Ognuno ricavi in sé le risorse del rinnovamento, sperduti come siamo nel fondo abbacinante della società tecnocratica.
Il gioco della modernità è perverso e noi
rifiutiamo ogni perversione. Postmoderni consapevoli e fragilissimi
rigettiamo ogni alibi ideologico. Il nostro massimo difetto è non
essere capaci di esprimere slanci lirici, autentiche compassioni
scaturite dalla volontà di preservare la bellezza residuale del mondo …
di questo mondo.
Distanti dal misticismo pur essendo intimamente accresciuti da una
lieve tensione per il trascendente, ricerchiamo il contatto appena
impercettibile con un lembo di quella sapienza primordiale
che, attraverso ogni suo atto, la società meccanizzata cospira a
reprimere. Come già fu considerato dai migliori: la finalità ultima del
cosiddetto “progresso” è la repressione nell’uomo della
sua innata essenza devota.
Stare al “gioco moderno”, significa dichiararsi intimamente spenti ma esteriormente smaniosi di fruire della novità,
dello “sviluppo”, che in definitiva costituiscono l’alibi
ideologico attraverso il quale l’attuale forma di potere intende
cristallizzare – plastificandola – la condizione del tempo presente;
come annotò Elémire Zolla: “… poiché questo sarebbe uno dei
ricatti della mentalità tecnocratica che vive del nuovo nella misura
in cui non concepisce di poter dar spazio a qualcosa di diverso da se
stessa”. Alibi e ricatti sono stati adoperati
negli ultimi duecento anni per avvelenare gli equilibri di una realtà fondamentalmente sana.
Piccoli uomini, non dobbiamo tremare di fronte ai prodigi
dell’inganno, siano essi “veterotestamentari” che “avveniristici”. Il
piccolo uomo è fondamentalmente impotente, e tale deve
“felicemente” rimanere.
In realtà è solo attraverso l’impotenza – incoerenza virtuosa – che
possiamo tradurre in realtà il compassionevole nucleo della nostra
rilevante radianza. Non a caso, tutte le dottrine new age
diffondono il pensiero del “potere personale”, del “tutto è
realizzabile”. Questo è un falso mito atto a disperdere la preziosa
volontà dell’animo inquieto.
Il piccolo uomo non è se non come frammento. Attraverso la negazione
post-moderna e post-nichilista, attraverso la negazione di ogni arido
concettualismo noi rivendichiamo l’esser nostro patetici
e ingenui. Attraverso un aspirazione legittimamente primordiale e
assieme mozartiana, dolorosamente coltraniana, risiederebbe l’unica
nostra possibilità di realizzare ciò che l’orfico Dino
Campana un giorno definì come La Grande Salute: un aspirazione alla sopravvivenza dell’istinto nel sopraggiunto dominio del preconfezionato
– sebbene lui morì in manicomio intuì
il vero del vero – perché noi uomini nuovi – come scrisse – siamo
senza nome (senza sostanziale identità anche se presenti nelle
statistiche dei moduli 730) siamo difficilmente comprensibili –
rimaniamo sconosciuti a noi stessi – NOI, ritardati figli precoci di
un avvenire ancora non verificato – ma astrusamente pianificato – per
poter vivere nell’irraggiamento della continua febbre
elettromagnetica abbiamo bisogno di determinare una “nuova” salute …
più scaltrita, più tenace, più gaia di quanto non sia stata fino a oggi
ogni salute … una vitalità che dobbiamo conquistare
nell’insignificanza e attraverso la mancanza stessa di forze. Siamo chiamati a giocare sì … ma ad un gioco tragico con tutto quanto fino ad oggi fu detto sacro, buono, intangibile,
divino.
autore: Giovanni Ranella - (‘grassetto’ ed immagine inseriti da:
freeskies)
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