La crisi nel Myanmar, nel Sudest dell’Asia, ha confuso molti analisti geopolitici per la complessità storia e la copertura intenzionalmente ingannevole e contraddittoria data dai media occidentali. Il governo del Myanmar è diretto da Aung San Suu Kyi e dalla sua Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), saliti al potere dopo una lotta contro l’esercito che ha governato la nazione per decenni.
Aung San Suu Kyi è una creatura ed agente degli interessi statunitensi ed europei
Suu Kyi e il suo NLD ricevevano decine di milioni di dollari in aiuti statunitensi, inglesi ed europei. Furono create intere reti di facciate come organizzazioni non governative (ONG) per minare e rovesciare le istituzioni nazionali del Myanmar.
Suu Kyi e il suo NLD ricevevano decine di milioni di dollari in aiuti statunitensi, inglesi ed europei. Furono create intere reti di facciate come organizzazioni non governative (ONG) per minare e rovesciare le istituzioni nazionali del Myanmar.
La portata di questo sostegno e
finanziamento è riportata da molte organizzazioni occidentali, tra cui
la Campagna inglese per la Birmania, che nel suo rapporto di 36 pagine
del 2006, “Fallimento del popolo della Birmania“? (PDF)
dettaglia ampiamente come essa e le controparti statunitensi
costruirono l’attuale impressionante dominio politico di Suu Kyi. Il
rapporto afferma esplicitamente:
“Il National Endowment for Democracy (NED – cfr. Appendice 1, pagina 27) era l’avanguardia del nostro programma per la promozione della democrazia e dei diritti umani in Birmania dal 1996. Fornimmo 2500000 dollari nel FY 2003 per la Birmania sulla legislazione per le operazioni estere. Il NED utilizzerà questi fondi per sostenere le organizzazioni per la democrazia birmane e delle minoranze etniche attraverso un programma di sovvenzioni. I progetti finanziati sono destinati a diffondere informazioni in Birmania a sostegno dello sviluppo democratico, a creare infrastrutture e istituzioni democratiche, a migliorare la raccolta di informazioni sugli abusi dei diritti umani da parte delle Forze Armate birmane e ripristinare la democrazia quando si avranno aperture politiche e il ritorno di esuli/rifugiati”.
Il rapporto continuava:
“Voice of America (VOA) e Radio Free Asia (RFA) hanno servizi birmani. VOA trasmette tre volte al giorno un mix di notizie e informazioni internazionali di 30 minuti. RFA trasmette notizie e informazioni sulla Birmania due ore al giorno. I siti web VOA e RFA contengono anche materiale audio e testi in birmano e inglese. Ad esempio, l’editoriale del VOA del 10 ottobre 2003, “Liberare Aung San Suu Kyi” è prominente nella sezione birmana di VOAnews.com. Il sito di RFA mette a disposizione 16 versioni audio dei discorsi di Aung San Suu Kyi dal 27 al 29 maggio 2003. La radio internazionale statunitense fornisce informazioni cruciali a una popolazione a cui sono negati i vantaggi della libertà d’informazione dal governo”.
Per quanto riguarda l’indottrinamento e l’istruzione dei futuri capi di
questo blocco politico asservito all’occidente, si affermava:
“Il dipartimento di Stato ha fornito 150000 dollari di fondi FY 2001/02 per dare borse di studio ai giovani attraverso Prospect Burma, un’organizzazione partner con stretti legami con Aung San Suu Kyi. Con i fondi del FY 2003/04, abbiamo intenzione di sostenere il lavoro di Prospect Burma data la competenza dimostrata dall’organizzazione nella gestione delle borse di studio ad individui a cui viene negata l’istruzione dalla continua repressione della giunta militare, ma impegnati al ritorno della democrazia in Birmania”.
Per quanto
riguarda l’Open Society di George Soros, criminale finanziario, e la sua
interferenza nella politica interna di Myanmar, il rapporto affermava:
“La nostra assistenza all’Istituto Open Society (OSI) (fino al 2004) fornisce un sostegno parziale al programma per concedere borse di studio agli studenti fuggiti dalla Birmania e che desiderano continuare gli studi fino alla laurea o post-laurea. Gli studenti in genere frequentano scienze sociali, sanità, medicina, antropologia e scienze politiche. La priorità è data agli studenti che esprimono la volontà di tornare in Birmania o lavorare nelle comunità dei rifugiati per la riforma democratica ed economica del Paese”.
Il rapporto, scritto nel 2006
quando un altro fantoccio statunitense, Thaksin Shinawatra, guidava la
Thailandia come primo ministro, fino alla sua dipartita l’anno dopo,
dettagliava il ruolo che la Thailandia giocava per sconvolgere e
rovesciare l’ordine politico del Myanmar:
“L’anno scorso il governo degli Stati Uniti ha iniziato a finanziare un nuovo programma dell’Organizzazione internazionale per la migrazione (OIM) per fornire servizi sanitari basilari ai migranti birmani al di fuori dei campi profughi ufficiali, in collaborazione con il ministero della Sanità Pubblica tedesco. Questo progetto era sostenuto dal governo tailandese e ha ricevuto copertura favorevole dalla stampa locale. Sforzi come questo, volti a trovare modi positivi per lavorare con il governo tailandese in aree d’interesse comune, contribuiscono a creare un sostegno ai programmi finanziati dagli Stati Uniti per aiutare i gruppi per la democrazia birmani”.
Il ministro dell’informazione Myanmar, Pe Myint, ad esempio, frequentò
la Fondazione Memorial Media of Indochina, finanziata da NED e Open
Society, a Bangkok. Un cablo diplomatico statunitense reso disponibile
da WikiLeaks rivela quanto fosse integrale tale formazione nello
sviluppo dello Stato cliente degli Stati Uniti che ora domina il
Myanmar. “Titolo: “Panoramica delle organizzazioni dei media birmane basate nella Thailandia settentrionale“, che dichiarava nel 2007:
“Altre organizzazioni, alcune in ambito esterno alla Birmania, aggiungono anche opportunità educative per i giornalisti birmani. Per esempio, la fondazione Memorial Media of Indochina di Chiang Mai ha completato l’anno scorso i corsi di formazione per giornalisti del sudest asiatico, inclusi birmani. I principali finanziatori dei programmi di formazione giornalistica nella regione sono NED, Open Society Institute (OSI) e vari governi e amministrazioni europei… Un certo numero di attivi programmi di formazione sui media attirano gli esuli e i residenti dalla Birmania a Chiang Mai per corsi di giornalismo che vanno da una settimana ad un anno. Questi programmi di formazione identificano i giornalisti che potrebbero essere attivi nelle comunità della Birmania, così come nelle ONG in Thailandia, aiutandoli ad assicurarsi posizioni per riferire sui media birmani nella regione. I programmi di formazione contribuiscono a garantirsi che le generazioni future potranno sostituire i fondatori delle organizzazioni attuali”.
Il cablo
collega anche i finanziamenti statunitensi all’atteggiamento
prevedibilmente “pro-americano” adottato da chi riceve tali
finanziamenti:
“Nel rinnovo dei contatti dei diplomatici statunitensi che interagiscono con i media stranieri, la comunità dei giornalisti in esilio rimane fermamente pro-americana. Gruppi come DVB e The Irrawaddy cercano continuamente maggiori informazioni dai funzionari statunitensi ed utilizzano frequentemente interviste, comunicati stampa e clip audio pubblicati sui siti web del governo USA. Un colloquio dal vivo con un diplomatico statunitense è merce preziosa, che può anche instillare una sana concorrenza tra i notiziari rivali nel scovare uno scoop. Un colloquio con Irrawaddy del 2006 di EAP DAS Eric John fu replicato in diversi articoli e diffuso ampiamente in tutta la comunità in esilio e sui media principali. I finanziamenti del governo USA svolgono un ruolo in questa buona volontà…”
Senza dubbio, Suu
Kyi e coloro che occupano i vertici del suo governo, sono il prodotto di
decenni di sostegno, formazione e indottrinamento di Stati Uniti e
Regno Unito.
I “terroristi rohingya” sostenuti dai sauditi non rappresentano i rohingya più di quanto lo SIIL rappresenti i sunniti
Una narrativa infelice si afferma sui media alternativi, raffigurando la
minoranza rohingya del Myanmar come “islamisti” che adottano la
“jihad”. In realtà, la minoranza rohingya in Myanmar vi ha vissuto per
generazioni. Fino a poco tempo fa, vivevano in armonia con i vicini
buddisti in tutto il Paese, anche nello Stato Rakhine. Molti dei punti
di discussione adottati contro i rohingya sono letteralmente copiati dai
gruppi estremisti statunitensi nel Myanmar.
Le affermazioni secondo cui
il termine “rohingya” sia semplicemente finto, perché in realtà
sarebbero illegali bengalesi che dovrebbero essere espulsi dal Myanmar,
sono i punti fondamentali dei sostenitori violenti di Suu Kyi, i “monaci della rivoluzione zafferano”
di anni prima. I sostenitori sempre più autoritari di Aung San Suu Kyi,
molti presenti durante la rivoluzione di zafferano del 2007, sono i
primi agitatori della crisi sui rohingya.
Mentre i media occidentali
tentano di ritrarre l’esercito come responsabile delle violenze, sono
spesso i militari che intervengono per fermare gli estremisti che
attaccano i villaggi rohingya e i campi profughi che cercano di
distruggere e bruciare. Fu il governo militare a cercare di concedere la
cittadinanza ai rohingya, cui si oppose violentemente il partito
politico di Suu Kyi e i suoi sostenitori, concludendolo una volta che
Suu Kyi è andata al potere.
Ultimamente i media occidentali hanno notato
l’emergere dei terroristi filo-rohingya che avrebbero effettuato
numerosi gravi attentati contro unità di polizia e militari nello Stato
Rakhine.
Naturalmente, alcun gruppo terroristico esiste senza un
sostanziale sostegno politico, finanziario e materiale. E come altri
conflitti politicamente convenienti, eruttati in Libia, Siria, Yemen e
Filippine, il finanziamento statunitense-saudita è evidente nelle ultime
violenze in Myanmar. The Wall Street Journal in un recente articolo
intitolato:
“Gli abusi in Birmania sui musulmani rohingya creano una violenta reazione“, afferma: “Ora questa politica immorale ha creato un gioco violento. L’ultima insorgenza musulmana scoppia coi militanti rohingya, sostenuti dai sauditi, contro le forze di sicurezza birmane. Mentre le truppe governative si vendicano sui civili, rischiando d’ispirare ancor più i rohingya alla lotta”. L’articolo afferma inoltre: “Chiamato Haraqat al-Yaqin, in arabo “Movimento della Fede”, il gruppo risponde a un comitato di emigrati rohingya alla Mecca e a quadri di capi locali con esperienza di guerriglia all’estero. L’ultima campagna, che prosegue da novembre con attacchi e attentati che hanno ucciso diversi agenti di sicurezza, è stata approvata dal clero in Arabia Saudita, Pakistan, Emirati ed altrove. I rohingya “non sono mai stati una popolazione radicalizzata”, osserva ICG, “e la maggioranza della comunità, anziani e capi religiosi hanno precedentemente definito le violenze controproducenti”. Ma questo sta rapidamente cambiando. Haraqat al-Yaqin fu fondato nel 2012 dopo che i disordini etnici nel Rakhine uccisero circa 200 rohingya ed ora si stima che abbia centinaia di combattenti”.
Mentre molti osservatori notano che le violenze a cui i rohingya sono
sottoposti provocherà una reazione violenta, le insorgenze armate non
emergono spontaneamente. Atti di violenza isolati, bande organizzate con
capacità limitate sono possibili, ma la violenza che Wall Street Journal
descrive non è una “reazione”, è militanza motivata da interessi
politici esteri e finanziata da stranieri che operano con la scusa della
“reazione”.
Aung San Suu Kyi e terroristi “rohingya”: benzina e fuoco, non buoni contro cattivi
L’attuale regime cliente che presiede il Myanmar, creato e perpetuato
dal denaro e dal sostegno statunitensi, affronta un terrorismo
intenzionalmente finanziato ed organizzato dal più vicino alleato degli
USA in Medio Oriente, l’Arabia Saudita. È una combinazione di benzina e
fuoco, gli strumenti di un solo incendiario che intenzionalmente crea
una conveniente confusione geopolitica.
Va notato che lo Stato Rakhine è
il punto di partenza di uno dei vari progetti cinesi dell’One Belt One
Road, che collega con un’infrastruttura il porto di Sittwe in Myanmar
alla città meridionale della Cina di Kunming.
Non solo le violenze nello
Stato Rakhine minacciano gli interessi cinesi, ma creano anche il
pretesto per il coinvolgimento militare diretto degli Stati Uniti, sia
sotto forma di “aiuto antiterrorismo”, come offerto alle Filippine per
combattere i terroristi dello Stato islamico sostenuti da USA-Arabia
Saudita, o sotto forma di “intervento umanitario”.
In entrambi i casi,
il risultato saranno militari statunitensi piazzati in una nazione
direttamente confinante con la Cina, nell’Asia sudorientale, proprio ciò
che i politici statunitensi vogliono da decenni. Ad esempio, il
Progetto per un nuovo secolo americano (PNAC) in un documento del 2000
intitolato, “Ricostruire le difese americane” (PDF),
dichiarava apertamente l’intenzione di stabilire una presenza militare
ampia e permanente nell’Asia sudorientale.
La relazione affermava
esplicitamente che:
“…è il momento di aumentare la presenza delle forze statunitensi nel Sud-Est asiatico”.
Riferiva in dettaglio, affermando:
“Nel Sud-Est asiatico, le forze statunitensi sono troppo sparse per rispondere adeguatamente alle crescenti esigenze della sicurezza. Dal ritiro dalle Filippine nel 1992, gli Stati Uniti non hanno avuto una significativa presenza militare permanente nell’Asia sudorientale. Né le forze statunitensi nell’Asia nord-orientale possono facilmente operare o schierarsi rapidamente nel Sud-Est asiatico, certamente non senza mettere la presenza in Corea a rischio. Fatta eccezione per i pattugliamenti delle forze navali, la sicurezza di questa regione strategicamente significativa e sempre più tumultuosa è stata abbandonata dagli statunitensi”.
Notando la difficoltà di mettere truppe statunitensi laddove lo si desidera, il documento del PNAC notava:
“Questo sarà un compito difficile che richiede sensibilità verso i diversi sentimenti nazionali, ma è ancor più impegnativo con l’emergere di nuovi governi democratici nella regione. Per garantire la sicurezza dei nostri alleati e delle nazioni recentemente democratizzate in Asia orientale, gli Stati Uniti possono contribuire a garantirsi che l’ascesa della Cina sia pacifica. Infatti, nel tempo, il potere statunitense e degli alleati nella regione può fornire la spinta al processo di democratizzazione nella Cina stessa”.
Va notato che il riferimento
del documento all’emergere di nuovi governi democratici nella regione va
agli Stati clienti creati dagli Stati Uniti per conto dei propri
interessi, e non costituiscono in alcun modo dei “governi democratici”
che rappresentano gli interessi del popoli dai “sentimenti nazionali”
che in primo luogo si oppongono alla presenza militare statunitense
nella regione.
Nel 2000, gli Stati Uniti avevano diversi potenziali
regimi clienti, tra cui Suu Kyi in Myanmar, Thaksin Shinawatra in
Thailandia e Anwar Ibrahim in Malesia. Da allora, rimane solo Suu Kyi,
mentre Shinawatra e sua sorella sono fuggiti all’estero, e Ibrahim è in
carcere.
Conclusioni
È importante che anche lettori ed analisti capiscano diversi punti chiave della crisi in Myanmar:
– Aung San Suu Kyi e il suo partito sono mere creazioni degli interessi statunitensi e europei;
– i rohingya hanno vissuto in Myanmar per generazioni;
– i terroristi rohingya, sostenuti dai sauditi, non rappresentano il popolo rohingya più di quanto lo Stato islamico rappresenti i sunniti in Siria e Iraq;
– Questi “militanti” sono ampiamente sostenuti e diretti dall’Arabia Saudita e non rappresentano la legittima “reazione” alle violenze anti-rohingya;
– Gli Stati Uniti non cercano un “cambio di regime” in Myanmar, ma di spezzare gli interessi cinesi, annullare i legami Cina-Myanmar e, se possibile, piazzare militari statunitensi al confine con la Cina.
Più ci si allontana da questi fatti, come gli analisti iniziano a fare,
più lontani dalla verità ci si ritroverà mentre il conflitto in Myanmar
continua. Lettori ed analisti dovrebbero sospettare delle narrazioni
basate sulla retorica ideologica o costruite sull’analogia geopolitica,
piuttosto che su prove concrete su finanze, logistica e motivazioni
socioeconomiche.
In Myanmar, il movimento di Suu Kyi, le violenze
anti-rohingya e la presunta “reazione” sono accompagnati da prove
estremamente evidenti e significative. È un testamento della gravità e
complessità della manipolazione che l’occidente è ancora capace
d’intraprendere mettendo in pericolo non solo la maggioranza della
popolazione del Myanmar, buddista o rohingya, che desidera vivere in
pace, ma l’intera regione mentre gli Stati Uniti tentano di continuare a
perseguire l’egemonia regionale.
Tony Cartalucci, LD, 5 settembre 2017
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
Soros e idrocarburi: i responsabili della crisi in Myanmar
Il conflitto rohingya in Myanmar, riacceso nell’agosto 2017, sembra
essere una crisi pluridimensionale che coinvolge importanti attori
geopolitici, secondo gli esperti che attribuiscono le recenti violenze
nel Paese a cause interne ed estere. La crisi dei rohingya, scontro tra
buddisti e musulmani nel Myanmar occidentale da fine agosto, è
chiaramente alimentata da attori esteri globali, afferma a RT Dmitrij
Mosjakov, direttore del Centro per Asia sudorientale, Australia e
Oceania dell’Istituto di studi orientali dell’Accademia delle scienze
russa.
Secondo lo studioso, il conflitto ha almeno tre dimensioni: “Prima
di tutto, è una manovra contro la Cina, avendo investito molto
nell’Arakan. In secondo luogo, è volto ad alimentare l’estremismo
musulmano nell’Asia sudorientale… Infine, è un tentativo di seminare
discordia nell’ASEAN (tra Myanmar e Indonesia e Malaysia musulmane)“.
Secondo Mosjakov, il conflitto da secoli viene utilizzato da attori
esteri per minare la stabilità dell’Asia sudorientale, soprattutto per
le sfide poste dai grandi giacimenti di petrolio al largo delle coste
dello Stato di Arakan.
“C’è l’enorme giacimento di gas Than Shwe, denominato dal generale che ha governato il Myanmar. Inoltre, la zona costiera dell’Arakan contiene certamente idrocarburi”.
Da quando
gli enormi giacimenti presso lo Stato di Arakan furono scoperti, nel
2004, attraggono l’attenzione della Cina.
Nel 2013, la Cina completò la
costruzione di un oleogasdotto che collega il porto di Kyaukphyu alla
città di Kunming, nella provincia dello Yunnan. Il gasdotto consente a
Pechino di ricevere petrolio medio-orientale e africano evitando lo
stretto di Malacca, mentre il gasdotto trasporta idrocarburi dai campi
offshore del Myanmar alla Cina.
Lo sviluppo del progetto cino-myammarese
coincise con l’intensificazione del conflitto rohingya nel 2011-2012,
quando 120.000 profughi fuggirono dal Paese per evitare spargimento di
sangue. Secondo Dmitrij Egorchenkov, Vicedirettore dell’Istituto di
Studi Strategici e Pronostici dell’Università dell’Amicizia dei Popoli
della Russia, non è un caso. Anche se ci sono cause interne alla crisi,
molto probabilmente è alimentata da attori esteri, in particolare dagli
Stati Uniti.
La destabilizzazione del Myanmar può influenzare i progetti
energetici della Cina e creare instabilità presso Pechino. A causa
della crisi tra Stati Uniti e Corea democratica, altro vicino della
Cina, Pechino potrebbe ritrovarsi nel mezzo di un tiro incrociato.
Nel
frattempo, la Task Force Birmania, che comprende diverse organizzazioni
finanziate da George Soros, è attivamente impegnata in operazioni nel
Myanmar dal 2013 ed invita la comunità internazionale a fermare il
genocidio della minoranza musulmana dei rohingya.
Tuttavia,
l’interferenza di Soros negli affari interni del Myanmar affondano nella
storia del Paese. Nel 2003, George Soros si unì a un gruppo di lavoro
degli Stati Uniti per aumentare la
“cooperazione statunitense con altri Paesi per portare avanti la trasformazione politica, economica e sociale della Birmania (Myanmar), che procedeva a rilento“.
Il documento del 2003 del Consiglio sulle Relazioni Estere (CFR) intitolato “Birmania: il momento del cambiamento“, annunciava l’istituzione del gruppo insistendo sul fatto che
“la democrazia… non può sopravvivere in Birmania senza l’aiuto di Stati Uniti e comunità internazionale“.
Parlando a RT, Egorchenkov spiegava:
“Quando George Soros va in questo o quel Paese… cerca le contraddizioni religiose, etniche o sociali, sceglie il modello d’azione secondo queste opzioni o una loro combinazione, e poi cerca di “acutizzarle”.”
Secondo Mosjakov,
sembra che alcune economie globali consolidate cerchino di contenere il
rapido sviluppo delle nazioni dell’ASEAN creandovi conflitti interni.
Lo
studioso sostiene che la politica del contenimento globale cerca
d’istigare le discordie nelle formazioni regionali stabili. Suscitando
conflitti regionali, gli attori esteri ne approfittano per controllare
gli Stati sovrani o esercitarvi una notevole pressione. La recente crisi
rohingya iniziava il 25 agosto, quando gli insorti musulmani rohingya
attaccarono le guardie di frontiera nello Stato di Arakan nel Myanmar.
La grave reazione delle autorità del Paese scatenava scontri violenti,
uccidendo almeno 402 persone.
Tuttavia, secondo alcune stime, 3000
musulmani sarebbero stati uccisi nel conflitto che, iniziato quasi un
secolo fa, si acuì gradualmente dal 2011 fino al 2012, quando migliaia
di famiglie musulmane cercarono rifugio in speciali campi profughi nel
Paese o in Bangladesh. Un’altra escalation si ebbe nel 2016.
Sputnik, 5 settembre 2017
Traduzione di Alessandro Lattanzio
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