“Ciascuno vede ciò che si porta nel cuore.”
(Johann Wolfgang Goethe)
Gli
antichi indù erano grandi conoscitori dell’animo umano infatti avevano
scoperto la complessa struttura psicologica dell’essere umano perciò
conoscevano anche l’inconscio. I maestri dell'antica India usavano il
termine “vasana” per indicare ciò che risiede a livello latente nel
subconscio dell’uomo. Vasana è un termine molto usato nel Vedanta per
indicare le impressioni mentali che nascono dal subcosciente essendo
indotte dalle esperienze e dai pensieri che derivano dal karma
accumulato in passato.
Le
vasana sono dei “semi” che producono dei pensieri, delle pulsioni e
delle espressioni che agiscono a livello latente, e che spingono
l’individuo ad agire in un certo qual modo. Le vasana sono come dei
solchi che si sono tracciati nella sostanza mentale, e che hanno creato
delle “impronte” mentali. Le vasana sono i segni delle disposizioni che
abbiamo acquisito, perciò sono dei tratti che ci caratterizzano ma sono
anche delle caratteristiche che limitano la mente dell’individuo.
Per
gli antichi indù, le vasana rappresentano tendenze che ci dominano,
perché sono potenti tendenze interiori che ci spingono a fare ciò che
abbiamo fatto in passato. Le vasana ci impongono una dimensione
interiore che emerge prepotentemente dal subconscio, e questo è stato
osservato anche dalla psicologia moderna che ha evidenziato una pulsione
ossessiva a ripetere forzatamente le esperienze del passato.
I
maestri del Vedanta dicono che le vasana fanno parte dell’insegnamento
sulla paura, e affermano che nell'uomo esiste una tendenza innata a
ritrovare le situazioni conosciute. Naturalmente questo atteggiamento
non viene messo in pratica in modo consapevole, perché la parte
subconscia è più forte di quella cosciente. In effetti vediamo che
quello di cui abbiamo maggiore paura è la cosa che più ci attrae.
Il
concetto delle vasana che emergono dal subconscio riveste un forte
valore psicologico, e ci fa capire il meccanismo che agisce su chi
sembra ricercare il fallimento. E questo ci fa comprendere meglio anche
l'origine della tendenza distruttiva che predomina in molte persone. I
maestri indù conoscevano bene queste cose, infatti avevano distinto 4
aspetti dell’essere umano: la Buddhi, la Chitta, il Manas e l’Ahamkar.
Essi
dicono che l’Ahamkar è il senso dell’io, perché è il principio
d’individualizzazione che crea il senso dell’ego e forma l’esperienza
particolare dell’io. L’Ahamkar viene associato alla Chitta che è il
deposito dei semi ossia “il serbatoio” delle tendenze che esistono nel
subconscio, mentre il Manas è la mente analitica che ci consente di
distinguere la prospettiva dell’individuo particolare.
L’Ahamkar
è la coscienza individuale che produce l’io, perciò rappresenta tutto
quello che agisce in funzione dell’io. La coscienza individuale ricava i
frutti dalle esperienze dell’io, e produce azioni positive o negative
che esprimono la natura dell’ego ossia il tratto caratteristico del jiva
individualizzato.
Buddhi
è l’intelligenza oggettiva che vede e percepisce la realtà così come è
realmente, perciò Buddhi è la mente che vede la realtà in modo non
limitato. Manas è il pensiero e lo psichismo, in quanto è quello che
reagisce interiormente al mondo esterno producendo emozioni e pensieri
soggettivi. Manas conserva i pensieri e le emozioni, ma sono emozioni e
pensieri che vengono deformati dalla prospettiva personale del soggetto
che esperisce.
Chitta
è la memoria perciò è la parte dello psichismo che dipende dai
condizionamenti del passato. Chitta indica la memoria che è sepolta
nell’inconscio perciò rappresenta la memoria presente a livello latente.
Chitta è il deposito della memoria di tutto quello che ci condiziona.
Chitta è l’inconscio perciò è il deposito delle impressioni mentali che
devono essere conservate. Chitta è il deposito delle vasana, perché è il
luogo in cui conserviamo le tendenze a ripetere il passato.
La
conoscenza psicologica del Vedanta è poco conosciuta perché, in genere,
il Vedanta è più conosciuto per la metafisica dell’atman e del
brahaman. Ma nessuno ha spiegato meglio la paura dei maestri del
Vedanta, infatti essi la inquadrarono come una tendenza a mettersi
sempre in situazioni del passato, a prescindere dal fatto che si
desideri o meno ripetere l'esperienza. Nel Vedanta si mette in evidenza
il concetto che non avremmo paura se non desiderassimo ciò che diciamo
di temere e di non desiderare.
E
questo punto è molto importante, perché ci spiega il meccanismo dei
condizionamenti alcuni millenni prima degli psicologi occidentali. I
maestri induisti e buddhisti studiarono la struttura psicologica umana
per contribuire al sollievo e alla salute degli esseri umani. In queste
tradizioni si insegnava che il cammino della conoscenza di sé include di
essere consapevoli delle dimensioni interiori da cui è necessario
trovare una via di uscita per ottenere la liberazione. Ma quali sono le
grandi paure umane?
La
paura più grande è quella che riguarda la propria vita perciò la prima
forma di paura è connessa con l’istinto di conservazione. E poi c’è la
paura legata a circostanze particolari, ed è il tipo di paura in cui
tendiamo a negare che la situazione è quella che è. La paura mostra una
forte attrazione verso qualcosa che si vuole, ma questo viene negato.
Mentre invece si dovrebbe sapere che può venire attratti non
positivamente, e che veniamo attratti soprattutto da quello che ci
portiamo dentro.
I
maestri indù e quelli buddhisti insegnano che tutto quello che diciamo
di non volere, in realtà, è quello che maggiormente vogliamo. Questo
fatto è scomodo da ammettere, ma è la pura e semplice verità. Ma questa è
la verità che non sappiamo vedere in noi stessi, perché è una verità
che non vogliamo capire perciò è una verità che rifiutiamo. Per questo
motivo la vita è fatta di un miscuglio di reale e irreale, di vero e di
falso: quindi anche la nostra coscienza è fatta con un simile miscuglio .
Shankara
dice che l’uomo è un vaso di terracotta colmo di nettare che, una volta
che viene infranto, continua comunque a esistere; ma non esiste più
nella medesima forma che aveva quando era il vaso. In realtà, ciò che è
scomparso con la morte è la limitazione di forma che subiva
l’individualità. Il corpo fisico possiede la realtà solo quando la
coscienza percepisce i momenti successivi che vengono sostenuti dalla
sua consapevolezza. E la coscienza dell’essere è condizionata dalla
forma che contiene l’essere individuale.
Buona erranza
Sharatanfonte: http://lacompagniadeglierranti.blogspot.it/2016/05/vasana.html
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