Il Congresso americano infatti ha approvato delle
misure che proteggono le “too big to fail” in tutte le operazioni con
derivati finanziari. E’ stato cancellato il cosiddetto “Emendamento 716”
della legge di riforma finanziaria Dodd-Frank che, per taluni derivati,
costringeva le banche ad operare attraverso delle sussidiarie. Era un
modo per evitare che i soldi dei depositi bancari venissero utilizzati
in operazioni speculative.
Poiché i succitati depositi
utilizzati usufruivano delle garanzie della Federal Deposit Insurance
Commission (FDIC), tutte le banche in crisi finora hanno goduto di
generose operazioni di salvataggio con fondi pubblici da parte del
governo, i cosiddetti “bail out”.
In realtà la legge
Dodd-Frank, originariamente concepita proprio per proteggere i
risparmiatori dopo gli sconquassi della crisi finanziaria globale del
2007-8, era già stata abbondantemente annacquata. Permetteva quindi
l’utilizzo dei depositi per i derivati relativi alla protezione rispetto
ai rischi sui prestiti concessi, alla volatilità dei tassi di interesse
e ai crediti inesigibili. Di fatto tale protezione riguardava ben il
95% di tutti i derivati.
Perciò è d’obbligo porsi la
domanda del perché vi sia “tanta animosità” per il rimanente 5%, pari a
14 trilioni di dollari in rapporto a un montante nominale complessivo di
circa 280 trilioni. Ciò soprattutto in considerazione del fatto che da
tempo le banche possono contare anche sulla copertura del cosiddetto
“bail in”, cioè sulla possibilità di attingere ai depositi, oltre che al
capitale proprio, per coprire gli eventuali buchi provocati da
operazioni finanziarie spericolate e da speculazioni andate male.
La
risposta sta proprio in quel 5% di derivati esclusi che include i
derivati sulle commodity, rilevanti sotto tutti i punti di vista. Come
evidenziato in passato, le banche hanno penetrato i mercati delle
materie prime, su cui esercitano una crescente influenza sicuramente
destabilizzante.
Oggi le banche americane sentono la
necessità di garantirsi il “bail out” pubblico anche su questi segmenti
di finanza speculativa in quanto i loro derivati, soprattutto quelli
relativi al petrolio, rischiano di produrre grandissime perdite.
Infatti,
mentre per i tassi di interesse il comportamento della Federal Reserve è
una variabile prevedibile, l’andamento del prezzo del petrolio negli
ultimi mesi non lo è stato. Non è stato quindi coerente con la legge
della domanda e dell’offerta. In breve tempo esso è sceso da 110 dollari
al barile a circa 60 dollari.
Vi è una chiara scelta
politica sottesa alla volontà di inondare i mercati di petrolio e di
continuare a produrne grandi quantità anche in situazioni di calo del
prezzo assai vistoso. Normalmente non dovrebbe essere così, a meno che
non vi siano forti ragioni geopolitiche. Ora appare evidente la volontà
di mettere in ginocchio finanziariamente la Russia e l’Iran, due grandi
produttori di petrolio i cui bilanci dipendono non poco da tale
risorsa..
Però adesso le banche americane si trovano in
pancia tanti prodotti derivati emessi in garanzia di aumenti del prezzo
del petrolio oppure in rapporto a eventuali diminuzioni meno consistenti
di quelle attuali.
La banca forse più esposta è la JP
Morgan Chase, tanto che ha mandato il suo chief executive a testimoniare
al Congresso per la rimozione dell’emendamento citato. La cosa in
verità è passata sotto silenzio, “seppellita” nella legge finanziaria
americana del 2015 che tra l’altro approva anche la copertura di spesa
del governo per 1.100 miliardi di dollari per evitare così nuovi shut
down.
Il voto delle leggi finanziarie spesso nasconde
tra le migliaia di commi e di norme scelte e decisioni non
giustificabili e non sostenibili. In verità il cosiddetto “assalto alla
diligenza” accade anche in Italia in sede di approvazione della Legge di
Stabilità.
Speriamo che la scelta compiuta dal Congresso americano non venga imitata anche dall’Unione europea.
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