La
Cina fuma, ovviamente ne ha abbastanza, si raggiunge il limite. Per
decenni ha cercato di placare l’occidente, di giocare secondo le leggi
internazionali, di essere un membro buono e responsabile della comunità
internazionale. E per decenni non ha mai interferito negli affari
interni di altri Paesi, non ha sponsorizzato colpi di Stato e non ha
attaccato nessuno. Anche la sua contro-propaganda è misurata, gentile e
mite. Tutto questo non ha portato alla Cina ammirazione, e nemmeno
rispetto! Viene costantemente antagonizzata, provocata e circondata
militarmente ed ideologicamente.
Non lontano dal suo territorio vi sono
micidiali basi militari USA (Futenma e Kadena) ad Okinawa, le enormi
basi nella penisola coreana ed aumenta la presenza militare degli Stati
Uniti nel sud-est asiatico, in particolare nelle Filippine. Vi sono
esercitazioni costanti e manovre navali vicino le sue coste, e
ultimamente la decisione dalla Corea del Sud (ROK) di consentire agli
Stati Uniti di dispiegare un avanzato sistema di difesa missilistico
(THAAD) a Seongju. A Nagasaki, il mio amico, lo storico australiano
Geoffrey Gunn, ha commentato la situazione:
“Beh, il fatto è che la Cina è indignata da tale accerchiamento. La Cina è indignata da Washington che sostiene il Giappone, pronta a sostenerne la politica di non-negoziazione sulle isole Senkaku/Diaoyu. Così vediamo, in questa situazione, una chiaramente indignata Cina, e il Giappone che adotta una posizione fondamentalmente aggressiva in relazione alla cosiddetta integrità territoriale. Così l’Asia-Pacifico diventa sempre più aggressiva, più incline al conflitto“.
La propaganda contro la Cina
in Europa e Nord America è un crescendo. La via socialista cinese
ancora una volta avanza, e più i suoi legami con la Russia diventano
stretti, più potenti diventano gli attacchi ideologici dai governi e
media mainstream occidentali. L’ultima decisione (sulla controversia sul
Mar Cinese Meridionale) del processo farsa dell’arbitrato all’Aja
sembra l’ultima goccia. Il drago cinese è sempre più arrabbiato. Stanco
di subire colpi potenti e forti, invia un potente messaggio
all’occidente: la Cina è un Paese enorme e pacifico, ma se minacciato,
in caso di attacco, sarà fermo e deciso.
Difenderà i suoi interessi.
Proprio nel periodo in cui la corte dell’Aja si preparava a decidere,
guidavo dalla città dell’Estremo Oriente russo di Khabarovsk dritto al
confine con la Cina. Scorreva sotto di noi il possente fiume Ussuri, che
separa due grandi nazioni, Cina e Russia. Il ponte moderno sui cui
passavamo era nuovo di zecca; non c’era nemmeno su Google Maps, ancora.
Ora collega la terraferma russa con la grande isola dell’Ussuri, una
massa di terra abbracciata da un lato dall’Amur e dall’altro
dall’Ussuri. In passato, questa zona subì gravi tensioni e diversi
conflitti. L’isola era chiaramente un ‘territorio conteso’, una zona
‘vietata’, militarizzata. Ricordando il passato, mi sono armato di
passaporto e diverse tessere, ma il mio autista, Nikolaj, mi ha preso in
giro.
“Stia assolutamente sereno e tranquillo“, aveva detto. “Ora Russia e Cina sono grandi amici e alleati. Guardi, sulla riva, le persone sono solo parcheggiano l’auto ma fanno picnic“.
Vero, ma tutto intorno ho visto i resti del passato, bunker
abbandonati, città militari fantasma e segnali di pericolo che
annunciano che si entrava in una zona di confine vigilata. Non lontano,
notavo un’alta pagoda cinese. Eravamo alla frontiera. Un uomo in sella
al suo cavallo, vicino alla strada e notavo una fattoria collettiva.
Ancora non potevo credere di essere qui, in questa zona d’ombra. Tutto
sembrava un vecchio film di Andrej Tarkovskij. Ma per la popolazione
locale, qui è ‘tutto normale’, ora. Cinesi e russi si mescolano,
conoscendosi e capendosi; turisti e cacciatori di occasioni che
viaggiano su traghetti, autobus e aerei, attraversando numerosi il
confine.
Musei, sale da concerto e centri commerciali di Vladivostok e
Khabarovsk traboccano di visitatori cinesi curiosi. Il conflitto è
finito. Vladimir Putin e Hu Jintao s’incontrarono nel 2004 avanzando
intenzioni chiare e buone. I negoziati erano complessi ma le parti
superarono gli ostacoli, firmando un addendum all’accordo sul confine di
Stato russo-cinese, e tutte le controversie difficili furono risolte,
rapidamente. Ora la Cina investe decine di miliardi di dollari nel
fiorente oriente russo. Grandi progetti infrastrutturali si
materializzano. Un’amicizia solida è stata forgiata. L’alleanza
antimperialista è attiva. Entrambi i Paesi, Cina e Russia, progrediscono
pieni di ottimismo e speranze per il futuro. ‘Si può fare’, penso, dopo
aver parlato con diverse persone del posto che esprimono ammirazione
per la vicina Cina.
‘Sicuramente può essere fatto, se c’è una forte volontà!’
Qualche migliaio di chilometri a sud, attraversavo le baraccopoli
orribili che circondano Manila, la capitale delle Filippine. Come
l’Indonesia, le Filippine sono chiaramente uno Stato ‘fallito’, ma
entrambi i Paesi sono noti fedeli alleati dell’occidente e ne sono
ricompensati, le loro élites continuamente esprimono sottomissione e
servilismo. Provocare ed antagonizzare la Cina è uno dei modi più sicuri
per dimostrare fedeltà a Washington e capitali europee.
Già nel 2012
decisi di scrivere del ‘confronto’ sulle isole Spratly per il Quotidiano
del Popolo (uno dei giornali più importanti in Cina e la pubblicazione
ufficiale del partito comunista). Parlai con molti miei amici,
accademici filippini. Uno di loro, Roland G. Simbulan, professore di
studi su Sviluppo e Management Pubblico presso l’Università delle
Filippine, mi ha parlato della ‘contestazione’ mentre eravamo nella
Metro di Manila, facendo ricerche sull’orrido passato coloniale degli
Stati Uniti dell’arcipelago per il mio documentario:
“Francamente, queste isole Spratly non sono così importanti per noi. Quello che succede è che le nostre élite politiche sono chiaramente incoraggiate dagli Stati Uniti a provocare la Cina, e c’è anche la grande influenza delle forze armate statunitensi sulle nostre forze armate. Direi che l’esercito filippino è molto vulnerabile a tale tipo d”incoraggiamento’. Così gli Stati Uniti coltivano di continuo tali atteggiamenti conflittuali. Ma continuare tale approccio potrebbe essere disastroso per il nostro Paese. In sostanza siamo molto vicini alla Cina, geograficamente e no“. “La Cina ha una pretesa più forte di quella delle Filippine”,
spiegava il professor Eduardo C. Tadem, professore di studi asiatici
presso l’Università delle Filippine (UP), due anni dopo, a casa sua:
“La Cina controllava le isole Spratly prima che ne sapessimo nulla. L’unica nostra pretesa è la loro vicinanza e, francamente, non è particolarmente forte“.
Eduard Tadem e sua moglie Teresa S.
Encarnation Tadem (professoressa presso il Dipartimento di Scienze
Politiche del Collegio di Scienza e Filosofia presso l’Università delle
Filippine e anche ex-capo degli ‘Studi sul Terzo Mondo’), concordano sul
fatto che l’occidente provoca di continuo la Cina nel tentativo di
garantire le risorse naturali delle isole Spratly agli attori più
deboli:
“Siamo totalmente dipendenti dalle compagnie straniere per lo sfruttamento delle nostre risorse naturali. Le Filippine ottengono solo una parte di ciò che viene estratto. Le aziende internazionali detengono tutti i principali contratti. Le multinazionali straniere trarrebbero notevole profitto dalle risorse naturali del Mar della Cina, se un Paese debole e dipendente come questo dovesse ottenerle“.
In Cina, le passioni sono esplose proprio nel luglio 2016, subito dopo la decisione finale dell’Aia. Come riportato da Reuters il 18 luglio 2016:
“La Cina ha rifiutato di riconoscere la sentenza del tribunale di arbitrato dell’Aia che invalida le ampie rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Meridionale e non ha preso parte al procedimento promosso dalle Filippine. Ed ha reagito con rabbia alla pretesa di Paesi occidentali e Giappone a rispettare la decisione. La Cina ha più volte accusato gli Stati Uniti di fomentare i problemi nel Mar Cinese Meridionale, via marittima strategica attraversata da più di 5 miliardi di dollari di commercio ogni anno. Cina, Brunei, Malaysia, Filippine, Taiwan e Vietnam hanno tutte pretese rivali, di cui quelle della Cina sono le maggiori“.
Un ricercatore di studi americani dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali ha fatto questa corretta osservazione:
“Possiamo vedere che Washington, che non ha mai ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, ha incoraggiato Manila ad avviare il caso dell’arbitrato fin dall’inizio“.
Molti osservatori, a Pechino
e all’estero, sottolineano che la sentenza è chiaramente politica e che
su cinque, quattro giudici erano cittadini dell’UE, mentre uno (il
presidente) è del Ghana ma residente da tempo in Europa. La risposta
cinese è stata rapida e decisa. Il quotidiano ufficiale “China Daily”
dichiarava il 15 luglio:
“Pechino ha detto che interverrà con fermezza se una delle parti cercasse di usare la sentenza dell’arbitrato avviato unilateralmente sul Mar Cinese Meridionale per danneggiare gli interessi della Cina“.
La posizione della Cina è chiara: è vincolata da una serie di accordi
bilaterali con i Paesi vicini, ed è disposta a negoziare ulteriormente.
Ma non attraverso l’occidente e le sue istituzioni ostili verso la Cina e
verso tutti i Paesi che non ne accettano i dettami. Nel corso di un
recente incontro nella capitale mongola Ulaanbaatar, il Primo ministro
del Vietnam Nguyen Xuan Phuc incontrava il Premier cinese Li Keqiang e
dichiarava che
“il Vietnam è pronto a sostenere negoziati bilaterali e a gestire correttamente le differenze con la Cina per contribuire a pace e stabilità regionali“.
Questo approccio è accolto e
incoraggiato da Pechino. Anche a Manila vi sono innumerevoli voci della
ragione che chiedono ulteriori negoziati bilaterali e immediati con la
Cina. Inimicarsi la Cina non è solo sbagliato, è pericoloso e miope.
Pechino s’è trattenuta con compromessi troppo a lungo, per decenni. Non
sarà più così. I cinesi chiedono equità. Le Filippine dovrebbero
rendersi conto che l’occidente le usano per i suoi obiettivi
imperialistici. Coinvolgere tribunali occidentali nelle controversie
interne asiatiche, come fanno le Filippine, non farà che aggravare la
situazione. Sparare ai pescherecci cinesi nelle acque contese (come è
stato fatto recentemente dalla marina indonesiana) può generare tensioni
(l’Indonesia ha già un’orribile storia verso la Cina, vietando lingua,
cultura e persino nomi cinesi per decenni, dopo il sanguinoso colpo di
Stato filo-occidentale del 1965).
Per il momento, la Cina seguirà la
strategia dell”aspettare e vedere’. Ancora una volta, userà la
diplomazia per rilanciare i negoziati con Filippine, Vietnam e altri
Paesi. Ma se l’occidente si rifiuta di ritrarsi, e se alcuni Paesi del
Sudest asiatico continuano ad agire da suoi agenti, Pechino molto
probabilmente utilizzerà le opzioni più severe, come creare una zona
d’interdizione aerea sul Mar Cinese Meridionale. Un’altra potrebbe
essere l’escalation militare diretta, con una maggiore presenza navale e
aerea nella zona.
E qual è la posizione del mondo? Non importa cosa la propaganda occidentale strombazza, è solo una manciata di Paesi, Stati Uniti ed alleati più stretti (5 nel momento), che pubblicamente sostiene le Filippine e la decisione dell’Aia. Oltre 70 nazioni sostengono la Cina e la sua convinzione che le controversie vadano risolte attraverso negoziati e non con l’arbitrato. Il resto del mondo è ‘neutrale’. È possibile negoziare un buon accordo con la Cina. Ma si deve avvicinare il drago cinese da amico, non da nemico. E la mano della pace va tesa onestamente. Non dovrebbe mai essere nascosta la spada dell’imperialismo occidentale dietro la schiena!
Andre Vltchek New Eastern Outlook 24/07/2016
Andre Vltchek è filosofo, scrittore, regista e giornalista investigativo, ideatore di World Vltchek, applicazione Twitter, per la rivista on-line “New Eastern Outlook“.
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
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