lunedì 22 dicembre 2014

L'era della rassegnazione


Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del muro di Berlino. Quella data dell'ottobre 1989 parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta, e il crollo dell'impero sovietico che di lì a poco ne seguì non fece che confermare là prima impressione.

Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti. Nelle ristrette ma vivaci cerchie che si attribuivano l'etichetta del non-conformismo e non avevano mai digerito molte delle conseguenze del disastroso secondo conflitto mondiale, a partire dal soggiogamento dell'Europa alle due superpotenze e dalla sua vertiginosa perdita di influenza sullo scacchiere planetario, si arrivò a supporre che si dovessero abbandonare le elucubrazioni sulla possibile costruzione di una Terza via di organizzazione della società diversa dal liberalismo e dal socialismo e si dovesse passare con urgenza alla riflessione su una Seconda via, dal momento che a rimanere in piedi era ormai quasi solo quel modello politico-culturale che si era dato — abusivamente ma efficacemente — il nome di Occidente e si fondava, per dirla con le parole di un analista che pure non ne è certo un critico prevenuto, su «una visione immobile del mondo, dominata da un pugno di principi guida: l'internazionalismo, l'espansione illimitata dell'individualismo e dei suoi diritti, l'idolatria del proceduralismo consensualistico, l'idea che l'economia rappresenti il regolatore supremo delle collettività umane»1....



Sgombrato il campo dalle suggestioni di un "socialismo reale" ormai fallito, si pensava, la partita si sarebbe giocata tra quella vecchia formula che tante cattive prove aveva dato di sé e una visione alternativa ancora in gran parte da costruire, ma di cui esistevano i presupposti. Sgretolate le fondamenta dell'esaurita dicotomia sinistra/destra, molte e sino ad allora disperse energie sarebbero confluite attorno a un progetto che all'individualismo opponeva la solidarietà organica, la promozione dell'interesse collettivo, il recupero del senso di comunità e la tutela del diritto alla specificità dei popoli; al cosmopolitismo omogeneizzante che faceva da sostrato all'internazionalismo opponeva l'elogio delle identità plurali e della diversità culturale; al dominio dell'economia sulla politica opponeva non solo il rovesciamento di quel rapporto ma anche il riconoscimento primario dei valori non-economici, spirituali e di "qualità della vita", in ogni campo e, si potrebbe aggiungere, al culto delle forme istituzionali opponeva la sostanza della democrazia: il controllo popolare sul potere.

Erano sogni, ma gli oltre vent'anni trascorsi li hanno derubricati ad illusioni, che a volte appaiono risibili persino a una parte di coloro che li avevano alimentati. Il tracollo del "blocco orientale" non ha restituito all'Europa alcuna compattezza sostanziale, e soprattutto non le ha restituito l'indispensabile sensazione di possedere, in mancanza di una lingua o di una radice etnoculturale, un'anima comune.

Al bipolarismo che aveva fondato un condominio sul pianeta si è sostituita una voglia unilaterale di egemonia che ha prodotto instabilità e guerre a getto continuo nel proposito, fin qui incompiuto, di affermare un ordine planetario a sovranità limitata controllato da un unico gendarme riconosciuto. I guasti provocati da un capitalismo sempre meno umano e produttivo sono stati moltiplicati dall'espansione parossistica dello strapotere della speculazione finanziaria, che tramite la globalizzazione ha inaugurato l'era delle delocalizzazioni e dell'economia virtuale. L'esplosione dei flussi migratori di massa ha assecondato le aspettative di chi, da molto tempo, esaltava le società multietniche per le loro capacità di dissolvere le "barriere" identitarie e disgregare le appartenenze a gruppi stabili, in nome e per conto di una "società di mercato" la cui pietra miliare è un individuo visto come il titolare di interessi esclusivi, e pertanto egoistici. La diffusione degli stili di vita ispirati al consumismo, considerati l'unica tangibile prova dell'accesso ad un mondo migliore (prima di tutto perché emancipato dall'impiccio di regole dettate dalla tradizione), ha propagato ovunque un materialismo pratico che ha ridotto la coltivazione della dimensione spirituale dell'esistenza a grottesca sopravvivenza di superstizioni fuori moda.


E la consacrazione dell'ideologia dei diritti dell'uomo — ipocrita nella sua geometria, variabile secondo le convenienze del momento — ha sepolto la nozione del dovere verso qualunque entità che trascenda la soggettività individuale, fatto salvo uno strumentale culto formale di istituzioni che vengono considerate democratiche solo fintanto che servono gli interessi delle élites di potere, e quando cessano di farlo, magari per un voto "sbagliato" del corpo elettorale a favore di qualche outsider, sono additate alla pubblica esecrazione.

In questo scoraggiante panorama, coloro che potrebbero essere descritti come i "non conformisti degli anni Ottanta" hanno offerto pessima prova di sé. Hanno iniziato alcuni intellettuali di punta formatisi in ambienti di sinistra largamente predominanti nelle università e nell'editoria, che nel volgere di pochi anni si sono allineati al nuovo Zeitgeist, limitandosi tutt'al più a connotare la loro marcia di avvicinamento a tappe forzate all'ideologia liberale di qualche accento di apertura "sociale", fornendo una sequenza disarticolata di versioni progressiste dell'accettato modello occidentale.

E nel loro caso il tragitto non è stato particolarmente disagevole, date le posizioni di privilegio e di prestigio che da tempo detenevano e il favore dell'apparato massmediale che ne ha amplificato e lodato le esternazioni, le conversioni, i ripensamenti, le prese di posizione. Più accidentato, ma non troppo dissimile nella direzione di marcia, è stato l'itinerario delle molto più esigue truppe che avevano mosso sino ad allora i propri passi all'interno di un perimetro convenzionalmente definito "di destra". Qui, ad attraversare le linee per primi non sono stati i pochi che si erano scelti ruoli di intervento culturale — di fatto, un pulviscolo di soggetti, mai fra di loro troppo coesi, il cui raccordo passava solo dalla collaborazione alle modeste testate giornalistiche "di area" — ma gli esponenti politici, ansiosi di cogliere l'occasione finalmente maturata per riguadagnare il campo della legittimità, da sempre irraggiungibile albero della cuccagna.

Per appagare la peraltro comprensibile aspirazione, costoro non si sono fatti scrupolo di abbandonare quasi immediatamente i segni più evidenti dell'imbarazzante diversità coltivata ed esibita nel tepore della nicchia in cui avevano trascorso interi decenni, e con lo stesso vigore con cui in precedenza avevano respinto come eretiche le proposte di evoluzione e riflessione autocritica che erano state loro rivolte da alcuni navigatori borderline del loro bacino d'utenza, hanno abbracciato la via di ben più decise e spudorate abiure. Gli "intellettuali d'area" li hanno seguiti a distanza, a volte con disagio, a volte con la vana speranza di vedersi riconosciuti ruoli di precursori e mentori.

Sarebbe fuori luogo — non in assoluto, che anzi una storia di queste transumanze dovrà pur essere scritta un giorno, senza furori ma anche senza compiacenze, ma in questa sede — tracciare momenti e tappe di questo ripiegamento convergente, da sinistra e da destra, verso quel "centro medico" (per dirla con il Cacciari dei tempi belli) liberale che ha fagocitato pressoché ogni velleità di pensiero critico e ha piegato quel poco che ne resta ai propri fini, facendone lo spauracchio delle "nostalgie del totalitarismo" utile a zittire ogni voce di radicale dissenso.

Ci vorrebbero troppo tempo, troppo sforzo di memoria, troppa documentazione, troppa cura dei dettagli. Ma quanto mai opportuno è descrivere il punto di arrivo di quel percorso, a cui non si può dare che un nome: l'avvio di un'era della rassegnazione. Rassegnazione a vivere in un eterno presente, nel migliore dei mondi possibili — quello che Fukuyama aveva sottilmente descritto e predetto nell'immagine della "fine della Storia", che vedeva nel modello politico, culturale e sociale del liberalismo realizzato il non plus ultra del cammino della civiltà umana.

Rassegnazione ad accettare in un primo momento la mentalità diffusa del nostro tempo come sgradevole ma immodificabile, salvo poi, cammin facendo, convincersi che in fondo non è poi così sbagliata: che il consumismo è divertente, che forse la spiritualità è un ingannevole feticcio, che l'orizzonte del vivere è tutto qui e ora, che essere tutti uguali e cancellare ogni segno distintivo fra gli individui — e non fra le persone, concetto troppo impegnativo e complicato — sarebbe più "giusto" che continuare a riconoscersi reciprocamente diversi.

Rassegnazione a pensare che, in fondo, ad Occidente il mondo è libero da tradizioni, convinzioni, regole e convenzioni che impediscono a ciascuno di comportarsi come più gli aggrada, e occidentalizzare l'intero pianeta non sarebbe male. E, soprattutto, rassegnazione a rinunciare ad ogni progetto di modificare lo stato di cose vigente, perché si sa che cosa si lascerebbe ma non che cosa potrebbe scaturire dal cambiamento.

E per questo che, a sinistra come a destra, anche in ambienti che un tempo si volevano ribelli e radicali, cresce la propensione a condividere pubblicamente giudizi storici su eventi del passato che sono stati per decenni oggetto di accese contese, pensando che una memoria "condivisa" possa favorire compromessi bilateralmente utili sul terreno politico, spartizioni di risorse, alternanze pacifiche e quindi, a turno, vantaggiose.

E prosperano le professioni di fede nei valori del politicamente corretto, nella filosofia dei diritti dell'uomo, nell'universalismo omologante. Mentre annoiano, disturbano, appaiono ripetitive ed inefficaci le critiche ai capisaldi dell'ordine vigente.

Criticare l'americanismo? E passato di moda. Aprire gli occhi sulle tante forme in cui, dietro le presunte esplosioni del "desiderio di libertà" qua e là per i continenti, si mettono in opera i dispositivi di un'ulteriore fase di occidentalizzazione del mondo? Dà un fastidio quasi fisico, puzza di complottismo. Indignarsi di fronte ai crimini che gli Usa ed i loro alleati perpetrano in nome dei sacri principi che ci assicurano di voler difendere, denunciare le menzogne dietro cui li celano? Sa di litania risaputa.

Prendersela con la Nato, con l'Onu, con quel profluvio di organizzazioni internazionali che servono realmente solo gli interessi di quella Nuova Classe che a buon diritto Christopher Lasch ha fustigato? Appare, a seconda dei casi, sconveniente o inutile.

Dopo due secoli fin troppo effervescenti, siamo entrati in un tempo nel quale l'orizzonte delle teorie politiche e sociali è integralmente desertificato. All'orizzonte non si profilano modelli alternativi all'esistente. E tutti i segnali di insofferenza che le rivolte, i voti di protesta, le ondate di "indignazione" inviano faticano ad uscire dal recinto di soluzioni già sperimentate.


C'è chi, con riferimento alla visione del mondo «specialmente forte nell'Europa occidentale» cui sopra facevamo riferimento, ha creduto di individuare nel voto crescente per formazioni politiche populiste un segnale di reazione, poiché quella visione «agli occhi delle popolazioni europee apparterrebbe ormai sempre più incongrua rispetto ai nuovi scenari interni e internazionali», e ne ha tratto la conclusione che «le oscure prospettive della crescita economica; il calo demografico e l'invecchiamento con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici; l'immigrazione; l'avvento di universi culturali, come quello elettronico-telematico, inediti e pervadenti, profondamente spaesanti; la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nella massa dei meno istruiti, dei più anziani, dei soggetti deboli — cioè, nella maggioranza —, un clima di inquietudine, di timori oscuri, di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti» 2 .

Il che, appunto, assicurerebbe vigore alle argomentazioni del populismo.
Può essere.

Ma, a parte il fatto che questa rappresentazione dei fatti continua a perpetuare l'immagine di una componente residuale — debole, anziana, meno istruita: insomma, una sorta di relitto — portata a resistere a tendenze che, evidentemente, i forti, i giovani, gli istruiti accolgono con favore se non con entusiasmo, quasi che fossero foriere di effetti positivi, il problema è che quelle certezze, quei valori stabili e riconosciuti di cui si parla, nel quadro attuale nessuno è in grado di fornirli. 
E, parimenti, nessuno indaga la possibilità di battere altre vie.
Ci si rassegna alla propagazione virale della mentalità del materialismo consumistico e individualista veicolata dall'ideologia liberale.

E si punta sul fatto che gli inquieti, i delusi, gli insofferenti, i ribelli, ingabbiati nella logica dell'insuperabilità dello status quo, finiranno per accettare il destino degli animali selvatici rinchiusi, o nati, in uno zoo: preoccuparsi giorno per giorno della mera sopravvivenza, aspettando inconsapevolmente il giorno della fine.

 
NOTE
1. Ernesto Galli della Loggia, La frattura culturale, in «Corriere della Sera», 20 aprile 2011, pag. 1. Il riferimento qui è alle élites che indirizzano l'azione dell'Unione europea, ma ci pare che si possa estendere senza abusi al modello generale che le ispira.
2. Ibidem.
www.ariannaeditrice.it
 
Marco Tarchi

 

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