I Multiversi e la relatività del tempo potrebbero essere solo una “illusione” collegata al tessuto informativo discreto del vuoto.
L’idea che il “tempo” sia solo una
dimensione che si aggiunge a tre spaziali a noi note e che, di
conseguenza, non fluisca allo stesso modo ovunque nell’universo, é
stata, all’apparenza, una delle più grandi scoperte del 900.
(foto) Hendrik Antoon Lorentz Premio Nobel per la fisica 1902
(foto) Hendrik Antoon Lorentz Premio Nobel per la fisica 1902
Essa é matematicamente riassunta dalle
note trasformazioni di Lorentz che sono parte integrante della più
famosa teoria fisica di tutti i tempi: la Teoria della Relatività.
Le trasformazioni di Lorentz affermano,
in estrema sintesi, che un oggetto, lanciato a velocità prossime a
quella della luce si accorcia nella direzione del moto e, fatto ancora
più strano desunto dalla Teoria della Relatività, esso finisce per
vivere in un tempo che va più lento rispetto a quello di un osservatore
fermo rispetto al sistema di riferimento usato per la misura.
L’idea di Einstein, poi divenuta parte
integrante dell’estensione della teoria della relatività, è che queste
variazioni dello spazio e del tempo potessero essere collegate alla
struttura stessa del vuoto e a una sorta di tessuto, lo spazio-tempo,
che si deforma allungandosi o accorciandosi.
Questa deformazione contemporanea di
spazio e tempo prodotta, secondo la Relatività Generale, dalla presenza
di grandi masse, opera in modo che le unità di misura dello spazio e
del tempo si allunghino e si accorciano insieme mantenendo un rapporto
fisso e costante pari al valore della velocità della luce.
Grazie a questa deformazione
contemporanea, due osservatori che vivono in zone dell’Universo a
differente “densità” di spazio-tempo, non si renderebbero conto del
differente fluire del tempo tra di essi salvo quando provassero ad
incontrarsi dopo un preciso periodo di tempo e constatando che per essi
il tempo non è trascorso allo stesso modo.
In particolare ammettendo che si possa
sopravvivere ad una gravità enorme come quella di un buco nero,
l’osservatore esterno al buco, che guardasse quello che vive
all’interno, lo noterebbe pressochè immobile nel tempo.
Tutto straordinariamente bello se non
fosse che il presupposto di tutto ciò è il frutto di una premessa
illogica di natura illuministica, esposta nel mio precedente lavoro, ovvero la volontà di negare l’esistenza di una intelligenza nell’Universo.
Questa possibilità non è una posizione
meramente filosofica, ma ha riscontri oggettivi precisi che portano a
trascurare, negare e distorcere fatti sperimentali e modelli fisici.
Le azioni “intelligenti” e quindi
finalistiche che sono alla base di tutto ciò che un uomo opera su questa
terra, sono possibili perché esistono due piani su cui si sviluppa
l’azione umana: il piano del pensiero nel quale l’azione è solo
immaginata e virtuale, e il piano dell’azione, nel quale il pensiero si
manifesta in forma di fatti reali.
I due piani sono possibili perché il
nostro cervello è in grado di produrre una sorta di universo parallelo,
lo spazio del pensiero, in cui il tempo fluisce più velocemente rispetto
a quello reale della nostra vita.
In questo “tempo accelerato” e quindi
nel corrispondente “spazio-tempo del pensiero”, si può immaginare e
sperimentare mentalmente vari modi per raggiungere determinati fini ed
obiettivi e, quindi, provarne l’efficacia, prima ancora di aver
realizzato un qualunque piano di azione.
Senza i due tempi, il tempo del pensiero e quello della manifestazione, non ci potrebbe essere azione intelligente.
E’ davvero singolare che Einstein, che
elaborò la sua teoria proprio compiendo esperimenti mentali per arrivare
alla definizione di “relatività dello spazio e del tempo”, non si sia
mai posto il problema dello spazio e del tempo della mente.
Se Einstein si fosse, anche solo per un
attimo, posto tale dilemma avrebbe dovuto parallelamente chiedersi se
tutto ciò non avesse una qualche lontana attinenza con le trasformazioni
di Lorentz e la contrazione di lunghezze e tempo in esse prevista.
La domanda che avrebbe finito
necessariamente per porsi sarebbe stata di questo tipo: “Com’è possibile
che un uomo viva in uno spazio-tempo diverso da quello reale e che
viaggi con il pensiero più che nella realtà al punto di riuscire a
immaginare e realizzare mentalmente progetti ed azioni in un tempo
enormemente più veloce di quello che quelle azioni e quei progetti
richiederebbero nel mondo reale?”
Postosi questa domanda, ne sarebbe nata
un’altra ancora più rilevante:” Perché quando sogniamo, riusciamo a
vivere esperienze complete di vita tanto che ci sembra di vivere intere
giornate e più vite nello spazio di una sola notte”?
Se si fosse posto il problema, insomma,
di come funzionava lo strumento che stava utilizzando per elaborare i
suoi esperimenti, e avesse studiato lo “spazio-tempo” del pensiero,
avrebbe ottenuto una soluzione diretta e naturale al problema della
contrazione e dilatazione dello spazio-tempo previsto da Lorentz.
Proviamo, quindi, a porci noi queste
domande e fornire una risposta alternativa alla relatività e al modello
einsteniano dello spazio-tempo, basandoci sull’osservazione del
funzionamento dell’unico strumento che abbiamo per osservare il mondo e
dell’unico fenomeno possiamo conoscere e studiare senza intermediazioni:
la nostra mente.
La nostra capacità di percezione ha un
limite legato al fatto che tutto ciò che elabora il nostro cervello per
poter essere acquisito, ha bisogno di un tempo, seppur minimo: questo
tempo è pari a ad un venticinquesimo di secondo.
Il “miracolo” del cinema, scoperto alle soglie del secolo scorso, è basato proprio su questo limite.
Sappiamo, infatti, che se l’uomo non può
acquisire più di 25 immagini al secondo, proiettando immagini ad una
velocità superiore, ad esempio 50 o 60 al secondo (frequenza tipica di
monitor e televisori), le immagini fisse vengono collegate dal cervello
l’una dietro l’altra producendo il movimento apparente.
Questo limite determina anche alcuni noti paradossi.
Se guardiamo le pale di un motore di
aereo o di un elicottero, possiamo notare che, ad un certo punto, con
l’aumentare della velocità le pale sembrano all’improvviso iniziare a
rallentare seppure il motore aumenta il numero dei giri al secondo.
Il paradosso cresce al punto che dopo un
po’ avremo l’impressione netta che le pale, non si fermano per poi
iniziare a ruotare al contrario: lo stanno davvero facendo?
Ovviamente no, l’effetto è legato al limite di acquisizione visiva del nostro cervello..
Se le pale arrivano alla velocità di 25
giri al secondo o girano per multipli di questa velocità, non siamo più
in grado percepirne l’intero movimento, ma solo frazioni di esso e
queste frazioni riporterebbero le pale sempre nella stessa posizione
dopo un intero giro, dando l’impressione che non si muovano.
Qui sorge un’ulteriore quesito che
Einstein si pose ma, a nostro avviso, nel modo errato: “esiste un limite
al di sotto del quale nulla nel nostro universo può esistere?”.
La risposta l’aveva già fornita Planck ed è un “si”.
In realtà i limiti sono due: uno è
quello della più piccola lunghezza che può esistere nel nostro Universo,
la lunghezza di Planck, l’altro è il più piccolo istante di tempo che
può esistere in questo Universo, ovvero il tempo di Planck.
Il rapporto tra la lunghezza di Planck e
il tempo di Planck è, appunto, la massima velocità che si può
raggiungere in questo Universo: la velocità della luce.
Vi dice nulla questo?
Ad Einstein avrebbe dovuto dire tanto se
avesse per un solo attimo pensato ad un limite simile che esiste per
la nostra mente e quindi alla “macchina” che stava usando per le sue
deduzioni: il suo cervello.
In altre parole Einstein avrebbe dovuto
chiedersi se l’accorciamento di un corpo che viaggia a velocità prossime
a quella della luce nella direzione del moto, così come previsto dalle
trasformazioni di Lorentz, non fosse, per caso, l’effetto “apparente”
simile a quello che si verifica per il nostro cervello e connesso alla
più piccola quantità di informazione che il nostro Universo può essere
osservata e che esso può contenere.
In altre parole si sarebbe dovuto
chiedere se, nel nostro universo esiste un “limite” di rappresentazione
dell’informazione collegato a tutto ciò che esiste e legato ad una
struttura discreta e non continua del suo “spazio-tempo”.
La stessa esistenza della lunghezza di
Planck e di un “tempo di Planck” avrebbero dovuto suggerirgli la
possibilità che il suo “spazio-tempo” fosse una sorta di tessuto
costituito da parti non divisibili e che proprio questo limite poteva,
in qualche modo, essere connesso alla impossibilità, per un oggetto, di
raggiungere e superate la velocità della luce.
Continuando con questo esercizio di
fantastoria, Einstein si sarebbe immediatamente posto la successiva e
naturale domanda: “e se questo limite fosse solo apparente”?
Giunto a questo punto avrebbe potuto
condurre un esperimento mentale assai diverso da quello dei due gemelli e
simile a quello che suggerisco qui di seguito.
Immaginiamo Superman che cammina
nervosamente avanti e indietro a una velocità superiore a quella della
luce di notte, magari preoccupato perchè la sua amata non torna a casa;
immaginiamo, poi, noi come piccoli superman con la capacità di osservare
qualcosa che viaggia a quella velocità senza il limite umano delle 25
immagini al secondo, seduti di lato a lui che lo guardiamo aspettando
che si calmi.
Per complicarci la vita, immaginiamo di
avere con noi una bella lampada stroboscopica di quelle che si accendono
e spengono in discoteca e che danno l’impressione che a ballare siano
dei robot e non degli umani (anche se di “umano” spesso c’è ben poco in
alcuni di questi ambienti).
Usiamola, quindi, illuminandolo ma non
al ritmo di un tempo qualsiasi, tanto siamo piccoli superman, ma
accendendola e spegnendola al ritmo del tempo di Planck.
Quello che otterremo è che se Superman
viaggia proprio alla velocità della luce o a velocità esattamente doppia
o tripla (tanto ne è capacissimo per quanto è nervoso), lo vedremo
immobile nell’aria, sempre nello stesso punto; l’unica cosa che ci
potrebbe far sorgere il dubbio che non si sia calmato e pietrificato, è
la scomparsa del suo mantello sostituito da un alone rossastro.
Estendendo l’esperimento mentre Superman
diventa sempre più nervoso e comincia a superare la velocità della
luce, potremmo notare che, paradossalmente, sembra cominciare ad andare
lentamente all’indietro.
Se non ci ha ammazzati prima,
infastidito dalla nostra lampada e dalla preoccupazione che Lois Lane se
la stia spassando con Batman, avremo il tempo di chiederci: “Cos’è
successo? E’ il tempo che scorre all’indietro? Stiamo riavvolgendo il
nastro?”
Ovviamente no, tutto è legato al fatto
che non stiamo “illuminando” Superman con una lampada che non resta
sempre accesa ma fa luce in tempi discreti e a frequenza ben definita
seppure altissima: la frequenza di Planck.
Abbiamo, quindi, una possibilità
alternativa rispetto alla deduzione di Einstein: se mettiamo da parte
per un attimo la famosa equazione E=mc^2 che ci dice che un oggetto
lanciato alla velocità della luce, trasforma tutta la sua massa in
energia.
In pratica potrebbe non essere
impossibile, viaggiare superando la velocità della luce, ma facendolo
usciamo dallo spazio di rappresentazione di questo Universo finendo per
entrare ed uscire dalle “finestre di rappresentazione” dell’osservatore
fermo, fino al paradosso osservato con l’esperiemento dei neutrini
condotto dalla equipe del prof. Ereditato al CERN.
In
questo noto esperimento, un neutrino partito dal CERN e registrato
sotto il Gran Sasso, sembra essere arrivato prima ancora di essere
partito da Ginevra e aver viaggiato superando la velocità della luce,
peccato che Ereditato si sia rimangiata la scoperta con una “scusa” che
avrebbe dovuto lasciare tutti con qualche dubbio anche ai meno “svegli”,
su una possibile “forzatura” esterna in quella dichiarazione:
Ereditato
ha, infatti, dichiarato che c’era stato un errore dovuto al fatto che
per due anni un cavo non era stato collegato bene ed era rimasto in uno
stato che, parola di Ereditato, non era “né acceso né spento”.
Ma torniamo al nostro secondo iniziale quesito sul “tempo del sogno”.
L’unico modo per il quale il tempo nel
sonno può viaggiare più velocemente è che, per un qualche motivo, il
tempo di elaborazione dell’istante d’una “esperienza” onirica deve
essersi drasticamente ridotto.
Solo in questo modo, virtualmente, potremmo vivere le stesse esperienze che viviamo da svegli, in tempi assai più brevi.
Se supponiamo che il venticinquesimo di
secondo sia il tempo necessario perchè una singola informazione di un
singolo istante mentale (lungo 25 millisecondi) raggiunga tutti i
neuroni, vuol dire che nel sonno la coscienza, per così dire, si chiude
in una zona più piccola del cervello.
In questo modo, infatti, e come se, virtualmente, il nostro cervello si riducesse di dimensioni durante il sogno ed il sonno.
In queste condizioni i neuroni coinvolti
nei processi legati alla coscienza sono molti meno di quelli attivi in
stato di veglia e il tempo che impiega un’informazione a diffondersi in
tutto questo “frammento” del nostro cervello è drasticamente più basso:
di qui l’allungamento “virtuale” del tempo nel sonno.
Esiste, però, un problema. Se la
coscienza si ritira in una parte del cervello come fa a mantenere ancora
tutte le informazioni che servono per continuare a pensare, agire e a
ricordare?
Qui interviene il modello di
rappresentazione olografico della conoscenza che Karl Pribram ha
scoperto essere usato dal nostro cervello.
In estrema sintesi esiste un modello di
rappresentazione della conoscenza, proprio quello usato dai neuroni nel
nostro cervello, che distribuisce le informazioni in forma tale che,
ogni parte, per quanto piccola del nostro cervello, continua a contenere
tutta l’informazione di tutte le altre.
Quindi, se immaginiamo di dividere il
cervello in aree separate, ognuna di esse mantiene le stesse
informazioni e capacità di elaborazione del cervello prima della
frammentazione.
La “Magia” di questo fenomeno è proprio
nel meccanismo “olografico” che assicura che “il tutto stia in ogni
parte” e che ciò che ogni frammento perde quando viene separato dal
resto, sono le parti via via meno importanti della informazione stessa.
Questa “Perdita” d’informazione marginale aumenta con la riduzione delle
dimensioni del frammento e fa si che il “ricordo” delle esperienze
rimanga seppure sempre più ”sfocato”.
Il segreto di questo meccanismo in
apparenza “miracoloso” sta tutto nella capacità intrinseca del cervello
di dividere le cose complesse in somma di parti elementari semplici
opportunamente soppesate e mescolate.
In questo modo ciò che viene memorizzato
non sono le esperienze, ma quelle parti elementari che le compongono
tutte, seppure in misura diversa per ciascuna parte ed esperienza.
Volendo fare un paragone è come se un
cuoco, che desidera ricordarsi come si preparano i vari cibi, non
conservi in frigo ciascuno di essi, ma si limiti a tenere nella dispensa
tutti gli ingredienti insieme ad un taccuino, con le diverse ricette
del tipo e del peso degli ingredienti che vanno usati per ciascun
piatto.
Torniamo, quindi, a Einstein e alla Fisica.
Nel precedente articolo abbiamo
mostrato come i recenti sviluppi della Fisica stiano convergendo verso
la riscoperta dell’Etere ovvero nella visione del vuoto come un fluido
particolare a bassissima viscosità (superfluido), che si comporta e può
essere studiato con gli strumenti della fluidodinamica.
In buona sostanza stiamo sostituendo
lentamente, lo spazio-tempo al vuoto che non è più vuoto, come
ipotizzava Einstein, ma pieno di un fluido omnipervasivo.
Abbiamo anche mostrato come la natura
“polare” che alcuni studi hanno proposto per questo fluido, ne faccia
automaticamente una struttura di tipo “neurale” ovvero un sistema che
può essere studiato con la stessa matematica che usiamo per simulare i
neuroni del nostro cervello al computer: la matematica del modello
neurale di Hopfield.
Per inciso facciamo notare che il
modello di Hopfield è un modello intrinsecamente olografico e che gode
delle stesse proprietà di distribuzione della informazione in tutte le
parti del sistema che abbiamo commentato in precedenza.
In estrema sintesi la Fisica è, ormai,
ad un passo dalla dimostrazione che il Vuoto, che permea tutto e che da
vita a tutto ciò che esiste, è un “fluido” in grado di evolvere
immagazzinando ed elaborando le perturbazioni che esso stesso genera, in
altre parole il vuoto è una grande Mente che vive in un gigantesco
“sogno” che esso stesso genera, in cui le idee si manifestano e si
condensano nelle aggregazioni che chiamiamo “Materia”.
Possediamo, a questo punto, tutti i pezzi del puzzle, ora dobbiamo solo montarli insieme.
Le dimensioni extra, a partire dalla
quarta dimensione, non sono dimensioni reali ma dimensioni che si
sviluppano nel modello di rappresentazione della conoscenza che si
manifesta nella struttura e nella dinamica stessa del Vuoto.
Detto in modo più semplice, il vuoto,
cui sta pervenendo la fisica, “pensa” continuamente e mentre pensa
produce perturbazioni e cambia la sua stessa struttura interna proprio
come un cervello.
Mentre il vuoto “pensa” crea universi
paralleli virtuali, quelli dello spazio del pensiero del vuoto, che si
muovono in questa mente invisibile con realtà virtuali non manifestate
ancora.
Man mano che la struttura cambia, in
alcuni momenti il pensiero del vuoto si “condensa” generando vortici
elettro-magneto-gravitazionali che danno vita alla materia.
E’ questo “Moto intelligente” che genera
la continua apparizione e scomparsa di particelle virtuali e reali
previste dalla quantistica.
A questo punto il pensiero si sostanzia
in forma di materia nell’Universo ed, in questo modo, che entra nella
“finestra” e nei vincoli imposti dal modello di rappresentazione della
dinamica del vuoto stesso : i vincoli dello spazio e del tempo di
Planck.
La materia, per gravità, aggrega vuoto
attorno a se e, così facendo, aumenta anche la “densità” di informazione
che la “mente del vuoto” contiene in quella precisa zona dello spazio.
In questo modo il numero di quelli che
per semplicità chiamiamo “neuroni di vuoto” (intese come parti
elementari e non divisibili delle dimensioni della lunghezza di Planck),
aumentano attirati dalla trazione dello spazio e dalla necessità di
riempirlo interamente.
Si creano aggregati o se volete, aree con densità via via crescente, come il nostro sistema solare.
Il tempo di elaborazione di questi
aggregati varia localmente e dipende dalla massa che sta “ammassando” il
vuoto, nel caso in esame il Sole, oppure, nel caso di un buco nero,
una massa enorme e piccolissima che vi è al centro.
Il “tempo di elaborazione” locale si
modifica, seppure quello generale dell’Universo resta immutato e scorre
con costanza laddove non vi è massa.
Si vengono, quindi, a determinare
variazioni dello scorrere del tempo in dipendenza dalla massa della
stella al centro dei diversi sistemi galattici e planetari e dalla
distanza dei pianeti da questi centri di rotazione.
Sono variazioni, nel complesso,
trascurabili con masse come quella del nostro sole e non inficiano
l’esistenza di un tempo assoluto Universale, il tempo di elaborazione
complessivo dell’Universo nell’ipotesi di assenza completa di massa: il
tempo di Planck.
In altre parole il tempo di Planck è
pari al solo tempo necessario perchè tutto l’Universo elabori un
segnale: questa è la “finestra informativa” minima che cercavamo.
E allora dove sono gli Universi paralleli, gli spazi multidimensionali e le fantasticherie previste dalle moderne teorie?
Sono tutte nella “mente del vuoto” e
costituiscono lo spazio del pensiero di questo motore intelligente che
governa tutto, che apprende ed evolve come una grande creatura e che, di
tanto in tanto, condensa e manifesta queste “realtà virtuali parallele”
in realtà effettive e in materia.
Ovviamente questo modello ha creato la
nostra mente, semplicemente replicandosi in una forma biologica simile:
quella dei neuroni del nostro cervello.
Potremmo porci, a questo punto, il
dilemma del come e se esiste un’interazione tra questo vuoto e la nostra
mente, ma questa è una storia che racconteremo più in là.
Sabato Scala
Sabato Scala è Ingegnere elettronico e ricercatore indipendente ha elaborato e sperimentato nuove teorie e modelli matematici nei campi della Fisica dell’Elettromagnetismo, delle Teorie dell’Unificazione, dei modelli di simulazione neurale. In quest’ultimo ambito ha condotto ricerche e proposto una personale teoria dei processi cognitivi e immaginativi suggerendo, sulla base della teoria di Fisico tedesco Burkhard Heim e del paradigma olografico, la possibilità di adozione del suo nuovo modello neurale per la rappresentazione di qualunque processo fisico classico o quantistico.Negli ultimi anni, ha approfondito il fenomeno della coscienza (individuale e collettiva) e il relativo legame con la meccanica quantistica riprendendo il lavoro pionieristico di Carl Gustav Jung e Wolfgang Pauli sulla base dei nuovi modelli da lui proposti, giungendo alla elaborazione di una vera e propria scienza del simbolo e degli archetipi collettivi. Ha, altresì, compiuto ricerche innovative nell’ambito storico-umanistico, interessandosi ai movimenti iniziatici del cristianesimo primitivo. Ha all’attivo numerose pubblicazioni scientifiche e a carattere divulgativo e svolge un’intensa attività di conferenziere in Italia e all’estero. Autore del libro “La Fisica di Dio“ e del “Manuale Scientifico per l’Interpretazione dei Sogni e dei Simboli” per Infinito Editori di Torino.
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