo "articolazioni" interne dell'unica sostanza (così come le proprietà del triangolo sono articolazioni del triangolo stesso): é il triangolo che esiste, non le sue proprietà; esse esistono solo come proprietà del triangolo, hanno cioè esistenza "parassitaria" proprio come gli accidenti aristotelici (il giallo, il bello, il grosso) che per esistere hanno bisogno di una sostanza alla quale riferirsi (un libro, un cavallo, una casa).

Solo che per Aristotele gli accidenti erano riferiti alle singole sostanze, mentre per Bruno sono le cose ad essere accidenti, singole manifestazioni dell'unica sostanza. Il che implica, tra l'altro, la negazione della morte, che non esiste: Bruno riprende le posizioni eleatiche, che vedevano la morte come aggregazione e disgregazione: la morte esiste solo come trasformazione dell'unica sostanza. Uno potrebbe dire che magari sarà anche vero che la morte é solo disgregazione, ma comunque questo non ci garantisce due cose: il permanere della vita e della coscienza. Per Bruno però il mondo non é un mondo inerte e meccanicistico, bensì é un mondo vivente: é vero che per lui non esiste la sopravvivenza individuale, ma in realtà propriamente non é morto perchè ciascuno di noi di fatto non é una sostanza, é solo un manifestarsi dell'unica sostanza, in secondo luogo perchè la materia di cui siamo fatti quando moriamo si trasforma in altro: nessuna materia é inerte e quando moriamo lasciamo comunque spazio ad una materia che continua ad essere viva, perchè tutto é vivo. Bruno crede, da buon platonico, al concetto di anima del mondo: il mondo é un grande essere vivente, anzi, in fin dei conti é l'unico essere vivente: infatti tutti quelli che noi chiamiamo enti non esistono come sostanze, ma come manifestazioni dell'unica sostanza che é il mondo e quindi Dio.

In altre parole, noi non consideriamo un dito come essere vivente, ma lo consideriamo come organo facente parte di un unico essere vivente, il corpo umano. Questo é il nostro modo di pensare: in un certo senso Bruno concepisce tutta la realtà come viva e tutti gli enti come manifestazioni dell'unica sostanza, come se ciascun ente fosse un dito dell'unico corpo vivente che é il mondo. Perchè queste manifestazioni della realtà, che noi chiamiamo enti, si chiamano invece modi? Perchè dovendo dire quale é la differenza tra il Dio - universo (l'unica vera sostanza) e le singole cose, Bruno dice questo: "sia l'universo sia le singole cose possiedono tutto l'essere": le cose per Bruno propriamente rispetto all'universo sono qualcosa di più che una parte, sono un modo di manifestarsi di essa: non é che l'universo ha tutto l'essere e che le cose ne abbiano "pezzetti"; Bruno insiste che ogni cosa ha in sè tutto l'essere, ciò che ogni singola cosa non possiede in sè sono tutti i modi di manifestarsi dell'essere, che invece sono posseduti dall'universo (da Dio). In altri termini non ci sono cose con più essere e altre con meno essere: l'essere o c'é o non c'é; in ogni singola cosa c'é tutto l'essere: é una concezione parmenidea; c'é infatti una frase nel poema di Parmenide in cui si dice: "l'essere non é di più qua e di meno là; l'essere che c'é c'é tutto".

Per non cadere nell'eleatismo più totale, che finisce per bloccare tutto quanto (perfino il movimento, la molteplicità) Bruno arriva a dire: se ogni ente ha in sè tutto l'essere (come l'universo stesso), é altrettanto vero che ogni ente ha solamente un modo dell'essere, mentre tutti i modi sono presenti solo nell'universo che é appunto somma di tutti i modi. L'universo ha tutto l'essere e tutti i modi di essere, ogni ente ha tutto l'essere, ma non tutti i modi di essere: un ente é solo una manifestazione particolare dell'essere. Esaminiamo ora meglio la questione del monismo bruniano, monismo che innanzitutto significa avere a che fare con un'unica sostanza (l'universo); però significa che oltre ad essere una numericamente, la sostanza é una qualitativamente: é un monismo qualitativo strettamente connesso alla differenza che c'é tra la filosofia bruniana e quella cusaniana: il rapporto Bruno - Cusano abbiamo visto che in fin dei conti consiste in una presa da parte di Bruno della filosofia cusaniana e nella estirpazione del concetto di contrazione (cosa che porta Bruno ad eliminare ogni differenza tra Dio e il mondo), per cui ciò che Cusano poteva attribuire a Dio, Bruno può attribuirlo al mondo, che infatti si identifica con Dio; la definizione tipicamente cusaniana di coincidenza degli opposti che attribuiva a Dio, Bruno la allarga all'intero mondo, il che significa che tutta una serie di dualismi che nella tradizione aristotelica era particolarmente forte, tende a sparire; é quindi un monismo anche nel dire che le coppie di aspetti opposti caratteristici della realtà vengono superati.

Il dualismo più caratteristico era sempre stato quello materia - forma, che a sua volta dava vita a quello potenza - atto; sono proprio loro ad essere superati: gli apparenti opposti non sono più tali e materia e forma finiscono per essere la stessa cosa: vuol dire che in Bruno la materia cessa di essere realtà inerte per diventare un qualcosa di vivo e produttivo; in Aristotele la materia era totalmente inerte e per assumere aspetti e per muoversi doveva assumere la forma: la materia era passiva, la forma attiva. In Bruno invece la materia diventa attiva e le forme non sono cose che si aggiungono alla materia per trasformarla; le forme per Bruno emergono dalla materia stessa; ricorda vagamente i logoi spermatikoi degli stoici, con questa differenza però: i logoi spermatikoi erano forme particolari che di volta in volta emergevano dall'unica forma generale (il Logos); per gli stoici é vero che esiste un'unica forma e un'unica sostanza (e quindi sono anche loro monisti quantitativamente), ma sotto l'aspetto dei dualismi sono fedeli ad Aristotele: c'é materia e forma; in Bruno invece non é così, non c'é più differenza materia-forma: é la materia stessa che fa emergere le forme perchè non é statica, ma é "viva" (infatti é Dio stesso): la materia é già forma di per sè perchè é vita, é sensibilità. Il mondo di Bruno é un mondo vivente e Bruno in fin dei conti é un ilozoista (ule, materia, + zoo, vivere, = materia vivente): é ilozoista anche più dei presocratici, perchè essi concettualmente non vedevano distinzioni tra vita e materia, ossia non erano ancora riusciti a distinguere effettivamente e due cose.

L'idea di attribuire vita alla materia é quindi tipicamente bruniana. La materia é viva e divina; Bruno si richiama ad un pensatore minore del Medioevo, Davide di Dinantes, il quale fu condannato dalla Chiesa perchè sosteneva l'identificazione tra Dio e materia, tramite un ragionamento: se la materia é potenza (con la confusione di potenza come forza al posto di potenza come poter essere, come di fatto intendeva Aristotele) allora essa é Dio stesso, che per definizione é potenza (la prima persona della Trinità é infatti la Potenza). Anche potenza e atto in Bruno finiscono per essere lo stesso: la potenza diventa lei stessa capace di creare l'atto (come la materia si dà la forma): Dio é la materia e la materia é Dio. Questa idea della materia viva e divina fa tra l'altro cadere la distinzione tipicamente aristotelica tra motore e mobile: per Aristotele tutto ciò che si muove deve per forza essere mosso da altro (omne movens ab alio movetur) perchè la materia é pura passività; con Bruno invece la materia diventa viva e quindi i motori non sono estrinseci, ma intrinseci: ogni corpo é mosso dal principio intrinseco "che é l'anima propria".

Che l'universo non abbia un estrinseco motore risulta dalla considerazione che esso é infinito; quindi il moto compete solo alle sue parti, cioè ai singoli astri, ma non al tutto, che é immobile: l'universo, che guardato dal punto di vista dei particolari infiniti esseri che lo compongono é sede del movimento e del divenire, in sè invece é unico, immobile; una cosa per essere in moto si deve spostare da un punto A ad uno B, ma l'universo nel suo insieme non potrà muoversi perchè non ha luogo in cui trasferirsi in quanto é già lui l'insieme di tutti i luoghi; esso accoglie, nella sua identità impassibile e immutevole, i contrasti e le vicende degli esseri: il mondo non ha divenire, ma le cose divengono nel mondo. Viene quindi a mancare ogni ragione di porre un motore unico nel mondo. E'questa un'innovazione importantissima sul piano metafisico perchè in questo modo viene tolto a Dio, il tradizionale motore immobile dell'aristotelismo, il compito di imprimere dall'alto e dall'esterno il movimento al mondo e viene invece l'idea della divinità a trasformarsi in un principio intrinseco e immanente dell'animazione cosmica.

Tra l'altro il riconoscere che Dio e il mondo sono lo stesso e che la materia e la forma, in un certo senso, sono lo stesso, implica anche il superamento del dualismo libertà - necessità: assumono per Bruno come per gli stoici lo stesso significato; in Bruno c'é l'idea che ciò che l'uomo deve fare é riconoscere la sua appartenenza al tutto. E'particolarmente evidente questo in una filosofia come quella di Bruno: esistiamo come aspetto di un'unica sostanza e l'errore clamoroso che può commettere l'uomo é di credere di esistere come realtà staccata e indipendente dalle altre: si deve cercare di concepirsi come parte del tutto, o meglio, come manifestazione del tutto. E'un modo particolare per realizzare quella cosa che da Platone in poi é stata definita la "omoiosis theo" che significa "diventare simile a Dio", assimilarsi a Dio: é il tentativo dell'uomo di diventare un Dio; per Bruno l'uomo, come ogni altro ente, é già Dio (perchè manifestazione dell'unica sostanza che é proprio Dio), deve solo riconoscerlo: diventare Dio non é altro che riconoscere di essere Dio per Bruno. Come per gli stoici, si deve riconoscere ciò che già si é: Nietzsche diceva "come si diventa ciò che si é" e ciò che insegna Bruno é proprio questo: basta sapere ciò che si é.

C'é un ultimo dualismo importantissimo che viene da Bruno superato: si tratta del dualismo mondo celeste - mondo sublunare, mondi che per Aristotele erano in netta contrapposizione. Questo dualismo Bruno lo nega, Copernico lo afferma: questo, tra l'altro, spiega come la filosofia tenda sempre ad arrivare prima della scienza: fino al 1800 la teoria atomistica, per esempio, non era scientifica, ma era già stata elaborata in termini metafisici da Democrito e da Epicuro; l'infinità dell'universo é stata prima pensata da Bruno, che é un filosofo, e poi riconosciuta scientificamente (ed oggigiorno é stata messa in dubbio). Un'immagine che ben spiega l'infinitezza dell'universo e la sensazione di finitezza che tuttavia ne deriva é quella della foresta, di cui Bruno si avvale nel De immenso: se mi trovo in una foresta immensa (diciamo pure infinita) in qualunque luogo io mi trovi ho l'impressione di essere al centro, perchè nell'infinito il centro é dappertutto. Al parziale superamento scientifico del dualismo mondo sublunare-mondo celeste si arriverà dopo qualche decennio, Bruno ci é arrivato in senso metafisico, con la coincidenza degli opposti.

Dire che ci sono due materie radicalmente diverse che compongono l'una il mondo terrestre e l'altra quello celeste, vuol dire che esiste una materia corruttibile e una materia incorruttibile; per Aristotele poi le stelle erano attaccate al cielo delle stelle fisse. Bruno nega i dualismi e l'intero universo é fatto dalla stessa materia, da Dio. E'poi interessante notare il fatto che Bruno recuperi oltre a Parmenide anche Eraclito, perchè vede la materia come un continuo divenire, in continuo moto. L'immagine della foresta poi va vista come duplice dimostrazione: in primis dimostra la non certezza dei punti di riferimento; poi fa capire che pure l'idea del cielo delle stelle fisse é un'illusione ottica: ci pare che oltre il cielo delle stelle fisse non ci sia più niente, ma in realtà il mondo continua all'infinito; proprio come nell'immensa foresta ci sembra sempre di essere al centro e in una realtà finita perchè all'orizzonte per via di un'illusione ottica ci sembra che gli alberi finiscano, ma in realtà continuano; in questo modo la "molesta turba del Sofista potrà ritenere che ciò che é espresso dai sensi sia la verità", ossia penserà che l'universo sia finito facendo lo stesso ragionamento di quando ci si trova in un'immensa foresta: si pensa sempre di essere al centro. Allo stesso modo se noi fossimo su un altro pianeta ci sembrerebbe di essere al centro dell'universo. Il mondo di Bruno é assolutamente omogeneo nella sostanza e le stelle stesse non sono collocate tutte alla stessa distanza, ma in profondità: nella foresta infinita, guardando all'orizzonte, ci sembrerà che tutti gli alberi siano allineati sul fondo e non disposti in profondità; la stessa cosa vale per le stelle, che per lo stesso effetto ci sembrano tutte allineate sullo stesso piano, ma che in realtà sono disposte in profondità. Quelle che noi chiamiamo costellazioni perdono allora di significato perchè ai nostri occhi risultano stelle allineate, ma in realtà sono disposte in profondità le une rispetto alle altre.


LA MORALE E IL MITO DI ATTEONE
Esaminiamo ora la morale di Bruno, cui gira intorno tutta la sua filosofia: sia la concezione cosmologica (l'infinità del mondo) sia quella metafisica (l'unità e il superamento dei dualismi) sono tutte cose funzionali all'atteggiamento etico bruniano, che viene ben riassunto in una famosa espressione: l'eroico furore. Che cosa significa quest'espressione? Traduce e reinterpreta la concezione dell'amore platonico, che era piuttosto diffusa all'epoca. Il termine "furore" va inteso come "pazzia" (pensiamo all'"Orlando furioso" di Ariosto all'incirca di quegli stessi anni) e Platone stesso aveva insistito sul fatto che l'eros fosse una follia, anche se positiva. Se furore vuol dire follia, eroico va letto in un duplice significato: anche qui Bruno riprende un gioco di parole e una falsa etimologia di cui si era già servito Platone: questi aveva notato l'analogia tra eros ed eroe. Nel mondo greco classico, poi, eroe era non solo l'uomo valoroso, ma anche la semi-divinità (gli eroi in fondo erano anche dei semi-dei); Platone nel Simposio insisteva sul fatto che Eros fosse un semi-dio; eroico vuol quindi dire sia eroico nel senso di valoroso ma anche nel senso di erotico per Bruno. Ma cosa sono gli eroici furori? Sono la tendenza mistica propria dell'uomo, che ha compreso certe realtà, all'omoiosis theo (assimilazione a Dio). In Bruno l'omoiosis theo assume caratteri differenti rispetto a quelli assunti in Platone nel Teeteto: Bruno riprende dalla tradizione platonica l'idea dell'avvicinarsi sempre di più a Dio fino ad "indiarsi", come dice Dante, diventare quasi una sola cosa con Dio; riprende poi da Platone (pensiamo alla biga alata, che per muoversi necessita dell'auriga ma anche del cavallo bianco) l'idea che lo strumento di questo "indiarsi" sia contemporaneamente un fatto di ragione e di intelligenza da un lato ma anche di volontà e di amore dall'altro.

Quello che é nuovo in Bruno é la concezione di quel Dio a cui l'uomo é invitato ad assimilarsi; é ovvio che l'assimilazione vari a seconda di come si intenda Dio: questo slancio di amore e di intelligenza (ma anche di libertà, visto che l'universo é infinito) naturalmente Bruno lo intendeva in modo diverso da quello in cui potevano intenderlo i cristiani, con la loro concezione di divinità ben diversa da quella bruniana. Da notare che accanto agli "Eroici furori" Bruno scrive un'altra opera, forse meno famosa, intitolata "Lo spaccio della bestia trionfante", dove spaccio sta per "cacciata": la bestia rappresenta il più grande dei vizi che l'uomo possa avere, l'accidia (l'agire poco, l'essere inattivi): per Bruno quest'atteggiamento va dissipato. Lo Spaccio della bestia trionfante è costituito da cinque dialoghi che si svolgono tra gli dei convocati da Giove per liberare i cieli dalle bestie che hanno dato il nome alle costellazioni e che simboleggiano le false virtù, vecchi valori da trasvalutare. Giove colloca al primo posto tra le virtù la dea Verità, accanto alla quale sta una dea dal duplice nome: Provvidenza e Prudenza. Provvidenza in quanto propria del divino, Prudenza in quanto umana capacità di concordare e conciliarsi col divino.

L’Ocio - l’Ozio e la rassegnazione sono i vizi più gravi, che rendono l’uomo simile ai bruti, sono i mali, la “bestia” che deve essere spacciata, cioè scacciata, dal mondo - scacciato dai cieli per far posto alla Sollecitudine, esalta se stesso e l’età dell’oro. All’ozio Giove preferisce però, facendo l’elogio dell’attività umana e dello sviluppo della civiltà, la Sollecitudine. Essa ha due volti: l’intelletto e le mani, strumenti attraverso i quali l’uomo può affiancare Dio nella sua opera di trasformazione e vivificazione della natura. Si tratta di un elogio dell’ homo faber, dell'uomo come artefice del proprio destino. Ritornando agli Eroici Furori, c'é un pò un paradosso nell'omoiosis theo di Bruno perchè il suo é un discorso di radicale immanentizzazione (é panteista) e di conseguenza é come se Dio fosse il mondo intero (deus sive natura) e quindi già noi fossimo Dio: come facciamo ad identificarci con un Dio che siamo già noi? Allora che cosa significa identificarsi in Dio se già lo siamo?

Significa un qualcosa di piuttosto simile a ciò che intendevano gli stoici: in sostanza il problema é "diventare ciò che si é", rendersi conto di essere Dio perchè finchè non ce ne rendiamo conto é come se non lo fossimo. Non a caso Bruno arrivava a far coincidere, sulla scia degli stoici, libertà e necessità, facendo così venir meno il libero arbitrio (cosa che può sembrare strana in un autore che tanto esalta la libertà nell'infinitezza del mondo); la verità é che per lui la libertà coincide con la necessità, e si identifica in essa: la libertà che dà Bruno é quella che rende l'uomo filosofo praticamente identico a Dio. E'evidente che lo stato di libertà e necessità presente nella divinità come coincidenza degli opposti ci deve essere anche nell'uomo (che é un modo di essere della divinità); ma il problema é prendere atto di ciò che é già vero in noi e solo quando ce ne renderemo conto raggiungeremo l'omoiosis theo: é un amore intellettuale verso Dio, ma anche intelligente. La vera differenza tra Bruno e stoici é che per loro la passione va eliminata (apatheia) mentre invece Bruno é il filosofo della passione, é platonico a tutti gli effetti. Naturalmente la filosofia di Bruno é fortemente religiosa (fu condannato proprio perchè la sua filosofia era religiosa) ma di che tipo di religiosità si tratta? Bruno nutre grande simpatia per la religione egizia, sebbene ai suoi tempi se ne sapesse ben poco (i geroglifici non erano ancora stati interpretati correttamente).

In particolare Bruno, che é un umanista a tutti gli effetti, descriverà il Rinascimento servendosi dell'immagine di una pianta amputata, ma non ancora morta; il tronco é ancora vivo e dopo secoli bui (il Medioevo) ricomincia a germogliare: le radici per Bruno non sono tanto costituite dal mondo latino e greco, quanto piuttosto da quello egizio. Bruno era attratto dal mondo egizio soprattutto perchè le divinità egizie erano terioantropomorfiche (nello stesso tempo umane e animali); lui vedeva ciò come una rappresentazione simbolica delle sue stesse idee: era convinto dell'identità Dio - natura, ma anche natura - uomo e quindi Dio - uomo: questi tre aspetti sono quindi ai suoi occhi la stessa cosa e l'omoiosis theo realizza proprio questa identità. Questa idea é poi ben espressa nell'interpretazione che Bruno dà dell'antico mito di Atteone; era una mania piuttosto diffusa ai suoi tempi quella di rileggere in chiave filosofica con interpretazioni allegoriche i miti antichi, cambiandone anche la gerarchia assiologica: il significato del mito di Atteone era fortemente negativo, ma Bruno lo stravolge e lo rende positivo. Bruno compone un sonetto immaginato scritto da un personaggio del dialogo e dopo il sonetto prova a raccontare il mito: racconta di questo cacciatore, Atteone, che inoltrandosi in una selva fitta e difficile da percorrere arriva ad un laghetto e vede la dea Diana nuda che fa il bagno; per questo motivo viene punito e trasformato in cervo e a questo punto i suoi cani, non riconoscendolo, lo inseguono e lo sbranano.

Evidentemente il significato originario del mito era fortemente negativo: ben emerge il tema dell'"ubris", ossia della tracotanza, dell'uomo che fa un qualcosa che lo colloca su un piano che non é il suo, su un piano eccessivo: per uno sfondamento dei limiti viene punito. Invece Bruno lo legge diversamente perchè nulla é più positivo che lo sfondare i limiti, espandersi liberamente all'infinito: legge ogni elemento del mito reinterpretandolo: Atteone é l'uomo (più precisamente il filosofo); i cani sono di due tipi, alcuni più agili ma meno forti, altri più forti ma meno agili, e rappresentano due aspetti delle facoltà umane, la volontà e l'intelletto; la metafora della caccia é poi tipica per descrivere la filosofia, quasi come se si andasse a caccia del sapere (già Platone l'aveva usata). Atteone (il filosofo) insegue la preda (che é la natura): é il filosofo che ricerca l'essenza della natura; ma la selva non é facile da attraversare e non tutti possono farcela (emerge la concezione aristocratica che Bruno ha del sapere, derivatagli dall'averroismo); ad un certo punto il filosofo incontra la dea Diana, che incarna la natura e che si rispecchia nello stagno: la dea che si rispecchia simboleggia la divinità che si rispecchia nella natura: Bruno riprende un'espressione già usata da san Paolo secondo la quale la divinità può essere letta "per speculum", come attraverso lo specchio della natura.

Il filosofo avendo inseguito la natura la vede nella sua nudità, nella sua essenza e lui stesso ne é trasformato (infatti il cervo incarna anch'esso la natura). I cani si rivolgono contro di lui, cioè i suoi pensieri prima rivolti ad una natura concepita come esterna finiscono per rivolgersi contro lui stesso finchè non viene da essi catturato, l'uomo arriva cioè a capire che lui, la natura e la divinità sono la stessa cosa. In altre parole significa che l'uomo che ricerca la natura trova la divinità e alla fine scopre che questa natura - divinità non é altro che lui stesso. Il mito rappresenta tutta la filosofia bruniana, l'identità Dio - natura - uomo che c'é sempre stata e sempre ci sarà, ma spetta alla filosofia portare l'uomo a rendersene conto, quasi come se non si realizzasse pienamente se non scoperta dall'uomo. Il mito diventa quindi fortemente positivo, perchè rappresenta l'uomo che arriva al traguardo del processo conoscitivo. Come accennato, si tratta di un percorso non per tutti fattibile, nel quale bisogna attraversare luoghi "visitati e perlustrati da pochissimi, e però dove non son impresse l'orme de molti uomini"; solo gli uomini superiori alla massa potranno farcela.

Tuttavia, in contrasto con questa posizione antidemocratica é l'intuizione bruniana del progresso umano: é un'intuizione che, congiunta alla sua rivendicazione della libertà di pensiero costatagli la vita, fa dell'antidemocratico Bruno un uomo nuovo e lo eleva a simbolo della democrazia, della libertà. Egli infatti, in toni fortemente umanistici di passione per la società presente, afferma in risposta a quelli che svalutano il presente rivendicando una fantastica età dell'oro: "ne l'età de l'oro per l'ocio gli uomini non erano più virtuosi che al presente le bestie... Or essendo tra essi... nate le difficultadi, risorte le necessitadi, sono acuiti gli ingegni, inventate le industrie, scoperte le arti; e sempre di giorno in giorno, per mezzo de l'egestade, dalla profundità de l'intelletto umano si eccitano nove e maravigliose invenzioni. Onde sempre più e più per le sollecite ed urgenti occupazioni allontanandosi dall'esser bestiale, più altamente s'approssimano a l'esser divino" (Spaccio de la bestia trionfante). Non l'autorità degli antichi regge gli uomini nei loro ordinamenti e li "approssima a l'esser divino", ma la loro volontà di avanzare, di progredire: la tematica del progresso affiora anche ne "La cena delle ceneri" in cui compare un vivace dialogo tra il passatista Prudenzio, sostenitore della superiorità degli antichi, con Teofilo, che invece sostiene che il sapere stia nel presente più che nel passato e nel futuro più che nel presente; egli é un alter ego di Giordano Bruno e, come si può evincere dal suo nome, ha dalla sua la divinità (teofilo vuol dire "caro alla divinità"), ossia l'intero universo.

In modo opposto allo Spaccio de la bestia trionfante, la Cabala del cavallo Pegaseo, incentrata nel concetto di asinità, rovescia l’idea della praxis, del rinnovamento come valorizzazione delle opere e della magia. Essa è uno specchio deformante. Bruno propone (sullo stile dell’ erasmiano Elogio della follia) un elogio dell’asinità, il preciso rovesciamento dei valori presentati nello Spaccio. Si rovescia il nesso tra sapienza e “stoltizia”, tra scienza e fede, tra tenebre e luce, tra età dell’oro e civiltà. Le tesi dell’Ozio vengono osannate, tramite un lessico cristiano e riformato in un testo intrecciato alle citazioni bibliche. L’allegoria è piegata a sostenere le tesi di chi l’aveva criticata in virtù della “lettera”. In un gioco di specchi, la prospettiva dello Spaccio è capovolta. Si passa al primato dell’ignoranza. Ma di un’altra ignoranza si farà l’elogio (non di quella ociosa) nei furori, dell’ignoranza che si oppone alla sapienza. Qui l’asinità si rovescia, con una tecnica erasmiana, in una sua critica, e delle filosofie asinine. In effetti si rovescia in un aspetto costitutivo della vicissitudine.


Diego Fusaro (Filosofico.net)
 
 

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