Fu naturale e doveroso che il mondo reagisse contro
quei barbari che anche già avevano dimostrato la loro lontananza dal
comune sentire civile distruggendo monumenti plurisecolari e patrimonio
dell’umanità solo perché non corrispondenti alla loro visione di ciò che
significasse l’Islam. Il consenso alla guerra, partecipata con proprie
truppe da molti Paesi, fu generalizzato e, d’altra parte, il governo
talebano era all’epoca riconosciuto solamente dal Pakistan.
Purtroppo,
nel decidere l’offensiva militare mancò la contemporanea valutazione di
molti altri fattori, tra cui la negativa esperienza avuta dall’Unione
Sovietica che, dopo anni di guerra, sacrifici di vite umane e tanti
soldi spesi si era dovuta ritirare abbandonando, di fatto, il Paese
nelle mani di fanatici integralisti. Era mancata allora ai sovietici la
stessa cosa che non fecero la Nato e i suoi alleati e cioè una
valutazione sull’impatto culturale di un intervento straniero, la presa
d’atto dell’endemica conflittualità tribale del posto e l’analisi
dell’organizzazione economica del Paese, in buona parte dipendente dalla
coltivazione del papavero da oppio.
Con la fine del
2014 è formalmente scaduto il mandato della missione Nato e l’idea che
tanti hanno è che i militari ivi impegnati sarebbero tornati a casa. In
realtà, leggendo con attenzione le decisioni prese, si sa che così non
è. Il ritiro delle truppe avverrà gradualmente e, pur se si parla della
fine 2016, non c’è alcuna certezza su quando l’ultimo soldato straniero
lascerà il territorio afgano.
Nonostante le retoriche
dichiarazioni ufficiali in occasione della formale chiusura della
missione abbiano enfatizzato i successi ottenuti e plaudito alla
raggiunta autosufficienza del Governo e delle forze militari e di
polizia locale, tutti sappiamo che le cose non stanno per nulla in quei
termini. Infatti, è esattamente quello il motivo per cui più di 12.000
soldati stranieri rimarranno ancora sul posto.
Se
guardiamo con obiettività ai risultati della missione ISEF, siamo
costretti ad ammettere che siamo molto lontani dal raggiungimento degli
obiettivi programmati. Il governo talebano è stato indubbiamente
sconfitto e alcune elezioni sufficientemente libere si sono tenute nel
Paese ma dire che la situazione si sia stabilizzata e che la pace sia
stata instaurata non corrisponde certo alla verità.
Il
Paese è ancora preda di cruente lotte fra tribù, etnie e potentati
locali. L’economia è solo sembrata risollevarsi ma, con assoluta
evidenza, i soldi che sono girati erano legati soprattutto ai servizi
destinati ai militari dell’ISAF. L a riduzione del numero di costoro ha,
infatti, già portato a un crollo del volume di denaro circolante. La
produzione di oppio (d’altronde, paradossalmente, giudicata un obiettivo
non prioritario dalla missione internazionale) continua a essere la
base di molta economia locale ed è destinata ad aumentare.
Le numerose
materie prime del sottosuolo, anche a causa della continuazione dei
conflitti, non sono per niente sfruttate. Qualcuno vanta che dal 2001 a
oggi il PIL locale sia quintuplicato ma, a parte l’influenza delle
truppe straniere, è sotto gli occhi di tutti che almeno un terzo della
popolazione ha condizioni di vita sotto al limite di sopravvivenza e
perfino sotto i livelli di prima dell’intervento. Non solo, moltissimi
dei soldi arrivati sono finiti nella corruzione e i pochi ricchi ne
hanno approfittato per trasferire in sicure banche estere gran parte
delle illecite somme accumulate.
Nonostante gli Stati
Uniti abbiano speso in Afganistan 700 miliardi di dollari, la Banca
Mondiale ha stimato che solo un massimo del 25% (ma qualcuno parla del
15%) del denaro arrivato a Kabul sia finito virtuosamente, in qualche
modo, nel circolo dell’economia locale. E’ vero che sono stati costruiti
qualche ospedale, qualche scuola, qualche nuova via di comunicazione,
ma è pure vero che, nonostante rari e virtuosi esempi, la condizione di
vita delle donne, dei bambini, e la praticabilità di una morale non
fanatica stanno lentamente ritornando a essere quella del periodo
talebano.
A tutto quanto sopra va aggiunto il grande
rischio che, con la diminuzione dell’impegno internazionale e il minore
presidio militare del territorio, possa capitare qualcosa di simile a
ciò che successe a Kabul dopo il ritiro delle truppe sovietiche: un
Governo locale debolissimo e ben presto moribondo, succube o soppiantato
dai signori della guerra tornati a spadroneggiare.
Quali
conclusioni trarne? Probabilmente l’intervento andava comunque fatto
ma, mancando la capacità di lettura culturale e storica delle
peculiarità locali, si corre il rischio di aver costruito una
costosissima, in vite umane e in denaro, parentesi. Per poi far
ritornare tutto peggio di prima.
Qualcuno starà pensando alla Libia?
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