Umiliati dal disagio
La parola ‘umiltà’ ha un profondo legame con la
parola ‘libertà’. Questo legame non è così evidente, perché spesso noi parliamo
di ‘umiltà’ in un senso diverso dal vero significato di questa parola. Ne
parliamo troppo, ne parliamo a sproposito, e, a forza di parlarne, logoriamo
questa parola delicata e la facciamo diventare inutile e consunta. Essere umili
significa ‘stare con i piedi per terra’, sull’humus. Questa dimensione
appartiene alla stessa area indicata da parole come ‘accettazione’, ‘equanimità’,
‘oltrepassamento dell’io’, perché in una modalità umile di vita si impara pian
piano ad andare oltre l’egocentrismo e si acquista una nuova libertà.
Vivere umilmente non è affatto il nostro solito
modo di vivere, anche se forse potremmo esserne convinti. È stato acutamente
osservato da H. Benoit che ogni forma di disagio che incontriamo è da noi
vissuta come un’umiliazione: perdiamo il treno e ci sentiamo umiliati; prendiamo
un raffreddore e ci chiediamo perché proprio a noi debba toccare questa
sfortuna, magari nei giorni in cui avevamo bisogno di tutta la nostra lucidità,
e ancora una volta ci sentiamo perciò umiliati; e via dicendo.
Qualsiasi sofferenza ci umilia. E ciò accade per
il semplice motivo che essa ci costringe ad ammettere che non siamo onnipotenti.
Fa cadere il nostro io da un piedistallo. In un regime in cui l’io prevale,
anche un piccolo disagio, anche una minima contrarietà minacciano la presunta
onnipotenza dell’io. L’io scopre di avere dei limiti, e questo è percepito come
umiliante.
Io-mio, umiltà e
umiliazione
Accorgersi di quanto siano strettamente connessi
egocentrismo e umiliazione è un primo passo fondamentale verso una diminuzione
della sofferenza che ogni inconveniente provoca nella nostra vita. Non è un caso
che nei termini tradizionali del Dharma l’io-mio si traduca con l’insieme di
attaccamento, avversione e ignoranza. Finché questi tre prosperano, l’io-mio
rimane al centro; e, finché permane l’atteggiamento divisivo e separativo
portato dall’io, l’umiliazione è sempre dietro l’angolo. Se invece
l’egocentrismo si indebolisce, c’è più umiltà, e di conseguenza ci sono minori
umiliazioni. Infatti chi intraprende il cammino dell’umiltà non tende più a
esperire tutto quello che gli capita di disagevole come un’umiliazione: al
contrario, comincia ad accogliere le cose in modo radicalmente diverso.
La proposta della
pratica
La pratica della meditazione consiste appunto
nell’imparare ad accogliere le contrarietà in un modo nuovo. Essa ci propone
qualcosa che all’inizio può sconcertare: non si tratta più di seguire ciecamente
l’impulso a fuggire lo spiacevole a tutti i costi, bensì di abitare con calma
l’umiliazione che tale spiacevole suscita.
È certamente una proposta paradossale, e lo si
vede bene dalla difficoltà con cui l’io-mio la considera. Per l’io-mio questa è
una prospettiva assolutamente intollerabile, perché va in senso opposto
all’indicazione che esso dà in ogni circostanza: ricercare il piacevole e
respingere lo spiacevole.
A prima vista la reazione dell’io-mio potrebbe
sembrare molto ragionevole: non si vede perché mai dovremmo andare a incontrare
il disagio.
Ma questa non è che un’impressione superficiale.
Se approfondiamo la questione, ci rendiamo conto che l’atteggiamento egocentrato
è assennato solo in apparenza. In realtà ci sono situazioni in cui è possibile
vedere molto chiaramente come tale atteggiamento non sia di alcuna utilità,
anzi, sia esclusivamente fonte di sofferenza. Pensiamo per esempio a quelle che
potremmo chiamare le ‘umiliazioni inevitabili della vita’: l’invecchiamento, la
malattia, la morte. Noi percepiamo il passare del tempo e il mutamento del corpo
come un’umiliazione, e facciamo resistenza: questo significa che non riusciamo
ad accettare la vita così com’è. E il nucleo portante dell’io è costituito
proprio da questa contrazione di fondo, da questa incapacità ad abbracciare la
vita come ci si presenta. Di qui nasce l’umiliazione, ed è in questo frangente
che si crea la sofferenza.
Forse siamo convinti che la contrazione di fondo
delle nostre vite non si possa eliminare. Ma tutte le grandi tradizioni
spirituali concordano nel dire che non è così. Gli esempi nel senso dello
scioglimento sono senza numero. Voglio ricordare a questo proposito il racconto
di un’infermiera americana che, in un ospedale, si occupava di un’anziana donna
di colore, malata in maniera terminale. Un giorno la vide nel letto che
sorrideva, e le domandò: "Come va?". La donna rispose: "Bene, sto pregando per
te".
Un episodio del genere ci tocca proprio perché
in esso è sorprendentemente assente quella contrazione di cui parlavamo. In
questo racconto c’è un senso miracoloso di libertà, la libertà dall’umiliazione
che viene inflitta all’io-mio da una malattia incurabile.
Il tirocinio della
presenza mentale
In un percorso meditativo non ci viene chiesto
di riuscire immediatamente a stare con il disagio. Nella maggior parte dei casi
l’incontro consapevole con le contrarietà, che permette di abitare saldamente
l’umiliazione, è un obiettivo per raggiungere il quale occorre un certo tempo.
Prima di fare questa esperienza ci si può quindi allenare gradualmente con
oggetti piacevoli o neutri. Per esempio, il respiro è un oggetto neutro o
piacevole che può essere usato nella prospettiva di passare poi a un oggetto
spiacevole, perché non bisogna dimenticare che la pratica meditativa non può
limitarsi all’area del piacevole e del neutro.
Ovviamente dinanzi a una modalità più
impegnativa o spiacevole di pratica ci si deve rapportare in modo diverso, a
seconda della propria esperienza. Le persone che praticano da molto tempo
verificheranno queste indicazioni con la loro meditazione; le persone che stanno
incominciando o hanno cominciato da poco intenderanno queste parole come una
prospettiva aperta sul futuro.
Non è affatto inutile notare la differenza fra
queste due situazioni, perché se non se ne tiene conto si rischia di formulare
un giudizio superficiale sulla propria attitudine a praticare con il disagio.
Chi non ha esperienza può pensare che, poiché non ha alcuna propensione né
facilità a stare con l’umiliazione, non è il caso che insista in questa
direzione.
Tuttavia l’arte di abitare il disagio non
richiede uno speciale talento. Al contrario, è un fatto che può rivelarsi
naturale e organico. Ma questa naturalezza non è in genere immediatamente
accessibile, e richiede un graduale tirocinio. Aiutati da esso, si passa dalla
capacità di stare con il piacevole e il neutro a quella di conservare la
presenza mentale anche nelle situazioni spiacevoli, difficili e umilianti.
Questa è una transizione di fondamentale importanza, che può essere compiuta più
facilmente con l’ausilio del sangha, degli insegnanti e della pratica
intensiva di ritiro.
La pace incondizionata
Nel corso di tale transizione si possono
incontrare vari equivoci. Un equivoco notevole è quello che ci fa credere che
l’obbiettivo della pratica sia una pace condizionata anziché incondizionata.
Immaginiamo, per esempio, di praticare già da un certo tempo, di essere
soddisfatti della nostra pratica e della sua evoluzione; improvvisamente ci
troviamo di fronte a una fase difficile della nostra vita. Non ce lo aspettavamo
e restiamo sconcertati. Abbiamo l’impressione che, a causa delle nuove
difficoltà, ci manchi la calma necessaria per praticare. In precedenza, in una
situazione di relativa tranquillità, riuscivamo a proseguire il nostro percorso;
ora non più, perché il contesto è cambiato in peggio.
Questa reazione è comprensibile; tuttavia essa è
fondata su un malinteso. Infatti è vero che la pace è uno scopo importante della
meditazione di consapevolezza: essa ne è l’oggetto, il traguardo, la meta. Ma
quando diciamo di non avere abbastanza calma per praticare, ci riferiamo a una
pace dipendente da certe condizioni, quali possono essere, per esempio, la buona
salute e l’assenza di preoccupazioni. Ci riferiamo a una pace che non cambia la
nostra vita, perché dura soltanto finché sono presenti queste caratteristiche
favorevoli. Questa pace è certamente positiva, però è molto fragile: essa ha la
durata e la consistenza delle condizioni da cui dipende, e finisce non appena
tali condizioni si esauriscono.
Ma la pace che si ripromette un cammino
interiore è una pace ‘incondizionata’, perché sempre meno dipendente da
condizioni, e quindi sempre più profonda.
Quando cominciamo a capire che questo tipo di
pace esiste e può essere avvicinato indipendentemente dallo stato in cui ci
troviamo, non ci soffermiamo più nel rimpianto della pace condizionata che prima
avevamo e ora abbiamo perso, non diciamo più che in questo momento non possiamo
praticare perché ci manca la calma e siamo agitati, ma il nostro orientamento a
praticare permane saldo, invece, nell’agitazione, e con
l’agitazione. Ed è solo con la sottile comprensione di questa possibilità, che
il superamento del nostro pregiudizio riguardo all’incompatibilità fra pratica e
situazioni difficili, che può avvenire, a poco a poco, la ‘conversione’ a
lavorare con lo spiacevole.
Accendere una piccola
luce
Ora tale transizione avviene, come già si
diceva, abitando l’umiliazione, giacché lo spiacevole ci umilia. E ci offende: a
volte, incorrendo in qualcosa che ci contraria, ci sentiamo offesi. Non si
tratta di un risentimento di fronte a un’ingiustizia o a un insulto, ma di un
broncio che mettiamo alla vita quando le cose non vanno come noi vorremmo che
andassero. Per esempio, viene meno una certa occasione che ci sembrava
importante e cala sul nostro viso un broncio. Ci sentiamo umiliati, perché
diminuiti o perché minacciati.
E, francamente, non avremmo molta voglia di
lavorare con le situazioni disagevoli, frustranti, umilianti. Per farlo occorre
un interesse, una piccola luce nel buio della circostanza sgradevole.
L’interesse, in genere, nasce sempre nello stesso modo: dapprima proviamo
fiducia nei confronti di qualche insegnante o di una tradizione e, un po’
timorosi, proviamo a portare il lavoro interiore nella situazione spiacevole.
Col tempo, provando e riprovando, tra alti e bassi, scopriamo che non solo non
veniamo sommersi – come temevamo – dalla sofferenza, dal disagio, dalla
frustrazione, dall’umiliazione, ma che, al contrario, stando dentro alla
sofferenza senza ignorarla, siamo stati in ultima analisi meglio, pur soffrendo.
E non abbiamo neppure dovuto far ricorso a tutte le nostre abituali strategie
per sottrarci a quello che non ci piaceva. Temevamo di rimanere diminuiti,
mentre, al contrario, abbiamo toccato una potenzialità dentro di noi che non ci
aspettavamo: e ci siamo riusciti rimanendo fermi, invece di agitarci
variamente come di solito facciamo.
Questa potenzialità con cui siamo entrati in
contatto è un inaspettato elemento di pace dentro la sofferenza; ed è grazie a
esso che in noi si sveglia quello specifico interesse a lavorare con lo
spiacevole. Non per questo preferiamo lo spiacevole al piacevole: preferiamo
sempre il piacevole, ma lo spiacevole non ci umilia più come un tempo. Ora ci
interessa, e sempre di più. È un interesse che, una volta sorto, non si spegne,
e continuamente ci stimola a lavorare con le situazioni di disagio.
"Sopporta te stessa con
dolcezza"
Un autore cristiano del XVII-XVIII sec., il
Padre Jean-Pierre de Caussade, scrive in una sua lettera di direzione
spirituale:
Sopporta te stessa con
dolcezza, senza impazienza esteriore o interiore, ma tranquillamente. Questa
sola cosa ben praticata può procurarti la calma interiore che ti farà progredire
più di tutto ciò che riusciresti mai a fare. Perché? Perché quando si sente un
po’ di pace e di dolcezza nel proprio cuore, vi si ritorna con piacere, e ciò
che si fa con piacere, lo si fa volentieri, continuamente, senza pena e quasi
senza riflettervi 1.
Le parole del Padre de Caussade descrivono qual
è secondo lui l’atteggiamento da assumere in una situazione di difficoltà:
l’invito è alla dolcezza, alla tranquillità e alla pazienza. Noi diremmo che è
un invito a praticare intensamente e con interesse (in questa parola possiamo
vedere un equivalente di ciò che il Padre de Caussade chiama ‘piacere’),
rimanendo consapevoli di tutto ciò che c’è in noi: consapevoli del contrario
della dolcezza, cioè dell’amarezza, del contrario della tranquillità, ossia
dell’agitazione, e dell’impazienza.
Vipassana
e metta
La via della consapevolezza è un processo di
purificazione che affronta direttamente gli ostacoli alla pace, alla saggezza,
alla compassione. E dunque, per esempio, per cominciare ad accedere alla pace
del non attaccamento occorrerà contemplare l’attaccamento stesso. Così pure
tutto ciò che è amarezza, impazienza e agitazione, se guardato affettuosamente
(questa è la pratica della vipassana), comincia a mutarsi nel contrario,
tanto più se uniamo a questa modalità la pratica di metta o benevolenza,
in virtù della quale evochiamo parole di dolcezza, di pazienza e di
tranquillità.
Quindi in una situazione disagevole e umiliante
contempliamo affettuosamente il contrario della dolcezza, cioè l’amarezza, ed
evochiamo deliberatamente la dolcezza attraverso la pratica di metta.
Rimanendo in questa posizione ossia in questa fermezza vigile e affettuosa,
cresciamo e sviluppiamo interesse; l’interesse a sua volta ci induce
fruttuosamente alla pratica.
Apprezzare ciò che è
piacevole e neutro
Ci accorgiamo a questo punto che una situazione
difficile non solo non ci ha nuociuto, ma, al contrario, vissuta in questo modo,
ci ha portato vantaggio. È chiaro che non ci auguriamo di incontrare un’altra
situazione di questo genere, ma è importante toccare con mano come la capacità
di abitare consapevolmente l’umiliazione porti frutto.
E nello stesso tempo scopriamo che lavorare con
il disagio non cambia soltanto il rapporto che abbiamo con quanto ci umilia, ma
modifica anche il nostro modo di vivere ciò che è piacevole o neutro. Questo
nuovo modo si può esprimere in breve con le parole ‘apprezzamento’ e ‘gratitudine’.
Non diamo più per scontati il positivo, il piacevole, il sereno, il pacifico, il
bello, l’interessante; non li accompagniamo più con qualche lamentela perché non
sono all’altezza delle nostre aspettative; semplicemente cominciamo a gustarli
meglio mentre in noi aumenta la capacità di essere grati e di apprezzarli.
Quando si cominciano a vedere questi frutti,
nella propria esistenza nascono come una densità e uno spazio che prima non
c’erano. Un tempo potevamo anche apprezzare qualcosa di gradevole che era stato
detto o fatto, o qualcosa che avevamo visto, ma si trattava di un’annotazione
veloce, occasionale. Non riuscivamo a fermarci e ad apprezzare una
piccola cosa buona, perché subito venivamo catturati dalla mente avida che ne
voleva subito un’altra, più grande, o dalla mente giudicante che investiva molta
energia a rammaricarsi della piccolezza della cosa. Ora, invece, spontaneamente,
il gradevole, anche se marginale, ci colpisce di più; è come se finalmente
questa continua corsa a fuggire lo spiacevole e ad arraffare il piacevole prenda
a rallentare. Ci svegliamo a minuscole situazioni piacevoli e non le diamo più
per scontate. E, così facendo, conosciamo un rilassamento nuovo.
Nel presente, senza
paura
È in questo modo che cominciamo a stare nel
presente. Questa espressione è divenuta ormai fin troppo usata, al punto da
sembrare quasi vuota di significato. Ma il rallentamento generato dalla pratica
fa sì che noi sperimentiamo proprio nella sua realtà e, verrebbe da dire, nella
sua densità, che cosa vuol dire abitare il presente.
Quando rallentiamo la corsa, è come se nella
nostra vita nascesse più spazio e più ricchezza. Perché, diventando più capaci
di stare in quello che potremmo chiamare il ‘presente scuro’ – l’umiliazione, la
frustrazione –, raggiungiamo una maggiore facilità a stare nel ‘presente chiaro’,
cioè il piacevole.
Prima di questa svolta, non riuscivamo a stare
realmente nel presente, pur avendone l’aspirazione. La realtà del presente ci
sfuggiva. Ed era la nostra paura a impedirci di stare pienamente in contatto con
esso. Il timore di stare con lo spiacevole, il timore di perdere il piacevole,
in altri termini la contrazione di fondo, l’io-mio, ci facevano correre sempre.
Per fermarsi è fondamentale che la paura
cominci a sgretolarsi. Una posizione iconografica tipica del Buddha è quella
dell’abhayamudra, ‘posizione della non paura’. Se abbiamo paura non
possiamo sostare nel presente e radicarci in esso. D’altra parte è
soltanto quando riusciamo a radicarci in questo modo che cominciamo a vedere la
realtà così com’è.
È l’io che proietta, prolifera, distorce. La
paura portata dall’io ci fa vedere una realtà deformata e falsa, e ci impedisce
di fermarci. Ma una visione tranquilla della realtà vera ha bisogno di un punto
fermo in mezzo a tutto quello che gira, quello still point cantato da T.
S. Eliot.
Lo svuotamento, che è l’umiltà, porta più vita.
Un grande maestro, Kalu Rinpoche, ha detto:
Noi viviamo nell’illusione,
nell’apparenza delle cose, ma c’è una realtà, e noi siamo quella realtà. Quando
tu capisci questo, tu vedi che sei nulla, ed essendo nulla sei tutto.
Se ci si svuota dall’egocentrismo si vede la
propria interconnessione con gli altri e con tutto il resto del mondo; di
conseguenza ci si sente meno soli, perché è proprio l’attività separativa
dell’io-mio che genera la solitudine. E venendo meno il senso di solitudine,
comincia a venir meno la paura.
Corrado Pensa
A CURA DI ANTONELLA COMBA
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