Lo stato di dissoluzione della Ue è
sotto gli occhi di tutti: nessuno finge più di crederci e le stucchevoli
riunioni che si succedono sono stanche liturgie, passerelle dove ogni
membro recita una parte a beneficio degli egoismi del proprio
elettorato. Neppure la Germania, che fino a un anno fa era capace di
mettere in riga tutti col suo potere, riesce più a governarla e si
ritrova fra le mani un’assemblea rissosa di tutti contro tutti, dove gli
Stati s’associano o si dividono in funzione d’interessi immediati.
Non c’è da stupirsi, la Ue non ha un
progetto, è solo figlia delle convenienze e se il benessere passato
poteva celare le sue spaventose carenze, i lunghi anni di una crisi
senza fine, di decisioni politiche e di gestione dell’economia suicide,
imposte da Washington e da Berlino, l’hanno condotta sfiancata dinanzi a
problemi veri e, cozzando su quegli scogli, i falsi valori su cui
basava una coesione bugiarda si sono dissolti mostrandola per quella che
è: un ectoplasma privo di sostanza.
In questa situazione, anche la sua
finzione amministrativa, fatta di regole astruse e di burocrati, è
condannata a dissolversi in breve travolta dall’incalzare di un mondo
che s’è messo a correre e che chiede risposte immediate. Al di là delle
semplificazioni che non servono, tutt’altro, comprendere il perché d’un
simile fallimento serve a indicare la via che dovrebbe intraprendere
questo Continente da tempo autoreferenziale ed avviato all’irrilevanza.
In realtà, la strada presa con i
trattati di Roma, nel ’57, non era questa, tutt’altro; allora, una
classe dirigente europea con cui avremmo cento e più motivi di dissenso,
ma di levatura infinitamente superiore ai miserabili guitti di adesso,
ebbe l’intuizione di un processo aggregativo fra Popoli, culture ed
economie, che rendesse un Continente che si risollevava da una crisi
immane un vero soggetto politico oltre che economico. Allora si comprese
che la semplice aggregazione economica e commerciale, anche se
necessaria, non poteva bastare a governarlo, per il semplice fatto che
solo la politica gli avrebbe dato un’anima e gli avrebbe consentito di
agire.
Allora si era nel pieno della Guerra
Fredda, e l’Europa di cui parliamo era quella occidentale e neanche
tutta; un pugno di Paesi, ma con culture, economie e storie affini e che
per questo potevano ambire a fare una forza delle diversità.
Allora c’era la Nato e pure la
sudditanza a Washington, ma pur col Patto di Varsavia agitato come
continua minaccia erano diversi i premier che rivendicavano una certa
autonomia, e l’aggregazione europea era vista da molti come lo strumento
per dare peso a un Continente frammentato.
Il dibattito politico sul futuro
dell’Europa si stava orientando verso il naturale sbocco di un
federalismo, quando su di esso s’abbatté improvviso il cataclisma
geopolitico del crollo del muro di Berlino e la successiva implosione
dell’Urss. Tutto cambiò proprio al momento della decisione dei suoi
destini, e ciò che più d’ogni altro lasciò il segno fu la repentina
riunificazione della Germania.
In Europa nessuno voleva una Germania
unita, temendone il potere, ma il Cancelliere Kohl, manovrando con
tempestiva abilità, seppe cogliere un’opportunità unica per il suo Paese
e nell’ottobre del ’90 giunse a riunificarlo. Quel fatto, con la paura
del peso che Berlino avrebbe avuto in un soggetto politico federale,
fece deragliare il processo di unione del Continente.
Fu una decisione miope, dettata
dall’emotività e da calcoli errati, ma i decisori europei optarono per
un’Unione essenzialmente economica e commerciale, lasciando la sfera
politica in mano ai Governi, e pensando che, diluita in una moneta
unica, la forza economica della Germania sarebbe stata innocua.
Nel corso di pochi anni fu ribaltato un
percorso di decenni, da Maastricht in poi di Unione politica e di
federalismo non si parlò più, e la stessa Difesa comune fu ridotta a uno
slogan vuoto dalla furiosa opposizione dell’Inghilterra, e dalle
fortissime pressioni Usa che vedevano insidiato il ruolo della Nato.
C’è stata nei fatti una sorta di
spartizione di ruoli; alla Germania, conseguita la riunificazione e col
tempo priva di personalità politiche di rilievo, importava solo della
propria economia, importava usare quelle Istituzioni per il proprio
tornaconto: ha usato la Ue scaricandole addosso i colossali squilibri di
un sistema sbilanciato sulle esportazioni, ed ha lasciato la politica
ad altri. Cioè a Washington. E in questa deriva mercantile,
l’Inghilterra ha strappato il privilegio (che ora intende incrementare a
dismisura) di stare alla finestra, mettendo la finanza della City
all’interno di un mercato enorme ma senza averne le limitazioni.
Gli Usa, dal canto loro, hanno mantenuto
la Nato, un’alleanza difensiva verso un nemico che non esisteva più,
accettata senza fiatare come l’organismo di “difesa” dell’Europa; nei
fatti lo strumento operativo dell’assoggettamento di un Continente che
per miopia e grettezza aveva rifiutato la propria sovranità.
Questa mancanza di politica ha
determinato un vuoto che ha fatto sorgere una casta di superburocrati,
perfettamente funzionali sia ai disegni tedeschi, che attraverso essi
controllavano le istituzioni, che a quelli di Washington, che hanno
visto in quei tecnocrati pedine ideali da manovrare a piacimento per i
propri fini.
In questo quadro, che prescinde da
motivazioni politiche proprie, ma se le fa imporre dall’esterno; che
ignora assonanze culturali o storiche in nome delle esclusive ragioni
dell’economia; con la piena comunanza d’interessi fra Washington e
Berlino che così ampliavano le proprie sfere d’influenza, la Ue s’è
lanciata in una corsa verso Est, fino a giungere ai confini stessi della
Russia, e la Nato con essa. Un’espansione dissennata, che ha
affastellato Paesi diversissimi ed ha reso impossibile qualunque
aggregazione politica.
Una costruzione artificiosa su cui ha
impattato la tempesta finanziaria e poi economica iniziata nel 2008,
alla quale la Germania ha reagito imponendo ricette funzionali ai propri
interessi, ma al prezzo di logorare Istituzioni viste sempre più
estranee e nemiche dai cittadini di tanti Stati.
A quella crisi mai superata, perché
necessitava di risposte politiche mai date, se ne sono aggiunte presto
altre che politiche lo erano intimamente: l’Ucraina, col suo strascico
dei rapporti con la Russia; la destabilizzazione del Medio Oriente e del
Sud del Mediterraneo; l’emergenza dei migranti che ne consegue. Dinanzi
ad esse, la Ue ha mostrato il suo vero volto andando in pezzi. Di più:
ha mostrato non solo la mancanza di una politica propria, ma tutta la
sudditanza verso Washington che le ha imposto di volta in volta
politiche schiacciate sugli interessi propri, anche quando erano opposti
a quelli dell’Europa.
Così ha obbedito supinamente anche a
costo di perderci, e tanto, come nel caso della contrapposizione con la
Russia e delle sanzioni suicide; o non ha agito, come nel caso delle
crisi mediorientali, condannandosi all’irrilevanza; o ha agito in ordine
sparso a seconda dell’utile immediato dei vari Stati, come nel caso
della Libia; o si è letteralmente frantumata fra gli interessi
contrapposti dei vari Paesi, come nel caso dei migranti.
È uno sfacelo; Berlino, che fino a
qualche tempo fa ha pilotato a piacimento le Istituzioni di Bruxelles
secondo i propri fini, assiste attonita al loro sbriciolarsi; non riesce
a comprendere che le sfide attuali non possono essere affrontate con i
Regolamenti, ma solo con quella politica che per decenni ha ignorato
concentrata com’era sul denaro, abbandonando i temi “pesanti” a
Washington.
Dinanzi al fallimento dell’Unione quale è
ora modellata, e per scrollarsi di dosso regole stringenti (quelle
dettate dalla convenienza tedesca insieme alle altre della convivenza
comune nella Ue), s’affaccia in molti la tentazione della via inglese:
un’Europa che sia solo un colossale mercato, un libero terreno di caccia
per multinazionali e Istituzioni finanziarie globali sotto l’egida Usa
del Ttip. La fine insomma anche della finzione che esista un Continente
come soggetto autonomo, ed il trionfo del liberismo più sfacciato che
distrugga quanto resta di Popoli e Nazioni. Storia e Culture millenarie
ridotti a orpelli, al massimo spot per quel turismo di massa che nulla
comprende e tutto omologa.
È questo il necessario epilogo dell’Europa?
Eppure si potrebbe ricominciare dalla
fine degli anni ’80, quando egoismo e grettezza fecero deragliare un
processo federalista, imperfetto e criticabile, certo, ma infinitamente
migliore del mostro generato dalle pressioni Usa da un canto e dalle
manovre di Berlino.
Un nucleo di Stati, anzi, di Popoli
prima di tutto, e di Culture affini da cui ricominciare; attorno gli
altri Stati che volessero avvicinarsi, ma condividendo, prima d’ogni
cosa, un progetto politico dettato da valori comuni e non dettato
dall’esterno. In fondo era questa l’idea che si faceva strada allora,
prima d’essere spazzata via da miopi convenienze.
E i poli attorno a cui riedificare
questa costruzione sarebbero due: uno del Nord e uno mediterraneo,
coerenti alle diverse vocazioni e proiettati su sfere d’influenza
diverse ma sinergiche: l’area mediterranea e quella eurasiatica verso la
Russia e oltre.
Un’utopia? Purtroppo potrebbe esserlo,
troppi e troppo forti sono gli interessi che spadroneggiano sul
Continente, e troppo lacerate le Nazioni che ormai stentano ad esprimere
valori propri (semmai ne hanno conservati), insteriliti da vuote
proteste dettate dal disagio e dalla paura.
Ma è una via da esplorare comunque, quella presente è solo sudditanza e sfacelo.
Salvo Ardizzone
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