Pechino prepara un accordo di libero scambio con i Paesi del Golfo Persico, e con l’Iran prevede di aumentare gli scambi a 600 miliardi di dollari all’anno, collegando questi Stati alla nuova Via della Seta
L’anno
scorso con la firma di accordi di libero scambio con 11 Paesi del
Pacifico, gli USA, in termini economici, hanno attuato la famosa
strategia del “contenimento” dell’espansione militare dell’Unione
Sovietica durante la Guerra Fredda. Solo che questa volta l’obiettivo è
limitare l’espansione economica della Cina cui, in linea di principio,
viene permesso di aderire al patto del Pacifico, ma i cui standard sui
mercati liberalizzati e la tutela dei diritti dei lavoratori e
dell’ambiente, in sostanza, impediscono alla Cina di aderire.
Washington
così riesce a rallentare la Cina nel rafforzare i legami economici con i
partner naturali dei Paesi vicini. Ma Pechino si prepara con mezzi
economici e politici ad irrompere nella regione dove gli Stati Uniti
finora avevano un’intoccabile influenza politica e militare: il Medio
Oriente. L’accordo di libero scambio tra Cina e i sei Paesi del Golfo
Persico, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrayn, Qatar, Quwayt e
Oman, che dovrebbe essere firmato entro la fine dell’anno, è stato
annunciato durante la visita del Presidente cinese Xi Jinping a Riyadh.
Xi Jinping non ha dimenticato il Paese più potente sul lato opposto del
Golfo, l’Iran, dove si è convenuto che gli scambi tra Pechino e Teheran
nel prossimo decennio aumentino di oltre dieci volte, a 600 miliardi di
dollari l’anno.
Oltre al Golfo, il canale di Suez, importante rotta per
le merci cinesi, e l’Egitto non viene evitato dal tour di Xi Jinping in
Medio Oriente. A Cairo ha firmato un memorandum sulla cooperazione con
la Nuova Via della Seta cinese, la catena delle infrastrutture
intercontinentali per inviare i prodotti cinesi nei mercati esteri.
“La Cina si prepara con mezzi economici e politici ad irrompere sul campo in cui gli Stati Uniti avevano finora un’intoccabile influenza politica e militare. Dove gli USA inviano truppe, la Cina invia industriali“.
Pechino lo scorso anno ha concluso, quasi di fretta, una serie di
accordi di libero scambio, aprendosi ai mercati di Australia e vari
Paesi del Sud America e dell’Asia. Anche se rallentata, è la seconda
economia più potente del mondo con ancora un tasso di crescita
invidiabile.
Sulla lista dei Paesi con cui firmare un accordo di libero
scambio ce n’è un altro del Medio Oriente, Israele. La Cina ha già un
notevole scambio commerciale con i Paesi del Golfo Persico e della
regione, da cui riceve più della metà dell’energia. Si stima che in 20
anni la Cina abbia importato più petrolio degli Stati Uniti, sempre più
indipendenti perché finalmente producono abbastanza “oro nero” da
esportarlo. In questo contesto, i Paesi del Golfo fanno meno affidamento
sugli Stati Uniti e sono anche visibilmente insoddisfatti da
Washington, loro fedele alleato, che ora dimostra minore disponibilità
all’intervento militare nella regione.
Dopo il ritiro militare degli
Stati Uniti si apre lo spazio per la Cina all’innovazione economica e,
assieme agli sforzi diplomatici intensificati sulla Siria e per tentare
di mediare tra Riyadh e Teheran, rafforzare l’influenza politica in
Medio Oriente: anzi, è probabile che sarà considerevolmente più
difficile che nei deboli Paesi dell’Africa, in cui la Cina ha investito
molto ed è pronta per aggiungervi altri 60 miliardi di dollari nei
prossimi tre anni. Su quel continente Pechino apre la sua prima base
militare all’estero, a Gibuti, le cui rive si affacciano sulle rotte
dell’enorme trasporto globale di petrolio e dove le navi cinesi
trasportano le merci da esportare verso il Canale di Suez.
La Cina fa
appelli sempre più altisonanti alla cooperazione internazionale nella
lotta allo Stato islamico, saldamente radicato in Medio Oriente e
presente in Africa, e ha recentemente approvato una legge che permette
all’Esercito cinese di agire contro i terroristi all’estero. Ma la Cina
difficilmente l’userà per espandere l’influenza sulla situazione estera.
Gli interventi militari degli USA non sono riusciti a battere il
jihadismo globale, motivo per cui Washington è attualmente di riluttante
a continuare tale politica in Medio Oriente. Quando gli Stati Uniti
inviano truppe, la Cina a sua volta invia industriali. Tale approccio,
piuttosto che la politica di potenza, ha avvantaggiato Pechino nel Paese
che oggi è uno dei principali obiettivi economici per gli uomini
d’affari di tutto il mondo: l’Iran.
Da quando lo scorso giugno è apparso
chiaro che Teheran firmava l’accordo sulla limitazione nucleare e che
le sanzioni internazionali in cambio venivano tolte, gli uomini d’affari
di tutto il mondo infestano la capitale iraniana, cercando di prendersi
la miglior posizione di partenza possibile per l'”assalto” a un mercato
di 80 milioni di persone, di uno dei maggiori produttori di petrolio
del mondo che, grazie al prossimo annullamento dell’embargo, dovrebbe
renderne disponibile una quantità più che doppia rispetto all’anno
precedente. In questa gara la Cina ha un vantaggio perché, anche se non
si è opposta alle sanzioni delle Nazioni Unite, non ha mai lasciato il
mercato iraniano. Al contrario, la Cina beneficiava dell’assenza di
grandi attori come la Germania, avviando progetti su larga scala come,
ad esempio, la costruzione della metropolitana di Teheran.
Un modo fu
trovato per aggirare il blocco del sistema bancario iraniano, secondo il
“New York Times”, creando una nuova banca e con il baratto. Così i
cinesi hanno raccolto gli elogi dal leader supremo iraniano, l’ayatollah
Ali Khamenei, impegnandosi a cooperare con un “Paese indipendente”
rafforzando i mutui legami economici e di sicurezza. L’Iran non è solo
fonte del 10-15 per cento del petrolio per la Cina, ma anche
collegamento della nuova Via della Seta. Pertanto, durante la visita di
Xi a Teheran furono firmati 17 documenti sulla cooperazione nei vari
settori, dall’energia, industria e trasporti a turismo e ambiente.
La familiarità con l’Iran non aggrada all’Arabia Saudita e agli altri del blocco sunnita del Golfo Persico, ma ovviamente ciò non impedirà l’irruzione economica cinese in questa parte della regione. Pechino si è un po’ “riscattata” sostenendo il loro governo dello Yemen, vecchio piano di Riyadh e degli alleati la cui fanteria combatte la ribellione della milizia sciita, sospettata di aiuti dall’Iran. il sostegno della Cina al governo yemenita è solo verbale, in modo da non offendere Teheran con tale equilibrio che, dopo tutto, è la tipica posizione politica di Pechino. Questa politica fu sottolineata nel documento sulla strategia politica verso i Paesi arabi della regione che la Cina ha stilato: secondo cui la posizione comune è
“un consenso sulla salvaguardia della sovranità statale, l’integrità territoriale e la difesa della dignità nazionale…“.
Secondo questi principi, la Cina ha sempre rifiutato di giustificare
gli interventi militari, che appaiono sostituiti con successo dallo
‘sbarco’ economico cinese. In nome di questi principi la Cina evita di
criticare il regime egiziano, per la cui cooperazione sulla nuova Via
della Seta ha promesso un aiuto finanziario di 1,7 miliardi, nel momento
in cui il regime è sotto il tiro dei disordini civili e delle lamentele
occidentali per l’arresto degli oppositori politici.
Vladimir Vukasovic, Politika, Southfront
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
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