lunedì 27 marzo 2017

La militarizzazione della penisola coreana destabilizza l’Asia


Il protagonista principale di questa politica sono gli Stati Uniti. Con le sue provocazioni, Washington cerca d’iniziare un conflitto e coinvolgervi non solo la Corea democratica, ma anche la Cina.

Teste di ponte di Washington
Il fatto che la regione Asia-Pacifico, in particolare l’Asia orientale, sia una delle principali direttrici della politica estera della nuova amministrazione degli Stati Uniti, è noto da molto prima della nomina ufficiale di Donald Trump. In primo luogo, la squadra del futuro presidente degli Stati Uniti inviò un segnale negativo a Pechino, stabilendo contatti con le autorità di Taiwan. Poi Washington chiarì che non avrebbe abbandonato l’alleanza con Giappone e Corea del Sud. Gli Stati Uniti iniziarono la marcia forzata della militarizzazione di questi Paesi per consolidarne lo status di “portaerei inaffondabili” di Washington.

Il calendario di incontri e visite di alti funzionari degli Stati Uniti è significativo. Il primo dei leader mondiali ad incontrare Trump dopo la sua elezione fu il Primo ministro del Giappone Shinzo Abe. Il capo del governo giapponese si affrettò a fare una visita ufficiale negli Stati Uniti a febbraio. Durante la visita fece delle dichiarazioni importanti. Secondo Trump, Washington è al “100% dedita all’alleanza con il Giappone”, e non ha intenzione di rivedere l’accordo di cooperazione e mutua sicurezza firmato nel 1960. 

L’accordo sulla difesa collettiva, tra le altre cose, autorizza il soggiorno nel Paese di un contingente di 54000 soldati degli USA. Inoltre, come sottolineato da Trump, l’accordo riguarda anche le isole Senkaku (Diaoyu), una sfida diretta alla Cina che le considera suo territorio. Inoltre, Trump e Abe avvertirono Pechino dall’aumentare l’attività nel Mar Cinese Meridionale, nascondendo la loro solita interferenza con le lacrime di coccodrillo sulla “violazione della libertà di navigazione e di volo”. 

Pochi giorni dopo. le portaerei dell’US Navy entrarono nella zona. Il loro comandante, contrammiraglio James Kilby, disse apertamente che lo scopo dell’azione era una “prova di forza”. E’ ovvio che senza la crisi politica in Corea del Sud (il 9 dicembre la presidentessa Park Geun-hye è stata deposta per corruzione), la leadership del Paese sarebbe stata pronta ad omaggiare il boss d’oltremare. 

Così Tokyo e Seoul, nel sistema “mondiale degli Stati Uniti”, continuano ad occupare un posto speciale, e la minaccia di Trump di ridurre il costo delle presenza era pura demagogia preelettorale. 

Lo dimostrano le visite in Corea del Sud e Giappone del nuovo segretario alla Difesa James Mattis, facendovi i suoi primi viaggi all’estero. Il capo del Pentagono ribadiva le dichiarazioni di Trump sull’inviolabilità della cooperazione militare e politica con tali Paesi. Passi concreti seguirono presto. Ai primi di febbraio, nelle Hawaii si ebbe il test congiunto USA-Giappone dei missili intercettori SM-3. 

Allo stesso tempo, gli Stati Uniti inviarono 10 nuovi F-35B sulla base aerea di Iwakuni, nell’isola di Honshu. Prima della fine dell’anno vi saranno trasferite le unità della portaerei nucleare Ronald Reagan; sessanta aerei. Il Giappone sviluppa la propria produzione militare. Secondo il programma adottato, ogni anno costruirà due cacciatorpediniere dal dislocamento di 3000 tonnellate. Il Paese non nasconde che le nuove navi pattuglieranno il Mar Cinese Orientale, cioè “contenere” la Cina

L’aggressore non è chi pensiamo
La militarizzazione della Corea del Sud è anche maggiore. Per farlo hanno trovato un comodo alibi: il programma missilistico e nucleare della Corea democratica. Gli sforzi occidentali per demonizzare Pyongyang non sono stati vani: quasi tutti ripetono che il “regime nordcoreano è aggressivo”, e che presumibilmente aspetta solo il momento giusto per lanciare i suoi missili nucleari. Ad esempio citando il test dell’anno scorso, così come lanci di missili balistici. 

L’ultimo avveniva il 12 febbraio, quando fu lanciato un missile “Pukkykson-2” (“Stella Polare-2”). L’ira di Stati Uniti ed alleati fu causata non solo dal fatto che il test avvenne al momento della visita di Shinzo Abe a Washington, ma che dimostrava anche le nuove capacità della Corea democratica. Il missile fu lanciato da un’unità mobile ed era dotato di un motore a combustibile solido, complicandone l’intercettazione dal nemico. 

In risposta, contro il Paese furono imposte severe sanzioni, tra cui divieto d’importare minerali dalla Corea democratica, embargo sulla fornitura di carburante per aerei e anche ispezione di tutte le merci che entrano nel Paese. Purtroppo, la Russia vi ha aderito, mentre soffre restrizioni inique. Alla fine di febbraio, il Ministero degli Esteri russo preparava un progetto di decreto presidenziale sull’ulteriore inasprimento delle sanzioni. 

Il documento prevede la fine della cooperazione scientifica e tecnica con Pyongyang, e vieta la fornitura di rame, nichel e altri metalli, e così via. In altre parole, Mosca ha accettato le regole imposte. Ma sono giuste? La politica verso la Corea democratica è un esempio lampante dello stigma dell’anatema. La Corea democratica è stigmatizzata unanimemente per dei peccati che non ha commesso, e chi grida più forte non è giudice esente da qualsiasi crimine. Per dieci anni, questo Paese non ha commesso alcuna aggressione, e tutte le prove vengono effettuate sul proprio territorio. A differenza degli Stati Uniti, che hanno trasformato Libia, Iraq, Afghanistan, Siria e molti altri Stati in poligoni sanguinosi per le loro armi. 

Pyongyang ha apertamente detto che il programma nucleare e missilistico serve a garantire la sovranità del Paese. Contrariamente alla credenza popolare, la Corea democratica non brandisce il “manganello nucleare” e valuta la possibilità di utilizzare l’arsenale solo se attaccata. Nel frattempo, la leadership nordcoreana non esclude il congelamento completo dei test, indisponendo l’occidente. Al settimo Congresso del Partito dei Lavoratori dello scorso anno, la possibilità di una moratoria fu avanzata. In cambio Pyongyang chiese solo una cosa: la fine delle grandi esercitazioni in prossimità della linea demilitarizzata. 

Le regolari esercitazioni militari di Seoul e Washington sono un fatto spesso trascurato. È un grave errore, perché non sono in realtà semplici manovre, ma piuttosto una mobilitazione completa e una concentrazione di forze nelle immediate vicinanze del territorio della Corea democratica. Ad esempio, nelle manovre Key Resolve dello scorso anno parteciparono 300000 soldati coreani e 15000 degli Stati Uniti. Altre esercitazioni, Ulchi Freedom Guardian, ricordavano a Pyongyang i terribili giorni della guerra di Corea: giunsero sulle penisola i soldati di 9 Paesi, protagonisti della coalizione filo-USA del 1950-1953. 

Per comprendere la natura aggressiva di tali manovre, basta elencarne gli obiettivi: attacco nucleare preventivo sulla Corea democratica, sbarco a Pyongyang e distruzione della leadership nordcoreana e, infine, occupazione totale del Paese. In realtà, più volte l’anno in Corea del Sud si svolgono le prove generali per l’invasione del Nord. A tal proposito, la posizione della RPDC, che denuncia le manovre come ragione principale delle tensioni nella penisola, è pienamente giustificata. 

Chi parla di “aggressione di Pyongyang” ha volutamente invertito il rapporto tra causa ed effetto. Nel 2014-2015, la leadership della Corea democratica chiese più volte a Seoul di riprendere il dialogo per la pace e riavviare il processo di creazione della Confederazione coreana unificata, idea già avanzata da Kim Il Sung. Tuttavia, il governo di destra di Park Geun-hye respinse queste iniziative, ammettendo solo una variante della riunificazione: l’assorbimento del Nord dal Sud sull’esempio della RFT con la RDT. Il contingente statunitense in Corea del Sud fu rafforzato e le esercitazioni congiunte assunsero un peso ancora maggiore. Solo dopo Pyongyang riprese i test nucleari e missilistici.

Grandi e piccole provocazioni
L’ultima serie di lanci di missili è anche una risposta ai passi apertamente ostili di Seoul e Washington. Il Ministero della Difesa della Corea del Sud annunciava un piano per la “punizione di massa e la vendetta” con cui Pyongyang “sarà incenerita scomparendo dalla carta geografica” al minimo “segno di uso di armi nucleari”. I criteri per definire questo “segno” non sono specificati nel documento. Tuttavia, Seoul annunciava la creazione di un’unità speciale per la distruzione fisica della leadership politica e militare della Corea democratica, tra cui Kim Jong-un. 

Come notato, in caso di ostilità, questo compito sarà realizzato da subito, qualunque sia il “danno collaterale” per la popolazione civile della Corea democratica. La nuova amministrazione statunitense si esprime con lo stesso tono. Chiamando la Corea democratica “grave minaccia per la sicurezza regionale e globale”, il segretario di Stato degli USA Rex Tillerson ha detto di preparare una nuova strategia nei rapporti con Pyongyang. 

Secondo lui, vanno considerare tutte le opzioni senza escludere l’uso della forza militare contro la Corea democratica. Era sostenuto dal comandante delle forze USA in Corea del Sud Vincent Brooks, che invitava a rafforzare le capacità d’attacco sullo Stato confinante. “La difesa convenzionale qui è inadeguata. Se non possiamo uccidere gli arcieri, allora non potremo intercettare tutte le frecce“, aveva detto pittorescamente. In tale contesto, l’invio di armi in Corea del Sud si è notevolmente intensificato. 24 elicotteri d’attacco “Apache” sono stati assegnati alla base statunitense di Suwon. Altri 36 sono stati aggiunti all’aeronautica del Paese. Secondo Seoul, gli elicotteri saranno trasferiti sulle isole Yeonpyeong e Baengnyeong, a 12 chilometri dalle coste della Corea democratica. 

Non c’è migliore provocazione: dopo la fine della guerra di Corea, il confine marittimo tra i due Paesi non fu deciso e Pyongyang contesta la proprietà delle isole. Inoltre, durante la visita di Mattis, fu confermata la volontà d’installare il sistema antimissile THAAD prima della fine dell’anno. La loro gestione sarà assegnata esclusivamente ai militari degli Stati Uniti, e Seoul non avrà accesso neanche ai dati radar. Così, la Corea e presto il Giappone, saranno collegati al sistema di difesa missilistica globale creato dagli Stati Uniti per isolare Cina, Russia e Iran. 

Ma questa è solo una parte della militarizzazione. Per partecipare all’avvio delle esercitazioni di marzo Key Resolve e Foal Eagle arriveranno in Corea del Sud armi strategiche, come sottomarini nucleari, aerei da combattimento F-22, bombardieri strategici e uno squadrone guidato dalla portaerei nucleare Carl Vinson. Come già detto a Washington e Seoul, le manovre sono di dimensioni senza precedenti. Inoltre, saranno l’occasione per insediare permanentemente armi strategiche in Corea del Sud. Il Capo di Stato Maggiore Lee Sung-jin ha già presentato una richiesta in tal senso agli Stati Uniti.

Provocando la reazione della Corea democratica, Washington cerca di rafforzare la sua posizione nella regione. In tale contesto, l’assai misteriosa morte di Kim Jong-nam merita una particolare attenzione. Il fratellastro del leader nordcoreano ha vissuto per molti anni fuori dal Paese, conducendo una vita dissoluta e guadagnandosi da vivere facendo “rivelazioni” sul regime della Corea democratica. 16 anni dopo aver lasciato la Corea democratica, Kim Jong-nam fu ucciso nell’aeroporto di Kuala Lumpur (Malesia). 

La domanda sorge spontanea: a chi giova? Non certo alla leadership della Corea democratica, già sotto estrema pressione da molti anni. Ma le forze interessate a destabilizzare l’est asiatico, con l’assassinio di Kim Jong-nam, hanno un’occasione d’oro per nuovi attacchi contro Pyongyang. 

Non meraviglia che, subito dopo le prime notizie dell’attentato, Seoul, attraverso il presidente ad interim Hwan Ahnkyo, accusasse la Corea democratica, esortandola a punirla severamente in quanto “Stato terrorista”? Ciò che appare come una provocazione deliberata è la versione ufficiale, secondo cui Kim Jong-nam fu ucciso con veleno VX, bandito dalla Convenzione sulla proibizione delle armi chimiche. 

Ora la Corea democratica sarà certamente accusata non solo di omicidio, ma anche di usare armi chimiche. E’ chiaro che tali eventi rientrano nello scenario per destabilizzare la regione. E la Corea democratica non è l’unico obiettivo.

Sergej Kozhemjakin, Pravda, 10/03/2017 – Histoire et Societé

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
https://aurorasito.wordpress.com/2017/03/24/la-militarizzazione-della-penisola-coreana-destabilizza-lasia/

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