Dopo
la pubblicazione delle Linee Guida per i giornalisti italiani in materia di
omofobia e transfobia, e le polemiche seguite, e i programmi di indottrinamento
all’ideologia gender in diverse scuole italiane, per capire meglio la
prospettiva verso cui ci stiamo avviando vogliamo riprendere in mano il
documento che è all’origine di questa “rivoluzione”, la cui drammatica
pericolosità noi avevamo già denunciato al momento della pubblicazione da parte
dell’UNAR (Ufficio Nazionale anti discriminazioni razziali) e del Dipartimento
delle Pari Opportunità sotto la gestione Fornero (governo Monti). Si tratta
della Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle
discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere
(2013-2015).
Già
l’incipit del documento è inquietante: «Per promuovere efficacemente» le misure
del piano strategico proposte anche a livello locale «risulta utile coinvolgere
le reti di prossimità quali, ad esempio, i centri regionali antidiscriminazione,
i nodi provinciali, le antenne UNAR e le altre strutture messe in campo dagli
organismi del decentramento amministrativo (circoscrizioni, municipi, etc), con
l’obiettivo di intercettare e raggiungere in modo capillare» le sacche di
discriminazione omofoba presenti nel nostro Paese. Uno strumento importante, di
cui si parla nel documento, è la RE.A.DY, ovvero la Rete nazionale delle
Pubbliche Amministrazioni Anti Discriminazioni per orientamento sessuale ed
identità di genere.
Ma un
leggero brivido scorre lungo la schiena quando viene spiegata l’esistenza
dell’OSCAD, « uno strumento operativo, composto da rappresentanti della Polizia
di Stato e dell’Arma dei Carabinieri, istituito il 2 settembre 2010, nell’ambito
della Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento della Pubblica
Sicurezza, per prevenire e contrastare gli atti discriminatori che costituiscono
reato e per rimuovere i “residui” di pregiudizio che, in alcuni casi, permangono
ancora nell’ambito dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza rispetto alle
differenze, sia verso l’“esterno” sia all’“interno”». Si precisa anche che
«l’OSCAD mira ad agevolare (sic!) le denunce di atti discriminatori che
costituiscono reato, anche in considerazione dell’appartenenza delle vittime a
categorie sociali particolarmente vulnerabili», e «a
tal fine, è stato attivato un indirizzo di posta elettronica dedicato (
oscad@dcpc.interno.it) cui possono essere inviate, anche in forma anonima,
segnalazioni di atti discriminatori».
Tutta
la vicenda comincia ad assumere sempre più un vago e sinistro sapore orwelliano.
Non rasserena il fatto che la Strategia Nazionale venga presentata come un obbligo imposto dal Consiglio d’Europa, soprattutto quando nello stesso documento si evidenzia come particolarmente significativo «il fatto che non possa essere invocato nessun valore culturale, tradizionale o religioso, né qualsivoglia precetto derivante da una “cultura dominante” per giustificare il discorso dell’odio o qualsiasi altra forma di discriminazione, ivi comprese quelle fondate sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere». Et voilà, la Chiesa cattolica è servita.
Il
punto interessante resta il fatto che l’intera Strategia poggi su un dato
ritenuto fondamentale ed incontrovertibile: esiste nel nostro Paese una grave e
allarmante emergenza omofobia. Peccato che l’assunto venga repentinamente
smentito dallo stesso UNAR con tre dati. Il primo è tratto da una ricerca
ufficiale elaborata dall’ISTAT nel 2012 (“La popolazione omosessuale in Italia”
elaborata dall’Istat presentata presso la Camera dei Deputati il 17 maggio 2012,
in occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia). Si tratta della
prima indagine sulla materia su scala nazionale, finanziata dal Dipartimento per
le Pari Opportunità, dalla quale risulterebbe, tra l’altro, che «il 60% della
popolazione italiana ritiene accettabile una relazione tra due uomini o tra due
donne». Alla faccia dell’omofobia!
Il secondo dato scaturisce dall’affermazione
secondo cui «le indagini sociologiche degli ultimi anni mostrano una tendenziale
accettazione, sempre maggiore, tra i giovani dei comportamenti omosessuali».
Quindi, anche in questo caso, niente omofobia.
Il
terzo dato che mina le fondamenta di tutta la Strategia è costituito
dall’incontrovertibile circostanza che l’UNAR è costretto obtorto collo ad
ammettere: «Non risultano, al momento, casi accertati di discriminazione per
l’accesso all’alloggio, nel lavoro pubblico o privato». Per i solerti redattori
della Strategia quest’ultimo dato non è la prova dell’inesistenza di forme di
discriminazione. Anzi, è la prova principe, semmai, del contrario: «Questa
assenza di dati prova, infatti, la ritrosia che hanno, in primo luogo, le
vittime», ed è evidente, quindi, la necessità di efficaci ed esemplari azioni
investigative e repressive.
Anche all’UNAR tengono famiglia, per cui in qualche
modo devono giustificare il motivo per cui soldi pubblici vengono spesi per
mantenere in vita quell’Ufficio. Sta di fatto che non potendosi registrare
neppure un singolo caso di discriminazione nel campo dell’«accesso all’alloggio,
nel lavoro pubblico o privato», la si deve necessariamente presumere e far
assurgere a fenomeno talmente diffuso ed allarmante da imporre misure drastiche!
Il trucco è vecchio come il mondo: quando la realtà non corrisponde ai
desiderata del potere, basta manipolarla. E così un fenomeno che non esiste
nella statistica diventa improvvisamente un’emergenza nazionale. Roba da far
imbarazzare – si parva licet – persino il Reichsministerium für Volksaufklärung
und Propaganda di quel malefico genio della manipolazione che fu il dottor
Joseph Goebbels.
Ma
torniamo alla Strategia Nazionale dell’UNAR. L’azione di repressione delle
(ancora statisticamente inesistenti) forme diffuse di discriminazione nei
confronti degli LGBT, dovrebbe articolarsi secondo quattro “assi”:
(I) Educazione e Istruzione,
(II) Lavoro,
(III) Sicurezza e Carcere,
(IV) Comunicazione e Media.
Cominciamo dal primo asse. Qui la Strategia è rivolta «a diffondere la teoria
del gender nelle scuole, attraverso anche iniziative volte ad offrire ad alunni
e docenti, ai fini dell’elaborazione del processo di accettazione del proprio
orientamento sessuale e della propria identità di genere».
Vengono previsti
all’uopo, specifici programmi scolastici, corsi di formazione, materiale
didattico, et similia. Si prevede pure di «ampliare le conoscenze e le
competenze di tutti gli attori della comunità scolastica sulle tematiche LGBT»,
di «garantire un ambiente scolastico sicuro e gay friendly», di «favorire
l’empowerment delle persone LGBT nelle scuole, sia tra gli insegnanti che tra
gli alunni», nonché di «contribuire alla conoscenza delle nuove realtà
familiari, superare il pregiudizio legato all’orientamento affettivo dei
genitori per evitare discriminazioni nei confronti dei figli di genitori
omosessuali».
Per fare tutto ciò occorre, in particolare,
promuovere la «valorizzazione dell’expertise delle associazioni LGBT »,
il «coinvolgimento degli Uffici scolastici regionali e provinciali sul diversity management per i docenti»;
la «predisposizione della modulistica scolastica amministrativa e didattica in chiave di inclusione sociale, rispettosa delle nuove realtà familiari, costituite anche da genitori omosessuali» (genitore 1 e genitore 2);
l’«accreditamento delle associazioni LGBT, presso il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, in qualità di enti di formazione»;
l’«arricchimento delle offerte di formazione con la predisposizione di bibliografie sulle tematiche LGBT e sulle nuove realtà familiari, di laboratori di lettura e di un glossario dei termini LGBT che consenta un uso appropriato del linguaggio»;
la «realizzazione di percorsi innovativi di formazione e di aggiornamento per dirigenti, docenti e alunni sulle materie antidiscriminatorie, con un particolare focus sul tema LGBT sullo sviluppo dell’identità sessuale nell’adolescente, sull’educazione affettivo-sessuale, sulla conoscenza delle nuove realtà familiari», formazione che «dovrà essere rivolta non solo al corpo docente e agli studenti (con riconoscimento per entrambi di crediti formativi) ma anche a tutto il personale non docente della scuola (personale amministrativo, bidelli, etc)».
Veniamo ora al secondo asse della Strategia. Sul settore del lavoro il documento
precisa che «le principali criticità riguardano la discriminazione nell’accesso
al lavoro, il mobbing, il demansionamento, il blocco nella progressione di
carriera, le discriminazioni multiple». Salvo poi precisare che, comunque, «non
esistono dati o indagini per quanto riguarda le promozioni o progressioni di
carriera ed i licenziamenti in riferimento alla comunità LGBT». Vale quanto già
detto in tema di manipolazione della realtà. La vera criticità che però,
onestamente, l’UNAR intende evidenziare in materia è quella derivante «dal
mancato riconoscimento dei diritti delle coppie di fatto o del matrimonio tra
persone dello stesso sesso in Italia». E allora bastava dirlo subito senza
scomodare inesistenti forme di discriminazione in ambito lavorativo: «vogliamo
il matrimonio omosessuale».
Sarebbe stato più franco, diretto ed
intellettualmente onesto. Del tutto risibile appare, poi, l’affermazione secondo
cui «la comunità gay e lesbica in ambito lavorativo ha difficoltà nel coming out
per timore di ripercussioni e ritorsioni sulle possibilità di accesso al lavoro
e di carriera, a causa del pregiudizio persistente e alla scarsa informazione
sulla tematica dei datori di lavoro e dei livelli dirigenziali». Siamo al comico
involontario. Non solo il coming out oggi sta diventando, purtroppo, sempre più
trendy, ma consente anche fulminanti carriere. Vedi il caso Barilla e il guru
gay David Mixner. Il documento continua attraverso i consueti sproloqui
sull’«importanza delle pratiche di diversity management», che «favorisce
l’attivazione dei talenti e incrementa la produttivita aziendale», e sul
cosiddetto «business inclusivo» (qualcuno sa di cosa si tratti?).
Seguono i consueti corsi di informazione per «sensibilizzare i datori di
lavoro, le figure dirigenziali, i lavoratori e le lavoratrici, le associazioni
di categoria sulle tematiche LGBT», necessità della «creazione di network LGBT
all’interno delle aziende e istituzione a livello di alta dirigenza del ruolo di
mentore LGBT», di «appositi fondi strutturali europei», di «benefit specifici
per le persone LGBT, anche in relazione alle famiglie omogenitoriali», nonché
«la certificazione delle aziende gay friendly e l’istituzione del primo indice
italiano (Equality Index) che misuri l’uguaglianza-inclusione come rispetto
delle persone LGBT nelle imprese operanti in Italia».
Non può mancare la solita
opera rieducatrice. E allora ecco corsi «di sensibilizzazione e formazione per i
dipendenti e per tutti i livelli di management, che aiutano a costruire
programmi di mentoring e a migliorare i propri percorsi professionali»,
«iniziative specifiche di formazione professionale per transessuali e
transgender», «pubblicazioni informative rivolte ai datori di lavoro».
Non
possono neppure mancare, ovviamente, le agevolazioni. E allora ecco le «borse
lavoro, voucher o carte di credito di formazione per persone LGBT», le «azioni
positive per imprenditoria giovanile LGBT», e la «promozione dell’accesso al
credito agevolato e alla formazione per imprese cooperative per i giovani gay
delle Regioni del Sud». Poiché non appare chiaro come possa accertarsi il
requisito di omosessualità e transessualità richiesto per le agevolazioni ed i
sussidi, è facile presumere una formidabile impennata di giovani gay nel
Mezzogiorno del nostro Paese. Del resto lo sosteneva già l’imperatore Tito
Flavio Vespasiano venti secoli fa: pecunia non olet!
Veniamo al terzo asse della Strategia. Qui l’azione informativa-formativa è
rivolta al «personale della Procura della Repubblica e della Polizia di Stato».
Si sentiva proprio la mancanza del questurino gay friendly. Non può restare
esente dall’opera rieducatrice anche il personale della polizia penitenziaria.
Quanto la Strategia sia lontana anni luce dalla realtà, lo dimostra la pretesa
di realizzare appositi reparti separati per la comunità LGBT. Evidentemente i
redattori del documento non hanno la più pallida idea delle condizioni
vergognose e disumane in cui versano le patrie galere, ma soprattutto
dell’endemica carenza di fondi e strutture, a causa della quale lo Stato arriva
a trattare gli uomini da animali, costringendoli a stare rinchiusi come sardine
in uno spazio di pochi metri quadrati. I giovanissimi, poi, non vengono lasciati
in pace neppure in carcere: per loro sono infatti previsti «programmi di
educazione alla affettività e alla sessualità».
Da
notare anche l’iniziativa di «promuovere nelle carceri l’istituzione di
sportelli di ascolto dedicati alle persone LGBT».
Per tutti gli altri
disgraziati eterosessuali le orecchie restano tappate. Interessante anche il
fatto che vengano previsti «interventi per favorire l’integrazione delle
detenute transessuali anche attraverso attività di sostegno per il miglioramento
della qualità della loro vita in carcere attraverso, ad esempio, gruppi di
supporto e laboratori teatrali». Per tutti gli altri, pare di capire, niente
supporto e niente teatro. Ce n’è anche per il dopo pena. Sono, infatti, previsti
per le persone trans «interventi di sostegno e accompagnamento per l’accesso al
lavoro una volta conclusa la pena, nonché programmi di supporto, favorendo anche
i percorsi di fine pena o di misure alternative al carcere quali gli affidi».
Gli altri si arrangino. Siamo all’eterogenesi dei fini: l’intenzione di
combattere ed eliminare la discriminazione determinerà, di fatto, una
discriminazione in carcere tra detenuti di serie A (gli LGBT) e quelli di serie
B (eterosessuali).
E
veniamo al quarto ed ultimo asse della Strategia. Il documento sul punto è assai
chiaro: «l’identificazione dell’omosessualità con una malattia dalla quale si
può essere curati o “salvati” appare come uno stigma tuttora di forte presa
sull’opinione pubblica», anche se «il lavoro fatto da alcune fiction e d’altri
prodotti di narrazione ha contribuito a porre l’attenzione su un modello di
persona LGBT priva di impronte denigratorie». Sarebbe stato più onesto affermare
che «fiction e altri prodotti di narrazione» stanno in realtà perpetrando una
spudorata campagna di promozione dell’ideologia del gender.
Ma evidentemente ai
redattori del documento quella campagna non appare ancora sufficiente visto che
prevedono espressamente «l’incentivazione della produzione e rappresentazione
delle tematiche LGBT nel sistema televisivo, cinematografico e teatrale, anche
mediante il coinvolgimento di testimonial, al fine di raggiungere un pubblico
eterogeneo per fasce di età, aree territoriali e grado di istruzione».
Alcuni passaggi del documento appaiono, poi, come avvertimenti poco
rasseneranti: «l’ampiezza e l’estrema novità del panorama, unita all’assenza di
una legislazione adeguata, fa si che il mondo virtuale sia il terreno ed il
veicolo più fertile per messaggi e propagande di tipo omofobico e transfobico».
Siti e giornali cattolici online sono avvisati. Ancora più preoccupante è
l’intenzione di «prevenire e contrastare la diffusione di stereotipi che
alimentano, anche attraverso la rete Internet, il cd. “discorso dell’odio” nei
confronti di persone LGBT». Se “discorso dell’odio” è la traduzione letterale
dell’“hate speech” britannico, allora ne vedremo delle belle.
Sarà infatti
vietato opporsi al matrimonio tra persone dello stesso sesso, o alla possibilità
di adozione di minori da parte di coppie omosessuali; non si potrà sostenere che
l’omosessualità rappresenta una «grave depravazione», citando le Sacre Scritture
della religione cristiana (Gn 19,1-29; Rm 1,24-27; 1 Cor 6,9-10; 1 Tm 1,10), o
che gli atti compiuti dagli omosessuali sono «intrinsecamente disordinati», e
«contrari alla legge naturale», poiché «precludono all’atto sessuale il dono
della vita e non costituiscono il frutto di una vera complementarietà affettiva
e sessuale» (art. 2357 Catechismo cattolico). Né si potrà ritenere che
omosessualità e transessualità appartengono oggettivamente alla sfera
etico-morale, e possono quindi essere sottoposte ad un giudizio di riprovazione.
Anche
per i giornalisti la Strategia prevede il consueto percorso rieducativo:
«realizzazione di percorsi formativi nelle scuole di giornalismo in
collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della
Stampa Italiana, con particolare riguardo alla categoria
transessuali/transgender»; «promozione di un premio giornalistico in
collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della
Stampa Italiana, per i migliori articoli sulle tematiche LGBT, con particolare
riguardo alla categoria transessuali/transgender».
Tutto si conclude con l’idea di «organizzare, a livello locale e nazionale, eventi in occasione delle giornate celebrative: Giornata Internazionale contro l’omofobia e la transfobia (17 maggio), Coming Out Day (11 Ottobre) e T-Dor, Transgender Day of Remembrance (20 novembre), nonché di «integrare le tematiche LGBT nell’ambito delle celebrazioni di altre Giornate dedicate ai temi della memoria e del contrasto ad ogni discriminazione, quali il Giorno della Memoria (27 gennaio), la Giornata Internazionale della Donna (8 marzo), la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le Donne (25 novembre), la Giornata Mondiale contro l’AIDS (1 Dicembre), la Giornata Mondiale dei Diritti Umani (10 dicembre)».
A
questo punto una domanda si impone: non è che il nostro Paese sta assomigliando
sempre di più all’Oceania di Orwell, con un nuovo Socing, una nuova Thought
Police, e un nuovo Grande Fratello?
Avv. Gianfranco
Amato
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