Dicesi storytelling un complesso sistema di pubblicazioni, notizie,
modi di comunicarle, stili innovativi, segnali mediatici, ripetizioni
ossessive perché il concetto entri anche nelle teste più dure, nuovi
approcci, citazioni. Insomma un po’ tutto quello che una volta si
chiamava “comunicazione” e ora fa più fico dirlo in inglese. «L’arte del
raccontare storie impiegata come strategia di comunicazione
persuasiva», dice il vocabolario.
Ecco. Ora va da sé che il confine tra
storytelling e leggenda metropolitana è un po’ labile e viene ogni
giorno superato. Molto spesso invece impatta con la realtà con la
potenza di un frontale tra camion e allora si crea un effetto lisergico:
da una parte lo storytelling, e dall’altra quello che succede
veramente. Ora si può scegliere, naturalmente: abbeverarsi alla
leggenda, che si ripete nella speranza che qualcuno la prenda per vera,
oppure guardare ai fatti.
Immaginiamo, per esempio, un medio imprenditore tedesco, o cinese,
che voglia investire qui. Potrà valutare lo storytelling corrente e ben
oliato dai media – ottimismo, ripresa, riforme, Jobs Act, camice bianche, ministri da copertina, modernità, parole inglesi – oppure valutare lo stato delle cose: leggi complicatissime, giustizia
lenta, corruzione, malavita, er Guercio, il mondo di mezzo e altro
ancora. Potrà leggere i discorsi “luminosi e progressivi”, oppure i
titoli delle inchieste in corso. I recenti fatti di cronaca, per
esempio, rendono l’attuale storytelling governativo, tutto incentrato
sul futuro,
un po’ fuori luogo. Bella storia, insomma, ma smentita ogni giorno. Si è
provato, è vero, all’inizio e per un annetto a ridicolizzare che si
opponeva al racconto sorridente, ottimista e positivo (“gufi”, è già
parola soprassata, sepolta), ma poi le smentite della realtà si sono
fatte implacabili, e quel racconto, quello storytelling, oggi non sfonda
più, non conquista.
Non perché gli manchino elementi di fascino: a chi non piacerebbe essere moderni, carini, sexy, glamour, con un’economia
frizzante e un governo di ragazzini ben pettinati? Piuttosto perde
credibilità perché fornisce immagini troppo distanti dalla realtà che si
vive ogni giorno. In certi casi, insomma, anche se è inglese e fa fico,
costruire un elaborato racconto – una narrazione – troppo lontano da
quel che accade può trasformarsi in autogol.
Un caso di scuola è l’uso
del concetto di “futuro” per
la nuova classe dirigente renzista. Lasciamo da parte gli slogan facili
e leopoldeschi e prendiamo invece il succo: faremo, saremo – o meglio
torneremo ad essere – svilupperemo, cresceremo, attireremo capitali
stranieri, eccetera eccetera.
Lo storytelling è positivo e ottimista e si lascia intendere che
domani andrà tutto molto meglio. Intanto, non domani ma oggi, uno non
riesce ad avere un appalto perché non conosce nazisti dell’Illinois, o
di Roma, oppure viene licenziato, oppure viene demansionato, oppure
ascolta la solfa dell’abbassamento delle tasse
più poderoso dai tempi di Ramsete II e si trova a pagarne di più. Ecco,
allarme: lo storytelling renziano è molto distante dalla realtà. Futuro è un concetto luminoso ma distante, mentre qui e ora di luminoso c’è pochino.
E siccome sanno tutti che per avere un buon futuro
si parte da oggi e non da domani, la storia scricchiola, stona, suona
falsa, e può diventare irritante. Si richiede un veloce ridisegno dello
storytelling, una cosa che in italiano potrebbe suonare così: «Su,
ragazzi, raccontatecene un’altra, che questa non ha funzionato».
(Alessandro Robecchi, “Racconto un sacco di balle, ma se lo chiamo storytelling…”, da “Micromega” del 10 dicembre 2014).
fonte:http://www.libreidee.org/2014/12/racconto-un-sacco-di-balle-ma-se-lo-chiamo-storytelling/
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