“...l'obbedienza non è ormai più una virtù,
ma la più subdola delle tentazioni...”
(don Lorenzo Milani)
Secondo
i miti giudaici ed ellenici, la storia dell'uomo è stata inaugurata da
un atto di disobbedienza. Adamo ed Eva, che abitavano nel paradiso
terrestre, erano parte integrante della natura; vivevano con essa in
armonia, e tuttavia la trascendevano. Stavano dentro la natura così come
il feto sta dentro l'utero della madre. Erano umani, e in pari tempo
non lo erano ancora. Tale condizione mutò allorché essi disobbedirono a
un ordine.
Il
loro atto di disobbedienza ha scisso il legame originario con la natura
e li ha resi individui. Il “peccato originale”, lungi dal corrompere
l'uomo, lo ha anzi reso libero; è stato esso l'inizio della storia.
L'uomo ha dovuto abbandonare il paradiso terrestre per imparare a
dipendere dalle proprie forze e diventare pienamente umano.
Con
il loro messianismo, i profeti hanno fornito la conferma all'idea che
l'uomo aveva il diritto di disobbedire e che, lungi dall'essere stato
corrotto dal suo “peccato”, commettendolo si è affrancato dai legami
dell'armonia preumana. Per i profeti, la storia è il luogo in cui l'uomo
diventa umano; nel corso del divenire storico, l'uomo sviluppa le
proprie facoltà razionali e la capacità di amare, fino a creare una
nuova armonia tra se stesso, i suoi simili e la natura.
Questa
nuova armonia è designata dai profeti con il nome di “fine dei tempi”,
intendendo con questo l'era storica in cui ci sarà pace tra uomo e uomo e
tra uomo e natura. Si tratta di un “nuovo” paradiso creato dall'uomo
stesso, e che l'uomo soltanto può creare perché è stato costretto ad
abbandonare l'“antico” paradiso in seguito alla sua disobbedienza.
Esattamente
come il mito giudaico di Adamo ed Eva, quello ellenico di Prometeo
concepisce la civiltà umana basata tutta quanta su un atto di
disobbedienza. Rubando il fuoco agli dèi, Prometeo pone le fondamenta
dell'evoluzione umana. Non ci sarebbe storia umana senza il “delitto” di
Prometeo. Il quale, al pari di Adamo ed Eva, è punito per la sua
disobbedienza; ma Prometeo non si pente, non chiede perdono. Al
contrario, afferma orgogliosamente di preferire “essere incatenato a
questa roccia che non il servo obbediente degli dèi”.
L'uomo
ha continuato a evolversi mediante atti di disobbedienza. Non soltanto
il suo sviluppo spirituale è stato reso possibile dal fatto che nostri
simili hanno osato dire “no” ai poteri in atto in nome della propria
coscienza o della propria fede, ma anche il suo sviluppo intellettuale è
dipeso dalla capacità di disobbedire: disobbedire alle autorità che
tentassero di reprimere nuove idee e all'autorità di credenze
sussistenti da lungo tempo, e secondo le quali ogni cambiamento era
privo di senso.
Se
la capacità di disobbedire ha segnato l'inizio della storia umana, come
ho già detto può darsi benissimo che l'obbedienza ne provochi la fine. E
non sto parlando in termini simbolici o metaforici. Sussiste la
possibilità, e anzi la probabilità, che la razza umana distrugga la
civiltà e addirittura ogni forma di vita sulla terra già nei prossimi
cinque o dieci anni.
È
un evento dei tutto privo di razionalità e di senso, e tuttavia è un
fatto che, mentre sotto il profilo tecnico viviamo nell'era atomica, la
maggioranza degli esseri umani, compresi i detentori dei potere, vivono
ancora, a livello emozionale, nell'età della pietra; e che, mentre la
nostra matematica, la nostra astronomia, le nostre scienze naturali
appartengono al XX secolo, gran parte delle nostre concezioni della
politica, dello Stato, della società, sono ancora arretratissime
rispetto all'era della scienza.
Se
l'umanità si suiciderà, sarà perché si obbedirà a coloro che
ordineranno di premere i fatali bottoni; perché si obbedirà alle
arcaiche passioni della paura, dell'odio, della brama di possesso;
perché si obbedirà agli obsoleti cliché della sovranità statale e
dell'onore nazionale…
Non
voglio dire, con questo, che ogni disobbedienza è una virtù e ogni
obbedienza un vizio. Far propria un'opinione del genere significherebbe
ignorare il rapporto dialettico che intercorre tra obbedienza e
disobbedienza. Qualora i principi ai quali si obbedisce e quelli ai
quali si disobbedisce siano inconciliabili, un atto di obbedienza a un
principio costituirà di necessità un atto di disobbedienza al suo
opposto, e viceversa.
Antigone
costituisce l'esempio classico di questa dicotomia. Obbedendo alle
inumane leggi dello Stato, Antigone per forza di cose disobbedirebbe
alle leggi dell'umanità; obbedendo a queste, non può non disobbedire a
quelle. Tutti i martiri delle fedi religiose, della libertà e della
scienza hanno dovuto disobbedire a coloro che volevano imbavagliarli, se
volevano obbedire alla propria coscienza, alle leggi dell'umanità e
della ragione.
L'essere
umano capace solo di obbedire, e non di disobbedire, è uno schiavo; chi
sa soltanto disobbedire, e non obbedire, è un ribelle (non un
rivoluzionario): costui agisce mosso da collera, da delusione, da
risentimento, non già in nome di una convinzione o di un principio. Allo
scopo di evitare equivoci terminologici, va però fatta una precisazione
di grande importanza.
L'obbedienza
nei confronti di una persona, istituzione o potere (obbedienza
eteronoma) equivale a sottomissione; essa implica l'abdicazione alla
propria autonomia e l'accettazione di una volontà o di un giudizio
esterno in sostituzione dei propri. L'obbedienza alla propria ragione o
convinzione (obbedienza autonoma) è invece un atto di affermazione, non
di sottomissione.
La
mia convinzione e il mio giudizio, se sono autenticamente miei, sono
parte integrante di me stesso. Se li seguo anziché far mio il giudizio
di altri, sono e resto me stesso; ne consegue che la parola obbedire può
essere usata in questo caso soltanto in senso metaforico e con un
significato che è fondamentalmente diverso da quello dell'“obbedienza
eteronoma”.
Ma
questa differenziazione richiede a sua volta due ulteriori
precisazioni, una per quanto attiene al concetto di coscienza, l'altra
per quanto attiene al concetto di autorità. Il termine coscienza è
impiegato per designare due fenomeni diversissimi l'uno dall'altro. Uno è
la “coscienza autoritaria”, cioè la voce interiorizzata di un'autorità
che siamo bramosi di ingraziarci e alla quale temiamo di dispiacere.
È
con questa coscienza autoritaria che gran parte delle persone sono alle
prese quando obbediscono alla “propria” coscienza. Ed è anche quella di
cui parla Freud, e che viene detta “Super-io”. Il Super-io rappresenta
gli ordini e i divieti interiorizzati del padre, accettati dal figlio
per paura. Ben diversa dalla coscienza autoritaria è la “coscienza
umanistica”, che è la voce presente in ogni essere umano, indipendente
da sanzioni e ricompense esteriori.
La
“coscienza umanistica” si fonda sul fatto che, in quanto esseri umani,
noi abbiamo una cognizione intuitiva di ciò che è umano e di ciò che è
inumano, di ciò che favorisce la vita e di ciò che la distrugge. Questa
coscienza è indispensabile al nostro funzionamento di esseri umani; è la
voce che ci richiama a noi stessi, alla nostra umanità.
La
“coscienza autoritaria” (Super-io) è pur sempre obbedienza a un potere a
me estraneo, anche qualora tale potere sia stato interiorizzato. A
livello conscio, io ritengo di seguire la mia coscienza, mentre in
effetti ho “inghiottito” i principi dei potere; e proprio a causa
dell'illusione che coscienza umanistica e Super-io siano identici,
accade che l'autorità interiorizzata sia tanto più efficace
dell'autorità che è chiaramente sperimentata come parte di me stesso.
L'obbedienza
alla “coscienza autoritaria”, al pari di ogni obbedienza alle idee e al
potere esterni, tende a indebolire la “coscienza umanistica”, vale a
dire la capacità di essere e di giudicare se stessa. Tuttavia,
l'affermazione che l'obbedienza a un'altra persona è ipso facto
sottomissione, va a sua volta specificata, distinguendo autorità
“irrazionale” da autorità “razionale”.
Un
esempio di autorità razionale è dato dal rapporto tra allievo e
insegnante; un esempio di autorità irrazionale, dal rapporto tra schiavo
e padrone. Entrambi i rapporti si fondano sull'accettazione
dell'autorità di chi comanda. Ma sotto il profilo dinamico, essi sono di
natura diversa. Almeno idealmente, gli interessi dell’insegnante e
dell'allievo vanno nella stessa direzione. Il primo è soddisfatto se
riesce a far avanzare l'allievo; se non ci riesce, il fallimento è suo
oltre che dell'allievo.
Il
padrone di schiavi, al contrario, vuole sfruttare al massimo lo
schiavo; più ne ricava, e più è soddisfatto. Dal canto suo, lo schiavo
mira a difendere nel miglior modo possibile la sua aspirazione a un
minimo di felicità. Gli interessi dello schiavo e del padrone sono
antagonistici perché ciò che è vantaggioso per l'uno va a detrimento
dell'altro. La superiorità reciproca ha, nei due casi in esame, una
funzione differente; nel primo è la condizione dell'avanzamento della
persona assoggettata all'autorità; nel secondo è la condizione del suo
sfruttamento.
Parallela
a questa, si delinea una seconda distinzione: l'autorità razionale è
tale perché l'autorità, sia essa detenuta da un insegnante o dal
comandante di una nave che impartisca ordini in una situazione di
emergenza, agisce in nome della ragione la quale, essendo universale,
può essere accettata senza che si abbia sottomissione. L'autorità
irrazionale deve far ricorso alla forza o alla suggestione, perché
nessuno si lascerebbe sfruttare se fosse libero di impedirlo.
Perché
l'uomo è tanto proclive all'obbedienza e perché gli riesce tanto
difficile disobbedire? Finché obbedisco al potere dello Stato, della
Chiesa, dell'opinione pubblica, mi sento al sicuro e protetto. In
effetti, poco importa a quale potere obbedisco, trattandosi sempre di
un'istituzione o di esseri umani che fanno ricorso alla forza in una
qualche forma e che fraudolentemente si proclamano onniscienti e
onnipotenti.
La
mia obbedienza fa di me una parte del potere al quale mi inchino
reverente, e pertanto io mi sento forte. Non posso commettere errori dal
momento che è esso a decidere per me; non posso essere solo, perché il
potere vigila su di me; non posso incorrere in peccato, perché il potere
non me lo permette, e anche se peccato commettessi, la punizione non è
che il mezzo per far ritorno all'illimitato potere.
Per
disobbedire, bisogna avere il coraggio di essere solo, di errare e di
peccare. Ma il coraggio non basta. La capacità dei coraggio dipende dal
grado di sviluppo di una persona. Soltanto chi si sia sottratto al
grembo materno e agli ordini dei padre, soltanto chi si sia costituito
come individuo completamente sviluppato, e abbia così acquisito la
capacità di pensare e di sentire autonomamente, può avere il coraggio di
dire “no” al potere, di disobbedire.
Una
persona può diventare libera mediante atti di disobbedienza, imparando a
dire “no” al potere. Ma, se la capacità di disobbedire costituisce la
condizione della libertà, d'altro canto la libertà rappresenta la
capacità di disobbedire. Se ho paura della libertà, non posso osare di
dire “no”, non posso avere il coraggio di essere disobbediente. In
effetti, la libertà e la capacità di disobbedire sono inseparabili, e ne
consegue che ogni sistema sociale, politico e religioso che proclami la
libertà, ma che bandisca la disobbedienza, non può dire la verità.
C'è
un altro motivo per cui è tanto difficile osare disobbedire, opporre un
“no” al potere. Durante gran parte della storia umana, l'obbedienza è
stata equiparata a virtù e la disobbedienza a peccato, e ciò per una
semplicissima ragione: così facendo, durante gran parte della storia una
minoranza ha dominato la maggioranza. Il dominio in questione era reso
necessario dal fatto che solo per pochi le buone cose della vita erano
bastanti, e ai molti restavano unicamente le briciole.
Se
i primi volevano godersi le buone cose e inoltre avere al proprio
servizio i molti, facendoli lavorare a proprio beneficio, una condizione
era imprescindibile: i molti dovevano imparare l’obbedienza. Certo,
questa può essere imposta mediante la mera forza, ma si tratta di un
metodo che presenta molti svantaggi, in quanto comporta la costante
minaccia che prima o poi i molti trovino la maniera di rovesciare i
pochi con la forza.
Inoltre,
ci sono attività di vario genere che non possono essere eseguite a
dovere se dietro l'obbedienza non c'è che paura. Sicché, l'obbedienza
radicata unicamente nel timore della forza deve essere trasformata in
un'obbedienza che abbia radici nel cuore. L'essere umano deve voler
obbedire, e anzi sentire la necessità di farlo, invece di avere soltanto
paura di disobbedire. Perché questo sia possibile, il potere deve
assumere le qualità della Bontà Assoluta, della Sapienza Assoluta; deve
diventare Onnisciente.
E
se questo si verifica, il potere può proclamare che la disobbedienza è
peccato e l'obbedienza virtù; e una volta che l'abbia fatto, i molti
possono accettare l'obbedienza perché è un bene, e detestare la
disobbedienza perché è un male, anziché odiare se stessi per il fatto di
essere vigliacchi. Da Lutero fino al XIX secolo, ci sì è trovati alle
prese con autorità dichiarate, esplicite.
Lutero,
il papa, i principi desideravano mantenere il potere, la classe media, i
lavoratori, i filosofi, miravano ad abbatterlo. La lotta contro
l'autorità in seno allo Stato e alla famiglia costituiva sovente la base
stessa dello sviluppo di una personalità indipendente e audace,
trattandosi di una lotta che era inseparabile dall'atteggiamento
intellettuale che caratterizzava i filosofi dell'Illuminismo e gli
scienziati.
Tale
“atteggiamento critico” aveva a fondamento la fede nella ragione, ma
era anche, in pari tempo, un atteggiamento di dubbio nei confronti di
tutto ciò che veniva detto o pensato, in quanto basato sulla tradizione,
sulla superstizione, sulla costumanza, sul potere…
Il
caso di Adolf Eichmann è simbolico della nostra situazione, e ha un
significato che trascende di gran lunga quello di cui si sono occupati i
rappresentanti dell'accusa al tribunale di Gerusalemme. Eichmann è un
simbolo dell'individuo inserito in un'organizzazione, del burocrate
alienato agli occhi del quale uomini, donne e bambini sono divenuti
numeri. È un simbolo di tutti noi: in Eichmann possiamo vederci
riflessi.
Ma
la cosa più spaventosa in lui fu che, una volta chiarita l'intera
vicenda alla luce delle sue stesse ammissioni, in perfetta buona fede
Eichmann ha potuto proclamarsi innocente, ed è evidente che, se si
ritrovasse nella stessa situazione, lo rifarebbe. E lo stesso faremmo
noi: lo stesso facciamo noi.
(Erich Fromm, La disobbedienza e altri saggi, Arnoldo Mondadori Ed.)
fonte: http://lacompagniadeglierranti.blogspot.it/2017/05/lobbedienza-e-una-virtu.html
Nessun commento:
Posta un commento