L’argomento ‘scie chimiche’ rientra nella sfera dedicata
alla teologia, all’estetica, all’aspetto teoretico delle scienze umane. La loro
appartenenza all’elemento ‘aria’ ne accantona perentoriamente la sede propria
nelle pertinenze del sublime. La loro apparente lontananza dagli aspetti
pittoreschi del vivere comune, ne fa oggetto di scherno, ironia, derisione,
disinteresse, paura.
Le scie chimiche così si rivestono di quel senso sottile proprio
delle teofanie. Questa marcatura perentoria del cielo ricade in una zona
fisicamente interdetta agli uomini da tempi immemori. La coltre di silenzio che
le riveste appartiene alla liturgia ed al suo corollario del senso del sacro,
con tanto di sacerdoti, maggiordomi e sgherri.
La dimensione delle scie chimiche, risiede quindi in un
contesto apollineo decisamente minimale ed al contempo tetro ed oppressivo. La
luce filtrata dalle cappe chimiche ormai perenni satura l’atmosfera donandole
un sapore apocalittico, gelido, ferale.
Al di sotto, la vita vernacolare prosegue il suo cammino
verso un declivio lento ed imperioso.
Nelle catacombe, nei grandi santuari della romanità, al
riparo dalle spesse ed eterne mura divenute poi scudi per altre genti e
funzioni, le scie chimiche sono lontane. L’aria sospesa al loro interno appare
senza tempo ed i silenzi talmente profondi da stordire. Appena al di fuori, i
cipressi esangui ci ricordano della mattanza in corso, quella della vita,
vegetale ed animale. Le vetrate di sottile alabastro velano il tutto di caldo
silenzio.
Scie chimiche, nell’alveo del sublime e dell’apollineo (nella
loro accezione sterile e spietata) indicano con chiarezza il motivo per cui non
possono divenire argomento popolare. La lunga mano dei signori del pianeta
incombe e le scie chimiche sono solo un graffio sulla superficie della sfera, un sigillo
etereo che cala sopra tutti noi con una ineluttabilità propria del fato o,
meglio, del volere degli dei.
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