Daoud è molto contento della promozione appena ricevuta. Agente di polizia in un villaggio vicino Gardez, nella provincia di Paktia, Afghanistan sud-orientale, Mohammed Daoud Sharabuddin invita allora amici e parenti a casa sua per festeggiare.
Daoud – la cui etnia è Tagika, a differenza di quella Pashtun cui appartiene la maggioranza dei Talebani - ha una vera passione per gli americani, ha partecipato a molti loro corsi di addestramento e la sua casa è piena di fotografie che lo ritraggono insieme a militari USA. Un membro della sua famiglia è un procuratore del governo locale appoggiato dagli USA e un altro addirittura un dirigente della vicina Università.
È il 12 Febbraio 2010 e una ventina di persone tra amici e famigliari di Daoud stanno facendo festa, con balli e canti, quando, verso le 3.30 di mattina, si sentono dei rumori all’esterno e Daoud, insieme a Sediqullah, il figlio quindicenne, escono fuori armati temendo un attacco da parte dei Talebani.
Da quel momento una festa di famiglia si trasforma in una mattanza.
I due vengono immediatamente abbattuti da colpi d’arma da fuoco.
Altre persone richiamate dagli spari escono di casa per vedere cosa sta succedendo, comprese due donne incinte che cercano di trattenere un familiare, Zahir, dall’uscire all’aperto. Tutti vengono subito colpiti; sette persone restano sul terreno morti o agonizzanti, tra cui tre donne.
Talebani?
No, forze speciali americane del JSOC (Joint Special Operations Command) agli ordini dell’Ammiraglio William McRaven.
Subito dopo gli americani irrompono in casa e separano donne e uomini, portando via questi ultimi legati e bendati, senza portare i feriti in ospedale nonostante le suppliche dei sopravvissuti.
Poi, alcuni di loro, infilano dei coltelli nelle ferite delle donne incinte massacrate per rimuovere i proiettili, in modo da non far risultare la responsabilità della squadra di assalto.
Incatenato e incappucciato, Mohammed Sabir, ancora inzuppato del sangue dei suoi cari massacrati, è uno degli uomini trascinati via e caricati sugli elicotteri del JSOC.
Sabir viene separato dagli altri, non riceve cibo né acqua – neppure per togliersi di dosso il sangue dei suoi famigliari macellati - per tre giorni e tre notti.
Ripete all’infinito di fronte a interrogatori pressanti che lui non è un Talebano, che i Talebani sono suoi nemici, che lui combatte i Talebani, che i Talebani hanno rapito dei suoi cari.
“Gli interrogatori – ricorda Sabir - venivano condotti da persone con la barba corta e senza uniforme. Avevano scatti di violenza improvvisi. Io ripetevo loro la verità, vale a dire che non c’erano talebani nella nostra casa”.
Uno degli americani gli dice che avevano ricevuto da fonti d’intelligence la soffiata che un attentatore suicida si era nascosto in casa loro e che stava progettando un attentato.
Sabir gli risponde: “Se avessimo avuto un attentatore suicida tra noi, avremmo suonato e cantato in casa nostra? Quasi tutti gli ospiti di quella festa erano dipendenti del governo”.
Quando Mohammed Sabir ritorna a casa, dopo essere stato imprigionato e interrogato dagli americani, è troppo tardi per assistere alla sepoltura della moglie e degli altri membri della famiglia trucidati.
Il raid non passa inosservato alla stampa di regime che rilancia la versione ufficiale secondo la quale un gruppo di eroiche forze speciali aveva avuto uno scontro con dei Talebani in un villaggio vicino Gardez.
Un comunicato dell’ISAF, forza NATO, aggiunge che, nel corso dell’eroica missione, era stata fatta una macabra scoperta. Secondo la NATO, infatti, i militari erano entrati in un compound vicino al villaggio di Khataba dopo che fonti d’intelligence avevano “confermato” che si trattava di un sito in cui erano stati individuati dei ribelli.
Mentre si avvicinava – così la versione NATO – la squadra era stata coinvolta in un “conflitto a fuoco” con “parecchi insorti”.
Eliminati i ribelli gli americani avevano trovato tre donne legate e imbavagliate e poi giustiziate all’interno del complesso. Le forze USA - così il comunicato stampa - avevano trovato le donne “nascoste in una stanza vicina”.
Questa versione dei fatti venne ripresa e diffusa, nei giorni successivi al raid, da tutti i media.
Un “alto funzionario militare americano” affermò alla CNN che i corpi portavano su di sé “le caratteristiche di un tradizionale delitto d'onore”.
Del massacro di Khataba – come di cento altri simili - si sarebbe saputo solo questo se due giornalisti coraggiosi - Jerome Starkey e Jeremy Scahill - non avessero voluto andare fino in fondo, raccogliendo elementi e intervistando i superstiti dell’orrore.
Le indagini di Jerome Starkey costrinsero ben presto la NATO a riconoscere che la storia del “delitto d’onore” e delle donne uccise “trovate legate e imbavagliate” era un falso, obbligando gli americani ad aprire un’inchiesta.
Jeremy Scahill amplificò ulteriormente lo scandalo con il suo libro - e relativo film - Dirty Wars (guerre sporche).
Da quel giorno di Febbraio sono trascorsi sei anni e solo oggi la commissione d’inchiesta del Dipartimento della Difesa ha concluso la sua indagine.
E il verdetto è – avevate qualche dubbio? - che “tutti i militari hanno seguito le regole d’ingaggio” e che quindi non c’è nessun colpevole, nessuno da punire.
Nonostante due bambini colpiti, due donne incinte crivellate di colpi e testimoni che raccontano che dei militari americani aprivano i loro corpi per estrarre i proiettili, gli inquirenti del Dipartimento della Difesa hanno concluso l’inchiesta affermando letteralmente – pur riconoscendo qualche “errore tattico” - che “la forza utilizzata era necessaria, proporzionale e applicata al momento opportuno”.
Ci racconta Scahill, tornato sul luogo del massacro, che la famiglia delle vittime non può perdonare gli americani. Mesi dopo Hajji Sharabuddin, l’anziano della famiglia, che va a trovare a casa sua, gli dice: “Non accetto le loro scuse. Non scambierei i miei figli per tutto il regno degli Stati Uniti ... Dapprima credevamo che gli americani fossero amici degli afghani, ma ora sappiamo che gli americani sono terroristi come gli altri. Gli americani sono nostri nemici. Portano terrore e distruzione; non hanno solo distrutto la mia casa ma anche la mia famiglia”.
Aggiunge Mohammed Tahir, il padre di una delle donne massacrate: “Noi li chiamiamo ‘Americani Talebani’”.
Come dargli torto?
Piero Cammerinesi
fonte: http://liberopensare.com/articoli/1110-americani-talebani
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