martedì 6 agosto 2013

OGM: il diritto di copyright passa sopra a tutto?


bottiglia pet
Una delle questioni più interessanti, nel dibattito sugli OGM, riguarda il diritto di copyright.
E, si badi bene, qui la discussione non c’entra nulla (apparentemente) con le conseguenze o gli effetti indesiderati che tali organismi possono avere: riguarda un aspetto legale apparentemente secondario.


Allora: il copyright, il diritto di copia, riguarda la cosiddetta proprietà intellettuale; ne abbiamo già parlato quando abbiamo visto, in questo post, come le multinazionali che sono presenti in vari stati del mondo spostano e modellano gli utili in modo da evitare di pagare tasse.

E uno dei sistemi più usati è proprio l’utilizzo della tassazione praticamente nulla che alcuni paesi, fra cui l’Olanda, applicano agli utili da proprietà intellettuale.

Ad esempio: siete un produttore di scarpe; ipotizziamo che produciate le scarpe in Italia, e le vendiate sempre in Italia, come evitare la tassazione sugli utili da impresa?

Ovviamente abbassando gli utili. Ma, almeno finchè non si fa del nero, tutto quello che esce da una parte deve entrare da un’altra, e quindi vi inventate una società controllata, con sede in Olanda, che detiene i diritti di copyright su tutti i modelli che producete.

Ovviamente questa consociata vi fattura moltissimo, per le sue “creazioni“, impedendovi di fare il benchè minimo utile in Italia. Loro (siete sempre voi) faranno utili altissimi, ma tanto, si sa, in Olanda gli utili di questo tipo non vengono tassati.

Fin qua, niente di strano. Anche se in questo esempio il copyright è usato in maniera perversa (per non pagare tasse), esiste una oggettiva necessità di riconoscere, a chi effettua una invenzione o una innovazione utile, una ricompensa proporzionata all’utilità generata.

Pensate alle bottiglie di pet delle bevande gassate, quelle con la strozzatura nel mezzo: una evidente comodità, che permette di utilizzare una quantità minore di plastica, senza l’inconveniente che le bottiglie si pieghino quando si versa nel bicchiere. Sembra giusto, evidente riconoscere una piccola “fee“, una percentuale del costo della bottiglia, al detentore del brevetto. Magari non esagerata, magari per un numero limitato di anni, ma, insomma, un riconoscimento dell’opera dell’ingegno ci deve essere.

Nel post “Il business ideale“, analizzando i settori del software e dei medicinali si vedeva come in questi settori, di fatto, si paga non il “pezzo” singolo, che di per sè non avrebbe che un costo irrisorio, ma la creatività, l’ingegno, di chi ha messo in piedi quel software o chi ha scoperto quel principio attivo; vero è che il principio attivo deve diventare di dominio comune dopo un po’ di anni (farmaci generici), mentre per il software questo non avviene, ma qui in compenso il limite che definisce cosa è “copia” è molto sottile, e pacchetti quasi identici a Office (OpenOffice, LibreOffice) circolano senza troppi problemi (anche perchè, probabilmente, non riescono ad intaccare che per pochi punti percentuali le quote di mercato del loro fratello maggiore a pagamento).

La citazione del mercato del software, e di Office in particolare, non è a caso perchè proprio il nostro Bill Gates, l’ex ragazzo d’oro della liberalizzazione, quello grazie al quale lo strapotere del mondo chiuso dei mainframe si avviò verso il declino, sembra sia intervenuto in favore del diritto di copyright riferendosi ad una causa fra Monsanto e un agricoltore (analoga a quella di Percy Schneiser citata qui).

E non tanto in quanto azionista della Monsanto, quanto per il principio ideale, la nobile causa, il principio che “… in assenza di protezione del copyright (nel caso della causa della Monsanto) questo avrebbe potuto aprire varchi pericolosi anche in altri settori contigui o simili, come quello del software“.

Insomma: se la giustizia non ci difende, chi ce lo farà fare di fare investimenti, ricerca e sviluppo, ecc., se non abbiamo la garanzia che potremo avere un ritorno dell’investimento, cioè lucrare dalla nostra attività?

E questo è stato infatti proprio il principio guida che ispirò la corte suprema canadese nella causa Monsanto contro Percy Schmeiser. Loro sentenziarono un paio di principi apparentemente assurdi e cioè che:
  1. indipendentemente dal modo in cui le piantagioni di un agricoltore siano state contaminate (accidentalmente o di proposito) con sementi modificate geneticamente con geni brevettati, le piante appartengono alla Monsanto (che era, in quel caso, la titolare del brevetto) e non appartengono più al titolare del terreno e dei raccolti;
  2. non importa quale sia la % di piante “contaminate“: non esiste cioè un limite (50%. 30%, 10%) al di sotto del quale la regola sopra esposta non debba essere applicata: vale per qualsiasi percentuale.
Se queste disposizioni vi sembrano incredibili e frutto soltanto di una mente malata e completamente asservita, per non dire venduta, alle multinazionali, oltre a dirvi che sono d’accordo con voi, aggiungo però che, a parziale discolpa di quel giudice viene in soccorso il principio del copyright, proprio in quanto la motivazione fu che, in assenza di tale diritto, qualunque agricoltore avrebbe potuto comprare i semi dalla Monsanto (pagandoli), seminarli, e conservarne una parte per il raccolto degli anni successivi senza dare un cent alla Monsanto.

La quale -poverina- avrebbe in tal modo speso miliardi, e anni di ricerca e sviluppo per sviluppare qualcosa che avrebbe generato cash-flow solo il primo anno. Per un giudice asservito alla logica del libero mercato, questo è chiaramente inaccettabile. Avrebbe una sua logica, tutto sommato.

-oOo-

Quello che invece è veramente inaccettabile, per noi, è proprio il principio di fondo: che la ricerca e sviluppo su organismi geneticamente modificati, così delicati e potenti, in grado di stravolgere le regole eterne della Natura alterando equilibri e inducendo mutazioni genetiche dagli effetti collaterali non soltanto indesiderati ma sconosciuti, venga effettuata e finanziata da chi, dall’introduzione sul mercato di tali OGM, potrà beneficiarne individualmente.

Sarebbe come permettere al ladro di inventare un nuovo tipo di cassaforte: è evidente il conflitto di interessi, insanabile, che si avrebbe.

Allo stesso modo, se la ricerca sugli OGM viene effettuata da chi confida di trarne benefici finanziari enormi, chi ci garantisce la trasparenza nell’attività di ricerca e sviluppo?  

Chi ci garantisce l’assoluta integrità, e non, viceversa, il desiderio di mascherare o sottovalutare possibili effetti collaterali?

Il principio di difesa del copyright può anche andar bene, entro certi limiti (durata, percentuale, ecc.).

Ma lasciare la ricerca sugli OGM in mano a chi da tali organismi conta di trarne beneficio, è troppo pericoloso.  

Ricerca e possibilità di utilizzo a fini commerciali vanno separate, se non si vuole rischiare di compromettere definitivamente questo mondo che ci è stato affidato e che troppo spesso consideriamo a nostro uso e consumo, senza preoccupazione per le conseguenze a lungo termine.

Alberto Medici

fonte: http://www.stampalibera.com/?p=65625

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