Ecco. Ora va da sé che il confine tra storytelling e leggenda metropolitana è un po’ labile e viene ogni giorno superato. Molto spesso invece impatta con la realtà con la potenza di un frontale tra camion e allora si crea un effetto lisergico: da una parte lo storytelling, e dall’altra quello che succede veramente. Ora si può scegliere, naturalmente: abbeverarsi alla leggenda, che si ripete nella speranza che qualcuno la prenda per vera, oppure guardare ai fatti.
Immaginiamo, per esempio, un medio imprenditore tedesco, o cinese,
che voglia investire qui. Potrà valutare lo storytelling corrente e ben
oliato dai media – ottimismo, ripresa, riforme, Jobs Act, camice bianche, ministri da copertina, modernità, parole inglesi – oppure valutare lo stato delle cose: leggi complicatissime, giustizia
lenta, corruzione, malavita, er Guercio, il mondo di mezzo e altro
ancora. Potrà leggere i discorsi “luminosi e progressivi”, oppure i
titoli delle inchieste in corso. I recenti fatti di cronaca, per
esempio, rendono l’attuale storytelling governativo, tutto incentrato
sul futuro,
un po’ fuori luogo. Bella storia, insomma, ma smentita ogni giorno. Si è
provato, è vero, all’inizio e per un annetto a ridicolizzare che si
opponeva al racconto sorridente, ottimista e positivo (“gufi”, è già
parola soprassata, sepolta), ma poi le smentite della realtà si sono
fatte implacabili, e quel racconto, quello storytelling, oggi non sfonda
più, non conquista.
Non perché gli manchino elementi di fascino: a chi non piacerebbe essere moderni, carini, sexy, glamour, con un’economia
frizzante e un governo di ragazzini ben pettinati? Piuttosto perde
credibilità perché fornisce immagini troppo distanti dalla realtà che si
vive ogni giorno. In certi casi, insomma, anche se è inglese e fa fico,
costruire un elaborato racconto – una narrazione – troppo lontano da
quel che accade può trasformarsi in autogol.Un caso di scuola è l’uso del concetto di “futuro” per la nuova classe dirigente renzista. Lasciamo da parte gli slogan facili e leopoldeschi e prendiamo invece il succo: faremo, saremo – o meglio torneremo ad essere – svilupperemo, cresceremo, attireremo capitali stranieri, eccetera eccetera.
Lo storytelling è positivo e ottimista e si lascia intendere che domani andrà tutto molto meglio. Intanto, non domani ma oggi, uno non riesce ad avere un appalto perché non conosce nazisti dell’Illinois, o di Roma, oppure viene licenziato, oppure viene demansionato, oppure ascolta la solfa dell’abbassamento delle tasse più poderoso dai tempi di Ramsete II e si trova a pagarne di più. Ecco, allarme: lo storytelling renziano è molto distante dalla realtà. Futuro è un concetto luminoso ma distante, mentre qui e ora di luminoso c’è pochino.
E siccome sanno tutti che per avere un buon futuro si parte da oggi e non da domani, la storia scricchiola, stona, suona falsa, e può diventare irritante. Si richiede un veloce ridisegno dello storytelling, una cosa che in italiano potrebbe suonare così: «Su, ragazzi, raccontatecene un’altra, che questa non ha funzionato».
(Alessandro Robecchi, “Racconto un sacco di balle, ma se lo chiamo storytelling…”, da “Micromega” del 10 dicembre 2014).
fonte:http://www.libreidee.org/2014/12/racconto-un-sacco-di-balle-ma-se-lo-chiamo-storytelling/

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