Nella scena finale del primo dei tre film nella trilogia “Matrix” girato nel 1999, il protagonista Neo, collegato a un’interfaccia neurale, ingaggia la battaglia finale con Matrix.
Matrix è un programma che inganna gli
uomini per tenerli continuamente in stato di sonno, in questo modo i
loro corpi possono essere usati come inesauribile fonte di energia per
le macchine che hanno preso il controllo della terra.
Lo strumento d’inganno di Matrix è il
sogno, in altre parole l’impossibilità per l’uomo, durante lo stato di
sonno e quindi nel sogno, di distinguere la realtà dalla fantasia creata
da Matrix.
Indipendentemente dalla fantasia e dal
successo della pellicola, è indubbio che lo scopo del regista é quello
di stimolare continuamente un cambio di prospettiva nel modo di guardare
il mondo reale, utilizzando lo strumento della fantasia
cinematografica.
Questo cambio di prospettiva è chiaro
proprio nella scena finale nella quale Neo, dopo essere sfuggito a mille
trappole, cade nell’ultima e viene ucciso.
E’ a questo punto che il regista ci
propone la domanda chiave: ma se Matrix è un’illusione perché Neo
dovrebbe morire anche nella vita reale?
Nel film il cuore di Neo si ferma
davvero, ma a quel punto si comprende che la morte reale è solo la
conseguenza, non necessaria, della morte virtuale in Matrix; essa è
niente più che una delle regole di Matrix che può, come tutte quelle
precedenti già aggirate da Neo, essere a sua volta violata: ma come?
L’abitudine di Neo e l’esercizio alla
concentrazione e meditazione per separare i segnali di Matrix, (che
asservivano la sua volontà attraverso la paura) da quelli della sua
coscienza, gli permette di vedere l’intima sequenza dei “percorsi”
elaborativi di Matrix e, quindi, di prevedere le mosse che Matrix
avrebbe compiuto con una tale precisione da superare la sua velocità di
elaborazione e da anticipare i colpi degli agenti virtuali che lo
volevano uccidere.
Questa consapevolezza della virtualità
di Matrix, insieme alla capacità e all’esercizio, consente a Neo di
venire fuori dall’ultima simulazione e di violare i fondamenti logici
delle “regole del gioco”, attraversando e traguardando letteralmente le
proiezioni di Matrix e inducendo in Matrix un’ illogicità di fondo che
genera una reazione a catena in grado di bloccare la macchina.
In quel momento la morte reale causata
dalle regole di Matrix è vinta e, al contempo, è temporaneamente
sconfitta Matrix, bloccata in un loop di conflitti logici.
Al contempo il loop nel mondo virtuale
provoca un blocco delle macchine reali che stanno assaltando la
Nabucodonosor su cui Neo stesso si trova.
In altre parole, se la morte di Neo è
solo una regola di Matrix ed è virtuale, la vittoria di Neo contro
Matrix è un fatto reale con coseguenze reali.
La promessa di Neo agli umani, e quindi
anche agli spettatori, negli ultimi fotogrammi, è che da quel momento
avrebbe fatto in modo di rivelare al mondo l’inganno.
La finzione cinematografica genera,
comunque, un dubbio nello spettatore: e se non fosse solo un film?
Per
quanto assurdo possa apparire, questa è tutt'altro che una domanda
“folle”.
Nei tre precedenti articoli dedicati a
quello che ho chiamato “Modello Neurale” della gravità quantistica o se
volete del vuoto, ho mostrato la possibilità che il vuoto sia una
struttura governata nelle sue più intime dinamiche dalle medesime regole
che governano i neuroni del nostro cervello, e che entrambi sono
rappresentabili con un preciso modello matematico, il modello di
Hopfield.
Questa possibilità è già allo studio della fisica, e non solo di quella teorica.
Negli ultimi 5 anni si è avuta una forte
accelerazione della ricerca in questo senso, con il susseguirsi di
esperiementi di laboratorio e di teorie della gravità quantistica che,
tutte insieme, convergono verso quella che viene chiamata “natura
emergente” del vuoto, ovvero una intrinseca capacità di elaborare
informazioni e di evolvere generando fenomeni reali e, quindi, tutta la
materia che vediamo intorno a noi.
Molte delle presunte “verità” della
fisica classica, insieme alle interpretazioni della fisica quantistica
hanno finito per superare il dogma della casualità, e per convergere
verso l’esistenza di un substrato finalistico legato alla natura del
vuoto e dei fenomeni connessi alla gravità.
Da queste ricerche emerge che questo
substrato, senza violare le leggi stocastiche della quantistica, si move
e fa muovere gli strani fenomeni che governano il mondo
submicroscopico. Le sperimentazioni recentemente condotte, hanno ridato
vigore a interpretazioni di questo tipo, come, ad esempio, quella di
Bohm.
In
essa si prevede qualcosa di assai simile alle “variabili nascoste”
ipotizzate da Einstein, in altre parole sostiene che esiste un
meccanismo di “governo” e legami non ancora indagati, dietro l’apparente
casualità dei fenomeni quantistici.
Tra tutte le teorie proposte quella
connessa alla possibile di una natura fluidica, o meglio supergfluidica e
polare del vuoto e quindi alla conseguente possibilità di usare un
modello fondamentalmente neurale come quello di Hopfield per
descriverla, è di certo quella più intrigante e dalle conseguenze più
straordinarie.
Un vuoto neurale che pervade tutto è, in
sostanza, la stessa tesi che nel 1999 era prospettata nel film. Del
resto, tra le righe della nararzione, emerge evidente che Matrix non può
che essere una simulazione neurale che segue le stesse regole del
cervello umano; senza questa premessa che viene suggerita ma non
dichiarata allo spettatore, sarebbe impossibile un dialogo tra la
macchina ed i neuroni dei protagonisti.
Se, quindi, torniamo a noi e al modello
neurale della gravità quantistica, o del vuoto, ciò che manca è qualcosa
di simile alla interfaccia di collegamento che nel film Matrix appare
rappresentata da un tubo con un lungo ago applicato nella parte
posteriore della testa.
L’ago penetra nel cranio e arriva fino
alla zona limbica ove risiedono le parti più antiche della mente umana e
dove dimorano istinti e con essi paure ed emozioni.
Anche quest’aspetto non é sottolineato nel film, ma è suggerito a un occhio appena più attento ed esperto.
Dov’è, quindi, questa interfaccia che collega il vuoto neurale al nostro cervello?
Come abbiamo già ampiamente illustrato nel precedente articolo dal titolo “L’Immortalità dell’Anima e le recenti scoperte sul vuoto superfluido”, Roger Penrose e Stewart Hameroff hanno elaborato un modello per spiegare la coscienza e la mente, denominato ORCH-OR.
Esso individua nel meccanismo quantico
dell’effetto tunnel nella tubulina di cui sono composti i collegamenti
tra neuroni, il fenomeno che consente l’interazione tra cervello e la
gravità quantistica, e quindi nel nostro caso, il dialogo con il “vuoto
neurale”.
La cosa straordinaria di questo modello
è, però, che i fenomeni quantistici negli organismi viventi, oltre che
essere un veicolo per il trasferimento d’informazioni da e per il vuoto,
si manifestano in maniera “orchestrata” (da qui il nome della teoria), a
temperature e con dimensioni macroscopiche ben al di là delle
previsioni della quantistica.
Abbiamo, quindi, tutti gli ingredienti
previsti nel film e, di conseguenza, le domande paradossali che in
Matrix il regista pone allo spettatore non sono più il frutto solo di
una fervida fantasia ma assumono una dimensione reale, seppure ancora
non completamente dimostrata sperimentalmente.
Con questo voglio suggerire che siamo in
preda a pericoli analoghi a quelli del film? Ovviamente no, e sarebbe
non solo inutile ipotizzarlo ma paralizzante e deprimente.
Cerchiamo, invece, di attenerci ai fatti, seppure ancora non dimostrati pienamente dalla scienza.
Il primo quesito da porci è se il
meccanismo dell’“abitudine” che nel film tiene paralizzati gli uomini
vincolati al loro sogno eterno, non abbia, per caso, una radice proprio
nell’algoritmo essenziale che governa la nostra mente e, di coseguenza,
anche il vuoto neurale.
Il fenomeno della pervasività delle
convinzioni che limitano la nostra azione e delle abitudini che
tracciano la maggior parte dei momenti della nostra vita, conduce già da
solo, a una risposta affermativa.
In realtà lo stesso modello di Hopfield e
le sperimentazioni al computer su algoritmi di simulazione di reti
neurali che adottano questo principio, mostra che il meccanismo delle
“convinzioni limitanti” è intrinseco alla matematica stessa di una rete
di Hopfield.
Lo abbiamo già descritto nel precedente lavoro e ci torniamo, quindi, brevemente.
Perché una rete di Hopfield possa
apprenedere e “mantenere” le informazioni che ha appreso, ha necessità
di una specie di “inerzia” che conserva e rafforza un concetto che si
dimostra essere valido nel corso delle esperienze. Questo rafforzamento
produce una sorta di “saturazione” della rete che le impedisce di
rimettere in discussione quanto già appreso, se il singolo concetto è
stato confermato più e più volte in passato.
Si produce, così, una situazione
talmente “consolidata” e convinzioni talmente forti che la rete è
congelata in queste convinzioni ed è quasi impossibile tirarla fuori da
questo loop.
Ho, però, detto <<quasi>>.
Esistono, infatti, due modi per tirar
fuori una rete neurale dalle sue convinzioni, passando o per una
drastica e drammatica crisi che mette in dubbio tutte le convinzioni e
che costringe la rete a ripartire da zero, oppure attraverso un
approccio più morbido fatto di una serie mirata di informazioni che
scardinano alla radice le convinzioni della rete.
Nella vita reale ciascuno di noi ha
sperimentato quanto possano essere dolorose le conseguenze di rilevanti
cambi di vita dovuti a esperienze che ci costringono, senza possibilità
di fuga, a cambiare le nostre abitudini drasticamente.
Chi ha sperimentato queste situazioni di
vita sa quanto, alla lunga, possano far bene ala nostra mente e
abituarla a rimanere più aperta e a non dare per scontate cose che tali
non sono.
Non serve, per fortuna, augurarsi una
disgrazia per cambiare modo di pensare ed aprire la mente, è sufficiente
adottare una metodica tratta dalla Programmazione Neuro Linguistica e
dal mondo della psicologia: la “rottura di schema”.
La nostra mente, come ebbe a dimostrare
Pribram è intrinsecamente olografica, in pratica non c’è convinzione o
pensiero che non sia intimamente legato a frammenti di tutte le altre
esperienze della nostra vita, al punto tale che diviene inseparabile da
esse.
Questa caratteristica, come abbiamo anche esposto nel nostro testo “La Fisica di Dio”,
è intimamente legata al modello di rappresentazione delle informazioni e
delle idee di una rete neurale di Hopfield che usa il medesimo
meccanismo (per i più avvezzi alla matematica sto parlando del principio
della trasformazione di Fourier) con il quale sono realizzate le lastre
olografiche.
Tale meccanismo, puramente matematico,
fa si che la conoscenza venga rappresentata come somma di parti
elementari ordinate per importanza. Di conseguenza le esperienze sono,
ciascuna, un percorso costituito da una sequenza di queste parti
elementari, le stesse che si trovano in tutte le altre esperienze.
Questo modello di rappresentazione della
conoscenza consente un confronto rapido per similitudine tra le
esperienze ed è alla base dei nostri processi cognitivi.
La condizione particolarissima e
ottimale con cui le informazioni e le idee sono mappate senza
distinzione in un’unica struttura di reti di concetti elementari, ci fa
capire che una crisi seria in un singolo concetto, che sia cardine su
cui poggiano altri, si ripercuote a catena, non solo sulle idee più
prossime al concetto rivelatosi falso, ma in tutto il modo di pensare e
addirittura di vivere della persona.
Ecco, quindi, che imporsi di cambiare
negozio dove fare la spesa, o di cambiare l’orario nel quale si fa
quella determinata attività, o non fare qualcosa, che si è soliti fare
in quel preciso modo, induce una “rottura di schema” che si ripercuote, a
catena, su tutto il nostro modo di essere e di vivere, seppure il gesto
che abbiamo compiuto appare banale e del tutto scollegato dalle nostre
altre abitudini e convinzioni.
Perché, però, la “rottura di schema”
abbia un effetto permanente e induca una vera e propria trasformazione
delle connessioni neurali e del modo stesso di affrontare i problemi e
la vita, occorrono quattro condizioni:
- Che la rottura di schema sia, innanzitutto, un atto intenzionale e volontario.
- Che riguardi più aspetti della nostra vita e in particolare quelli che meno tendiamo a mettere in discussione.
- Che comporti un’apertura e disponibilità a indagare e riflettere sui cambiamenti che quel gesto o quell’abitudine ha comportato
- Che non sia un fatto sporadico, ma divenga un esercizio continuo e, alla fine, l’unica abitudine positiva che possiamo prendere: rimanere aperti e ricettivi, e pronti a rimetterci in discussione.
Questo lavoro sul “Modo di pensare” è,
però, solo l’inizio di una trasformazione che cambia il nostro modo di
vivere. In fondo è ciò che fa Neo in Matrix nelle prime scene.
Il secondo aspetto su cui lavorare sono
le proprie paure poiché sono queste che ci rendono controllabili
socialmente. Ma come possiamo superare paure che provengono dalle parti
più profonde della psiche?
L’unico modo possibile è indagarle a
fondo e, soprattutto, scoprire quante volte le nostre paure si sono
trasformate in fatti reali e non sono, invece, rimaste solo inutili e
paralizzanti previsioni negative oppure anche quante volte siamo
riusciti a superare i momenti critici ben oltre le nostre negative
previsioni.
Il “vedere positivo” è un’altra ottima
abitudine che occorre prendere per evitare di rimanere paralizzati dalle
nostre previsioni negative e non vedere le soluzioni che l’abitudine a
“rompere gli schemi” ci prospetta.
Il terzo aspetto per questo processo di
liberazione intenzionale dai vincoli dell’abitudine è l’imprevedibilità
che si acquisisce con l’abitudine di trovare nuove soluzioni che ci
svincolano dai lacci nei quali chi vuole controllarci ci pone. Occorre
non trovarsi mai sulla linea del “mirino della pistola” che sta per
spararci addosso e, quando capita, usare la fantasia per trovare quella
improbabile ed impensabile scappatoia che sfugge a chi ci crede già
soggiogati. In questo modo, l’abitudine alla rottura di schema attiva un
istinto che ci consente di intuire il corso delle cose prima che
accadano.
In
altre parole l’abitudine alla “rottura di schema” stimola la nostra
capacità di osservazione e l’intuito, e ci consente di riconoscere gli
schemi altrui e prevedere intuitivamente e rapidamente le mosse prima
che gli altri le compiano, anticipandole con azioni “fuori dagli
schemi”.
Sempre operando il paragone con Neo in
Matrix è esattamente ciò che Neo fa quando anticipa le mosse degli
avversari, ma è ciò che non fa quando si fida ciecamente della guida
“esterna” che lo conduce nella trappola dell’ultima stanza dove verrà,
temporaneamente, ucciso.
A
questo punto i paragoni con la storia di Neo in Matrix vi avranno già
suggerito una domanda di questo tipo: “Neo riesce a bloccare i
proiettili! Vorresti dire che possiamo fare lo stesso?”.
Questo ci condurrebbe, inesorabilmente, al quarto punto rimasto in sospeso.
Purtroppo qualunque risposta io vi dia a
questa domanda confermerebbe solo una convinzione che già avete
prim’ancora che io vi risponda. Perciò, mi spiace, ma non risponderò.
Ciò
che posso dirvi é: ricavatela da soli da quanto vi ho detto e
applicando il metodo della “rottura di schema” e, poi, rispondete alla
stessa domanda che Morpheus pone a Neo in Matrix: “Pillola blu o pillola
rossa?”
Sabato Scala
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