giovedì 5 maggio 2016

Olio di palma: oro rosso per le multinazionali


Indonesia, Malesia e Thailandia ben difficilmente rinunceranno a sfruttare la manna dell’olio di palma fino all’ultima goccia, nonostante gli incalcolabili e irreversibili costi ambientali per produrlo, o i pericoli per la salute connessi al suo consumo eccessivo.

Per capirlo basta leggere la classifica diffusa dal Dipartimento dell’Agricoltura USA sui Paesi maggiori produttori nel 2014, dove i tre Stati sono stabilmente in testa, rispettivamente con una quantità di 33 milioni, di quasi 20 milioni e di 2 milioni di tonnellate prodotte. Africa e Sudamerica fanno da comprimarie nel mercato, a grande distanza.

Un fiume d’olio di palma (il più pregiato, di colore rossastro, estratto dai frutti; quello di qualità inferiore, il Palm Kernel Oil, dai semi) che viene raccolto grazie alla devastazione di ampie aree di foresta pluviale e torbiere nel Sud-Est asiatico, rase al suolo con incendi controllati e disboscamento (generando così enormi quantità di CO2 in modo diretto, col fuoco, e indiretto, riducendo la vegetazione che possa assorbirla), in un circolo vizioso in cui i profitti dell’olio si sostengono reciprocamente con quelli del fiorente mercato di legname (l’Indonesia è il primo esportatore mondiale).

Il fiume d’olio invade Paesi come Cina e India a tal punto da renderli dipendenti dalle importazioni (attorno ai 7-8 milioni di tonnellate ciascuno tra 2014 e 2015); e che risponde a una domanda globale in crescita esponenziale nel corso dell’ultimo ventennio, favorita da una riduzione progressiva del prezzo, che ha reso concorrenziale l’utilizzo di questa materia prima nell’industria manifatturiera (alimentare e non solo) e nella produzione di combustibili
di origine vegetale.

L’oro rosso viene impiegato praticamente ovunque (margarine, saponi, rossetti, oli da cucina, gelato, merendine, lubrificanti industriali) e consumato soprattutto in Europa e Stati Uniti, con una media – rivela il rapporto Oil World 2013 – di 60 e 55,3 chilogrammi per persona; mentre la produzione di biodiesel del 2014 ne avrebbe assorbiti 9,7 milioni di tonnellate, ovvero circa il 16% dell’intera produzione mondiale.

Secondo i dati 2015 elaborati dal progetto britannico di monitoraggio Sustainable Palm Oil Transparency Toolkit, a godere di tutto questo sono soprattutto le multinazionali, a partire dalle padrone del mercato delle commodities alimentari (Valori lo denunciava già nel dicembre 2013): le quattro maggiori compagnie del settore per capitalizzazione hanno un valore compreso tra i 21 miliardi di dollari di Archer Daniels Midland e gli 11,9 miliardi di Genting Plantations (seconda e terza piazza per Sime Darby Plantation e Wilmar International); mentre la top four del settore per superficie di terra coltivata vede in testa la solita Sime Darby, con quasi un miliardo di ettari, seguita da Felda Global Ventures (741,5 ha), Golden Agri Resources (451 ha) ed Eagle High Plantations (425 ha).


Corrado Fontana

http://www.informasalus.it/it/articoli/olio-palma-multinazionali.php 

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