lunedì 3 novembre 2014

La Resistenza Secondo Ivan Illich + Citazioni

Il pomeriggio del 2 dicembre Ivan Illich è passato serenamente dal sonno all'eternità. D'ora in poi, è morto.

Scrivo «d'ora in poi» perché da anni allorché pronunciavo il suo nome i miei interlocutori immancabilmente mi chiedevano la data della sua scomparsa. È morto, e possiamo augurarci che la sua opera completa sia oggetto di una nuova edizione, che consentirà agli uni di scoprirla e agli altri di rivisitarla.
 
Opera impegnativa, rigogliosa, spiazzante, poco classificabile, a immagine e somiglianza del suo autore, che ben di rado si trova là dove ci si aspetta di vederlo.
 
Piuttosto alto, magro, uno sguardo invitante, un sorriso caloroso, un profilo dai tratti delicati, tranne che dal lato di quell'impressionante escrescenza che gli sfigurava il volto, Ivan Illich sapeva metterti a tuo agio. Una volta scambiate le prime parole sulla vita di tutti i giorni, il suo pensiero si attivava, seguiva il ritmo della sua parola e ti colmava della sua intelligenza. Parlava degli «umori» di un medico tedesco del XVIII secolo, risaliva ad Aristotele, faceva una deviazione su Diderot e Lavoisier, evocava Claude Bernard, indugiava su Balint, ritornava al suo medico tedesco e si interrogava, ad alta voce, su diagnosi, consulto, espropriazione di sé da parte di un altro - il medico - rifiuto del dolore e descriveva con precisione l'apparato ospedaliero attuale, rimettendo in gioco, strada facendo, alcune delle sue analisi, già datate, che si trovano in Nemesi Medica.
 
Un altro giorno, la parola errabonda sceglieva un'altra strada, dimostrava che il silenzio può essere un'arma di contestazione come la non violenza, esponeva la riflessione filosofica di Max Picard, la confrontava con quella di Emmanuel Lévinas, coglieva il destro per riferire una discussione su «presa di parola» e silenzio con Michel de Certeau, parlava dei padri della chiesa e della vita degli eremiti, ricordava diversi happening silenziosi ai quali aveva partecipato, sostituiva la parola in una società della scrittura, poi in quella dell'immagine, e si lasciava prendere dall'entusiasmo per il XII secolo, il suo secolo prediletto. Questi due aneddoti, di cui sono l'umile testimone, sono in sintonia con molti altri racconti che altri commensali, imbarazzati o meravigliati, ricamano sul suo incredibile enciclopedismo, alimentato contemporaneamente da una estrema facilità a maneggiare numerose lingue (più di una decina!) e da una curiosità sconfinata.
 
È vero che il giovane Ivan - nato a Vienna da padre dalmata cattolico e da madre ebrea tedesca - non ha un'unica lingua madre, ma molte, il francese, l'italiano e il tedesco, prima di imparare, dagli otto anni in poi, il serbo-croato, lingua dei nonni. Successivamente studierà il latino e il greco - il che gli faciliterà l'approccio etimologico delle parole e dei concetti - lo spagnolo, il portoghese, l'hindi. Si iscrive ai corsi di cristallografia a Firenze, di filosofia e teologia a Roma, di storia medievale a Salisburgo, è ordinato prete, parte per New York nel 1951, ottiene una parrocchia portoricana, diventa vice-rettore dell'università cattolica di Portorico nel 1956 - a 30 anni! - contesta sempre più vigorosamente sia il sistema scolastico che le posizioni reazionarie del clero, crea seminari paralleli e diversi gruppi di lavoro.
 
Tre anni dopo, attraversa in bus e a piedi tutta l'America latina, si oppone alla concezione nordamericana dello sviluppo, si stabilisce a Cuernavaca e apre il Centro internazionale di documentazione culturale (Cidoc). Frequentato inizialmente da «volontari» statunitensi - del programma lanciato da Kennedy, l'«Alianza para el progreso» - venuti a studiare lo spagnolo e la cultura del paese in cui si recavano, il Cidoc è famoso soprattutto per lo studio critico della società capitalista che vi hanno portato avanti numerosi intellettuali di ogni nazionalità, sotto la guida del fondatore.
 
Questo Centro funzionerà per dieci anni, dal 1966 al 1976 e, fin dal 1967, Ivan Illich rompe con Roma, che lo convoca in seguito a un rapporto della Cia, ma che si preoccupa soprattutto dell'influenza di certi testi ripresi in Liberare il Futuro (1971), come Scomparsa dell'Ecclesiastico (1959). Accenna a certe pressioni esercitate sul Centro e anche a violenze fisiche nei suoi confronti, senza però insistere troppo... Per una certa sinistra radicale e terzomondista, Cuernavaca diventa una tappa obbligata. L'impegno degli studi è affiancato da incontri conviviali, due attività segnate dal cristianesimo. Del resto, anche se Ivan Illich torna allo stato laico, è comunque convinto che «la maggioranza delle idee chiave che fanno del mondo contemporaneo questa realtà particolare hanno un'origine cristiana» [2]
 
La fama di Ivan Illich è assicurata da Descolarizzare la Società e La Convivialità: a neppure 50 anni d'età le sue idee sono discusse in tutto il mondo [3]. Le sue prime opere puntano a dimostrare che gli «strumenti» (si intendano con questo le «istituzioni» e altri grandi «apparati» sociali, la Chiesa, la Scuola, l'Ospedale, i Trasporti) una volta superata una certa soglia diventano controproducenti - di una «controproduttività paradossale», precisa, proprio perché non voluta dai loro ideatori. Quanto più progredisce un sistema tecnico, e aumenta la parte di eteronomia dell'individuo lambda, tanto più diminuisce la sua parte di autonomia, facendolo dipendere sempre di più da ciò che non è in grado di controllare: l'energia nucleare, l'autostrada, la chemioterapia, le manipolazioni genetiche, ecc.
 
Al di là delle affermazioni troppo frettolosamente semplificate dai suoi seguaci, come «la scuola descolarizza», «l'ospedale fa ammalare», «l'automobile ostacola il traffico», si trova una critica straordinaria del «progresso» e di ciò che lo legittima, cioè la soddisfazione dei cosiddetti «bisogni» [4].
 
Ivan Illich rifiuta il punto di vista del Club di Roma (v. correlati) che, nel 1972, invita i leader del mondo a bloccare la crescita per ritardare la penuria di materie prime e per ridurre lo spreco delle risorse energetiche. Non crede minimamente all'esistenza di una qualche «protezione della natura», e denuncia lo sfruttamento sconsiderato della tecnologia così come l'economia politica dello sviluppo, tematiche che saranno riprese e approfondite da autori quali René Passet e Serge Latouche. Questi libri vanno letti insieme, tanto evidente è la loro appartenenza a un unico progetto: la liberazione totale della singolarità di ogni individuo - a prescindere dalla sua cultura, il suo reddito, il suo ruolo nel sistema produttivo.
 
Questa liberazione del soggetto - espressione che non appartiene al suo vocabolario - si basa su una padronanza del proprio corpo e dei propri bisogni, quale che sia la tecnologia disponibile. Ivan Illich ci racconta l'aneddoto di una studentessa cui propone di bere un bicchiere di sidro e che gli risponde: «No, grazie, il mio bisogno di zucchero è stato soddisfatto per la giornata». I suoi bisogni sono stati confiscati dai calcolatori di calorie e dalle tabelle di normalità... L'idea di bere insieme un bicchiere, durante una conversazione, è del tutto estranea a questo tipo di misura, e attiene a un rituale che fa sì, giustamente, che un bisogno sia sempre culturale e storico.

Lo studio dell'invenzione dei bisogni standardizzati e validi per tutti occuperà Ivan Illich per molti anni e lo costringerà, strada facendo, a stabilire altre genealogie, come quella di «essere umano», di «vita», di «persona», di «genere», di «salute» [5], ripercorrendo la storia dell'Occidente.
 
In quale momento, in quali circostanze e per quali conseguenze, per esempio, il lavoro diventa il momento predominante dell'esistenza individuale e collettiva? Il Lavoro Ombra e I Valori Vernacolari completano i primi saggi e fanno chiarezza, insistendo sul linguaggio come radicamento esistenziale principale di ciascuno, la sessualizzazione della società come discriminazione tra i generi e la fede erronea nell'homo oeconomicus come modello di comportamento. Queste opere, lette troppo frettolosamente, irritano i terzomondisti, per i quali il «lavoro ombra» non valorizza i «poveri» che sono l'indotto del «settore informale», e le femministe, le quali rifiutano il differenzialismo dei generi di Illich e si battono per una eguaglianza giuridica ed economica fra uomo e donna. Poi le sue ricerche più recenti sulla espressione verbale, lo scritto e l'immagine, passeranno inosservate.
 
Adulato dai fautori della «seconda sinistra» francese durante gli anni '70, Ivan Illich sembra troppo pessimista allorché essi ascendono alle responsabilità politiche, con l'elezione di François Mitterrand alla presidenza nel 1981. I terzomondisti devono reagire alla fine della guerra fredda e alla globalizzazione delle economie e delle telecomunicazioni: non trovano più in Illich stimoli per reagire ai loro dubbi, ai loro interrogativi. Gli ambientalisti non apprezzano la sua critica del principio di responsabilità propugnato da Hans Jonas, e non aderiscono alla sua critica della tecnologia, ispirata da Jacques Ellul, Lewis Mumford e altri ancora.
 
In breve, non c'era più feeling tra un pensatore dalla originalità sconcertante e una intellighenzia che ha perso la bussola. Fuori dalla Francia, le reti create da Illich continuano a divulgare le sue ricerche e si avventurano sui percorsi da lui aperti, e la sua influenza - difficile da valutare - è indubbia, come testimoniano la popolarità dei suoi concetti e la sua presenza nelle bibliografie.
 
Da Vancouver (Habitat I nel 1976) a Rio (Vertice della Terra, 1992), dai comitati di quartiere per un bilancio partecipativo alle associazioni per una alternativa alla globalizzazione neoliberista, sui discorsi di Ivan Illich non è affatto sceso l'oblio.
 
di T. Paquot [1]
 
Articolo pubblicato da Le Monde Diplomatique (2003) e riportato dal sito Altra Officina
 
Link diretto sul web:
Citazioni di Ivan Illich

La scuola è l'agenzia pubblicitaria che ti fa credere di avere bisogno della società così com'è.

Ciò che oggi chiamiamo 'sistemi educativi' sono l'incarnazione del nemico.

L'istruzione forzosa spegne nella maggioranza delle persone la voglia di imparare per proprio conto. Io credo che l'abolizione dell'istruzione scolastica sia divenuta inevitabile e che tale fine di un'illusione dovrebbe colmarci di speranza.

Molti studenti, specie se poveri, sanno per istinto che cosa fa per loro la scuola: gli insegna a confondere processo e sostanza. Una volta confusi questi due momenti, acquista validità una nuova logica; quanto maggiore è l'applicazione, tanto migliori sono i risultati; in altre parole, l'escalation porta al successo. In questo modo si «scolarizza» l'allievo a confondere insegnamento e apprendimento, promozione e istruzione, diploma e competenza, facilità di parola e capacità di dire qualcosa di nuovo. Si «scolarizza» la sua immaginazione ad accettare il servizio al posto del valore.  

Ma «crisi» non ha necessariamente questo significato. Non comporta necessariamente una corsa precipitosa verso l'escalation del controllo. Può invece indicare l'attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all'improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa. Ed è questa la crisi, nel senso appunto di scelta, di fronte alla quale si trova oggi il mondo intero.

L'anno 1913 segna una svolta nella storia della medicina moderna. All'incirca da quella data, il paziente ha più di una probabilità su due che un medico laureato gli somministri una cura efficace – purché ovviamente il suo male sia registrato dalla scienza medica dell'epoca. Gli sciamani e i guaritori, con la loro pratica dell'ambiente naturale, non avevano aspettato tanto per ottenere risultati analoghi, in un mondo dove la salute era concepita diversamente.

Viviamo in un mondo in cui il linguaggio ci parla, il sapere ci pensa e il Diritto ci agisce. Il linguaggio si riduce all'emissione e ricezione di messaggi; il pensiero all'accumulazione di informazioni; il Diritto al regolamento del piano.

Ho dovuto constatare come la libertà declini laddove i diritti sono formulati dagli «esperti».

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