“Quanto più conoscete voi stessi, tanto più c’è chiarezza.”
(Jiddu Krishnamurti)
“Ora,
per favore, ascoltate con attenzione, perché vi siete fatti delle idee
strane sulla conoscenza di sé – che per ottenerla dobbiate esercitarvi,
dobbiate meditare, dobbiate fare ogni genere di cose. È molto semplice,
signori. Il primo passo è l’ultimo nella conoscenza di sé, l’inizio è la
fine. Il primo passo è ciò che conta perché non è cosa che possiate
apprendere da un altro. Nessuno può insegnarvela, dovete scoprirla da
soli; deve essere una vostra scoperta, e quella scoperta non è qualche
cosa di tremendo, di assurdo; è semplicissima.
In
fin dei conti, conoscere voi stessi è osservare la vostra condotta, le
vostre parole, quel che fate in tutti i rapporti quotidiani; questo è
tutto. Cominciate con ciò e vedrete come sia straordinariamente
difficile essere consapevoli, anche solo osservare il vostro modo di
comportarvi, le parole che usate col vostro domestico, col vostro capo,
l’atteggiamento che avete nei confronti della gente, verso le idee e le
cose.
Esaminate
i vostri pensieri, i vostri moventi nello specchio del rapporto e
vedrete che, nel momento in cui osservate, volete correggere, dite:
«Questo è bene, questo è male. Devo fare questo e non quello». Quando vi
vedete nello specchio del rapporto, il vostro è un approccio di
condanna o di giustificazione e, quindi, distorcete ciò che vedete.
Mentre se osservate semplicemente in quello specchio il vostro
atteggiamento nei riguardi della gente, verso le idee e le cose, se
vedete soltanto il fatto senza giudizio, senza condanna o accettazione,
allora scoprirete che quella stessa percezione ha la propria azione.
Quello è l’inizio della conoscenza di sé.
Guardare
voi stessi, osservare ciò che fate, ciò che pensate, quali sono i
vostri moventi e incentivi e ciò nonostante non condannare o
giustificare, è una cosa straordinariamente difficile a farsi, perché
tutta la vostra cultura si basa sulla condanna, sul giudizio e sulla
valutazione; siete stati educati a furia di «Fai questo, e non quello».
Ma se siete in grado di guardare nello specchio del rapporto senza
suscitare l’opposto, allora scoprirete che non c’è limite alla
conoscenza di sé.
Vedete,
l’indagine sulla conoscenza di sé è un movimento verso l’esterno che,
più tardi, si volge all’interno. Dapprima guardiamo le stelle e poi ci
guardiamo dentro. Allo stesso modo, cerchiamo la realtà, Dio, la
sicurezza, la felicità, nel mondo oggettivo, e quando non la troviamo
lì, ci volgiamo all’interno. Questa ricerca del Dio interiore, del sé
supremo, o di quel che volete, cessa del tutto tramite la conoscenza di
sé, e allora la mente si fa estremamente quieta, non per mezzo della
disciplina, ma soltanto attraverso la comprensione, l’osservazione,
l’essere consapevole di se stessa, in ogni minuto, senza alternativa.
Non
dite: «Devo essere consapevole, ogni minuto», perché quella è soltanto
un’altra manifestazione della nostra stupidità allorquando vogliamo
ottenere qualcosa, quando vogliamo raggiungere uno stato particolare.
Ciò che importa è essere consapevoli di voi stessi e continuare a
esserlo senza accumulazione, perché non appena accumulate, da quel
centro voi giudicate. La conoscenza di sé non è un processo
d’accumulazione; è un processo di scoperta, di momento in momento, nel
rapporto.
Nient’altro
che consapevolezza! La consapevolezza dei vostri giudizi, dei vostri
pregiudizi, delle vostre simpatie e antipatie. Quando vedete qualcosa,
quel vedere è il frutto del vostro confronto, della vostra condanna, del
vostro giudizio, della vostra valutazione, vero? Quando leggete
qualcosa, state giudicando, state criticando, state condannando o
approvando. Essere consapevoli è vedere, all’istante, tutto questo
processo di giudizio, di valutazione, vedere le conclusioni, il
conformismo, le accettazioni, i rifiuti.
Ora,
si può essere consapevoli senza tutto ciò? Per il momento, tutto quello
che conosciamo è un processo di valutazione, e quella valutazione è il
frutto del nostro condizionamento, del nostro bagaglio di esperienze,
dei nostri influssi religiosi, morali ed educativi. Questa cosiddetta
consapevolezza è il risultato della nostra memoria - memoria intesa come
il «me», l’olandese, l’hindú, il buddhista, il cattolico, o quel che si
voglia.
È
il «me» – i miei ricordi, la mia famiglia, la mia proprietà, le mie
qualità – che guarda, giudica, valuta. Ora, ci può essere consapevolezza
senza tutto ciò, senza il sé? È possibile guardare soltanto, senza
condanna, osservare soltanto il movimento della mente, della propria
mente, senza giudicare, senza valutare, senza dire: «È bene» o «È male»?
La
consapevolezza che scaturisce dal sé, che è la consapevolezza della
valutazione e del giudizio, fa sorgere sempre la dualità, il conflitto
degli opposti – quel «ciò che è» e quel «ciò che dovrebbe essere». In
quella consapevolezza c’è giudizio, paura, valutazione, condanna, c'è
identificazione. Non è che la consapevolezza del «me», del sé,
dell’«Io», con tutte le sue tradizioni, i suoi ricordi, e via dicendo.
Una simile consapevolezza suscita sempre conflitto tra l’osservatore e
l’osservato, tra ciò che sono e ciò che dovrei essere.
Ora,
è possibile essere consapevoli senza questo processo di condanna, di
giudizio, di valutazione? È possibile che io mi guardi, quali che siano i
miei pensieri, e non condanni, non giudichi, non valuti? Non so se ci
abbiate mai provato. È veramente arduo, perché tutta la nostra
formazione dall’infanzia ci conduce a condannare o ad approvare. E nel
processo di condanna o di approvazione c’è frustrazione, c’è paura, c’è
un tormentoso dolore, c’è ansietà, il che è il processo stesso del «me»,
il sé.
Allora,
sapendo tutto ciò, può la mente, senza sforzo, senza cercare di non
condannare - giacché nel momento in cui dice: «Non devo condannare», è
già intrappolata nel processo di condanna - può la mente essere
consapevole, senza giudizio? Può limitarsi a guardare spassionatamente
e, quindi, osservare quegli stessi pensieri, quelle stesse sensazioni
nello specchio del rapporto – rapporto con le cose, con la gente e con
le idee?
Questa
tacita osservazione non provoca freddezza, un gelido intellettualismo –
al contrario. Se comprendo qualcosa, non deve, ovviamente, esserci
condanna, confronto alcuno – è semplice, non vi pare? Ma noi pensiamo
che la comprensione scaturisca dal confronto, e in questo modo
aumentiamo i confronti. La nostra educazione è di tipo comparativo, e
tutta la nostra struttura morale, religiosa è fatta per confrontare e
condannare.
Quindi,
la consapevolezza di cui sto parlando è la consapevolezza dell’intero
processo di condanna, e ne è la fine. In essa c’è osservazione senza
alcun giudizio - cosa che è estremamente difficile; implica la
cessazione, la fine completa del definire, del denominare. Quando mi
rendo conto di essere bramoso, avido, stizzoso, passionale, o quel che
si voglia, non è possibile osservarlo soltanto, esserne consapevole,
senza condannare? - il che significa proprio smettere di attribuire un
nome alla sensazione.
Infatti,
quando do un nome, per esempio «avidità», l’attribuzione stessa del
nome è il processo di condanna. Per noi, neurologicamente, la parola
stessa «avidità» è già una condanna. Liberare la mente da ogni condanna
significa cessare di attribuire dei nomi. Dopo tutto, il nominare è il
processo di chi pensa. E il pensante che separa se stesso dal pensiero –
il che è un processo del tutto artificiale, è irreale. Esiste solo il
pensare; non c’è alcuna entità pensante; c’è solo una condizione
d’esperienza, non l’entità che esperisce.
Così,
tutto questo processo di consapevolezza, di osservazione è il processo
di meditazione. È, in altri termini, la propensione a sollecitare il
pensiero. Per la maggior parte di noi, i pensieri sopraggiungono senza
sollecitazione – un pensiero dopo l’altro. Il pensare è incessante; la
mente è schiava di ogni sorta di pensiero errabondo.
Se
ve ne rendete conto, allora vedrete che può esservi una sollecitazione
al pensiero - una sollecitazione del pensiero - e allora un perseguire
ogni pensiero che abbia a sorgere. Per la maggior parte di noi, il
pensiero giunge non sollecitato; in qualsiasi maniera. Comprendere quel
processo e sollecitare, allora, il pensiero e perseguire quel pensiero
fino alla fine è l’intero processo che ho descritto come consapevolezza;
e in ciò non c’è un denominare.
Allora
vedrete che la mente si fa straordinariamente quieta - non con fatica,
non attraverso la disciplina, non attraverso una qualsiasi forma di
tortura inflitta a se stessi e di controllo. Mediante la consapevolezza
delle proprie attività, la mente diventa sorprendentemente quieta,
calma, creativa - priva dell’azione di qualsiasi disciplina o di
qualsiasi imposizione.
Allora,
in quella calma della mente, si presenta il vero, senza sollecitazione.
Non potete sollecitare la verità; essa è l’ignoto. E in quel silenzio
colui che sperimenta è assente. Perciò, ciò che è sperimentato non viene
accumulato, non viene ricordato come «la mia esperienza della verità».
(Jiddu Krishnamurti, Verso la liberazione interiore, Guanda ed.)
fonte: http://lacompagniadeglierranti.blogspot.it/2016/10/la-conoscenza-di-se.html
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