Il termine “Dhamma” non si può tradurre adeguatamente. È una parola profonda. È un concetto che non esiste nella lingua inglese. Tutt’al più possiamo renderlo con “la verità delle cose come sono”. “Rifugiarsi nella verità delle cose come sono” suona un po’ strano, vero? Per lo meno a me, dire: “Mi rifugio nella verità delle cose come sono” suona strano. E poi voglio sapere: “Come sono? Dimmi come sono le cose!”.
Ma non ve lo devo dire io! Potete vederlo da soli. Vi giro la domanda. Svegliatevi e osservate, invece di chiederlo a me. D’altro canto potrebbe interessarvi il modo in cui dovrebbero essere. Forse siete stati in ritiro in altri posti o con altri insegnanti e avete un modello di come dovrebbe essere un ritiro di meditazione. Potreste venirmi a dire: “Achaan Sumedho, credo che dovresti...”. Forse il vostro modello di un ritiro di meditazione è diverso dall’esperienza che fate qui. Ma anche questo può essere osservato, non dico che il nostro modello sia il migliore in assoluto o che non ci siano altre possibilità che valga la pena esplorare. Non ci interessa convincere o convertire. Quindi in un ritiro le circostanze fastidiose, irritanti o frustranti sono parte dell’esperienza; ci risvegliamo alle cose come sono, invece di rifarci a un’ideale di come dovrebbero essere.
Tornando al concetto di anattā o non sé: personalmente è uno di quelli che ho trovato più ostici. Il concetto di aniccā mi sembrava chiarissimo. Se sostenete a lungo l’attenzione, noterete che tutto cambia, non è difficile riconoscerlo. Ma nel caso di anattā, mi pare che se c’è qualcosa di reale, qui, sono io! Io sono la persona che è seduta qui e prova certe sensazioni, sono questo corpo. Debbo viverci insieme, perciò deve essere mio; deve per forza succedere a me. Sembra un fatto scontato.
Potremmo concludere che il “non sé” sia un assunto dottrinale e credere di doverci disfare del nostro sé. Trasformarci in una non persona, una non personalità. Sul piano concettuale, che senso avrebbe? Riuscite ad immaginare di non avere una personalità? Nulla di nulla... sarebbe come essere mezzi morti! Ogni opinione personale, ogni sentimento personale, sarebbe da respingere. Ma non si tratta di questo. Non è l’annientamento del sé. È vedere che il sé a cui tendiamo ad aggrapparci è una nostra creazione. Siamo gli artefici di noi stessi. Grazie alla consapevolezza cominciamo ad accorgercene. Comincio a notare come creo me stesso in quanto persona. Per semplice abitudine, perché non mi sveglio, perché sono prigioniero di pensieri ricorrenti, abitudini emotive e identità che non esamino mai, e tanto meno metto in discussione.
Con sati-sampajañña cominciamo a notare in cosa consista il senso del “me” e del “mio”. Siamo dotati di soggettività, sentiamo di essere consapevoli. Tutti voi siete oggetti, in termini di momento presente, in termini di coscienza visiva; siete oggetti nella mia coscienza. Eppure, sul piano convenzionale non lo ammetteremmo. Crediamo di essere un gruppo di persone che partecipa a un ritiro di meditazione e tendiamo a vedere il tutto da un punto di vista molto convenzionale. Ma se includo anche questo nella consapevolezza, in realtà voi siete nella mia coscienza. Il mio volto non posso vederlo, ma posso vedere il vostro! Sembra scontato, ma merita un approfondimento. Il mio occhio destro non può vedere l’occhio sinistro, neppure se li incrocio! Però posso vedere i vostri occhi; ora sto riflettendo, osservando le cose come sono. Quanti di voi in questo momento si rendono conto di non poter vedere il proprio volto? Potreste mettervi di fronte a uno specchio: “Certo che lo vedo!”. Ma è solo un riflesso, vi pare? Non è il vostro volto; è un riflesso nello specchio. Sul piano convenzionale lo diamo per buono; quando vogliamo raderci usiamo uno specchio, e il riflesso ci serve a non mozzarci il naso o tagliarci. Sembra ovvio e scontato; eppure, quanti di voi hanno mai pensato in questi termini?
Di solito ci basiamo su un senso del sé condizionato, su ciò che si definisce sakkāya-diṭṭhi, il concetto di personalità. Il termine pāli sakkāya-diṭṭhi, che si traduce con “io”, “concetto di sé” o “concetto di personalità”, denota l’idea di essere una persona separata che si identifica con il corpo, i pensieri e i ricordi, ossia un’abitudine. Quindi possiamo chiederci: è veramente me? Lo scopo non è quello di confutarne l’esistenza per attestarci sulla posizione opposta, ma svegliarci e osservare le cose come sono. L’anattā è una caratteristica dell’esistenza. Non è una qualità o una posizione dottrinaria, e non è una credenza nichilista.
In più, il termine pāli nibbāna viene spesso tradotto come “estinzione”. La prima volta che incontrai la definizione nella letteratura theravāda, che l’obiettivo è “estinguersi”, la lessi in chiave nichilistica: estinguere vuol dire annientare, vero? All’epoca, interpretavo “estinzione” come estinzione totale, oblio. Perché il condizionamento culturale della mente era quello, e il termine “estinzione” significa estinguere nel senso di disfarsi o annientare. Perciò, se ci chiedono di spiegare cosa significa “nibbāna”, rispondiamo: “Significa estinzione. La nostra pratica consiste principalmente nell’estinguere, nel diventare estinti”. Il che non suscita particolare entusiasmo.
Perciò, cosa vuol dire nibbāna in realtà? Nei paesi buddhisti viene spesso elevato al rango di un conseguimento particolarmente elevato. In Thailandia se ne sente parlare come fosse un’esperienza sublime. Nella nostra lingua è divenuto un superlativo, una sottospecie di paradiso: “Ero al settimo cielo, ho raggiunto il nirvana”. Il Buddha non parlava di uno stato elevato, ma di uno stato di risveglio. Lo stato risvegliato è una condizione naturale dell’essere che tutti possiamo conoscere se prestiamo attenzione, se osserviamo le cose come sono, se le osserviamo in termini di Dhamma. Con le convenzioni religiose succede spesso; restano sul piano intellettuale, si congelano in una struttura dualistica. Quindi Dio e Satana sono inconciliabili. Ricordo che a un certo punto della mia educazione cristiana chiesi: “Ma allora anche Satana è una specie di Dio?”. Mia madre rispose di no. Per cui domandai: “Se Dio ha creato tutto, perché ha creato Satana?”. Mia madre disse: “Satana ha disubbidito a Dio, ed è finito all’inferno!”. La risposta non mi parve soddisfacente. Ecco cosa si fa con la mente, quando il pensiero resta bloccato su un percorso lineare.
Ecco perché continuo a insistere sulla natura del pensiero, sulla natura del pensare. È una funzione che abbiamo, per cui un pensiero fa seguito all’altro. Penso: “Sono Achaan Sumedho, un monaco buddhista”, e poi mi faccio prendere la mano, raccontandovi tutto del mio passato e i miei progetti per il futuro... la mente vagabonda. Finché restiamo sul piano del concetti e delle convenzioni, anche se funzionale, non possiamo liberarci, perché le convenzioni sono condizionate, sono create e dipendono dal linguaggio. Perciò, invece di cercare la traduzione perfetta di “sati-sampajañña”, invece di passare la vita a tentare di definirla, usatela. È qualcosa da usare qui e ora. Non è qualcosa da ricercare altrove. Se la definite troppo, rischiate di farvi ossessionare dai concetti o dalle vostre definizioni, sforzandovi di diventare come credete che debba essere.
Quindi sati, la presenza mentale, non è come un pensiero, o qualcosa che va prodotto o raggiunto esercitando il controllo sulle condizioni... si tratta semplicemente di usarla. Essere svegli, osservare, ascoltare; vigilanza, apertura. Quando mi metto in condizione di osservare il processo del pensiero posso scegliere di pensare deliberatamente, posso pensare in modo molto positivo. In passato mi sono cimentato nella coltivazione dei pensieri positivi. Tutto è amore e bene, benevolenza e compassione, guardo tutto dal lato positivo. Oppure, praticare la mettā sul piano concettuale, senza lasciar emergere alla coscienza pensieri negativi. Insisto a concentrarmi su concetti positivi e di conseguenza mi sento benissimo... potere del pensiero positivo. Era un best-seller di Norman Vincent Peale, nell’America degli anni quaranta. Tutti compravano “The Power of Positive Thinking”.
Non c’è dubbio che pensare positivamente sia una buona idea. Non lo condanno e non lo metto in ridicolo. Se penso sempre in maniera molto positiva, la mia vita diventa più felice e sarò incline a un maggiore ottimismo. Mette di buon umore e porta all’euforia, all’esaltazione. Ma il problema è che per continuare a stare bene devi mantenere a tutti i costi un atteggiamento ottimista. Per sostenere l’illusione di felicità che deriva dal pensare positivamente devi tenere a bada il dubbio, lo scetticismo e i concetti negativi. Non appena prendi coscienza di quel gesto di positività compulsiva, smetti di prenderti in giro.
Ora applicate lo stesso principio ai pensieri negativi: “La vita non ha scopo. È tutta una farsa, la gente è marcia, non c’è una persona onesta a questo mondo. Le religioni sono tutte false, i politici sono corrotti... mia madre mi ha messo al mondo solo per egoismo e avidità, per sfogare la sua libidine...”. E il risultato? Mi deprimo: “A che serve vivere? È solo una perdita di tempo!”. Ci si può infognare nella depressione. Farlo intenzionalmente è un modo per riflettere con consapevolezza sulla natura delle cose: si può alimentare la positività o la negatività. I pensieri positivi producono felicità, quelli negativi infelicità. Pensare in positivo è il paradiso, pensare in negativo è l’inferno.
Ciò che è consapevole del positivo e del negativo, la consapevolezza, non si schiera, non giudica. Si limita a notare le cose come sono, la reale natura dell’esperienza che accade nel momento presente. Quindi, se la meditazione buddhista fosse solo un’esperienza piacevole, certamente potrebbe avere i suoi vantaggi, ma quando le condizioni non si prestassero più a rinforzare le opinioni ottimistiche, crollereste. Ci si può infuriare, si può finire all’inferno, quando le condizioni e la gente che ci circonda non rinforzano la positività. Osservando il fenomeno, si comincia a prendere atto che c’è solo questa funzione dualistica del pensiero, positivo o negativo che sia. È una costruzione, una convenzione.
Perciò, come usare il pensiero, invece di farsi coinvolgere dal processo discorsivo senza alcuna prospettiva sul pensiero? Il pensiero diventa abituale e facilmente ci si perde nei pensieri. Allora si può pensare intenzionalmente, ascoltarsi mentre si pensa. Per farlo occorre sati-sampajañña. È un abile mezzo per essere consapevoli del pensiero invece di restarne coinvolti. Di solito, se non siamo consapevoli diventiamo i nostri pensieri. Ecco perché consiglio di pensare intenzionalmente, per non mettersi a pensare ai pensieri. Abbiamo una tendenza a farci un’idea del non pensare e a pensarci sopra, o a pensare ai pensieri, o a speculare sull’anattā e sul nibbāna, senza mai uscire dalla trappola dei nostri pensieri; finché non cominciamo a osservare il pensiero. Come si osserva il pensiero nella propria mente?
In questo momento noto che, per pensare intenzionalmente, formulo un proposito: “Adesso mi metto a pensare”. Poi ascolto. È possibile udire i propri pensieri; o almeno, io posso farlo. Mi ascolto parlare. Poi posso dire: “Sono un essere umano”. Non è un pensiero entusiasmante... non mi fa cadere in estasi e non mi deprime. È un’affermazione neutra, diciamo così, un dato di fatto. Ora stiamo osservando il pensiero nella posizione della sati-paññā, la coscienza risvegliata che osserva. Stiamo iniziando a riconoscere di non essere un pensiero, di non essere affatto ciò che pensiamo. Gran parte del nostro pensiero consiste di abitudini acquisite, e il nostro senso del sé, del valore personale, deriva dalle esperienze di vita, dalla cultura e dalla società: dalla famiglia, dal sistema educativo, dal condizionamento etnico, dal condizionamento religioso.
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La consapevolezza è la via d’uscita dalla sofferenza, l’accesso al senza morte. E non è una creazione, né una qualità personale. Praticando, investigando, cominciate a prendere le distanze dal linguaggio e dal pensiero notandoli come oggetti mentali... lo stesso per le emozioni che emergono, ad esempio: “E a me niente?”. O l’assertività: “È mio diritto! Devo farmi valere! Non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno!”. Se il mio rifugio è la consapevolezza, quel sentirmi una persona è un oggetto della coscienza. Diventa cosciente; sorge e cessa. Quindi il “sé” o sakkāya-diṭṭhi è un artificio; è artificiale e creato. Siamo noi a crearlo; siamo gli artefici di noi stessi in quanto persona, personalità.
Quindi si tratta non di disfarsi della personalità, ma di riconoscerne i limiti, di affrancarsene; perché, a ben vedere, la personalità ci limita molto. Abbiamo una sfilza di opinioni su noi stessi, le nostre capacità, il nostro valore e via dicendo. Perciò tendiamo a cadere vittime di paure nevrotiche, ansie e preoccupazioni circa la nostra identità. In particolare nel ceto medio la nevrosi abbonda, perché abbiamo tanto tempo per pensare a noi stessi. La società ci dice che abbiamo certi diritti, che dovremmo fare certe cose, che dovremmo credere a certi ideali... di conseguenza incameriamo tutti quei concetti. Tendiamo a formulare giudizi, giudizi di valore su noi stessi, sugli altri e sul mondo. Quindi, considerate questo ritiro come un’occasione per smettere di crearvi un’identità precisa. Esplorate il senso del sé... non per disfarvene, per cancellarlo... ma per riconoscere che non siete ciò che pensate. Per me è un sollievo non credere ai miei pensieri.
I pensieri continuano ad andare e venire. A volte sono utili, a volte sono solo abitudini. Sorgono determinate condizioni che ti rendono felice, e hai l’impressione che tutto vada per il meglio. Poi le cose vanno a rotoli, qualcuno abbandona la veste monastica, una cosa tira l’altra. La gente ti elogia e ti compiaci, ti biasima e ti deprimi... sul piano personale. Ma la consapevolezza non resta coinvolta negli alti e bassi della lode e del biasimo, della felicità e della sofferenza. La consapevolezza è un rifugio che può riconoscere queste qualità in termini di Dhamma: tutte le condizioni sono impermanenti e non sé. È un invito a riflettere sull’esperienza della sakkāya-diṭṭhi, che io rendo con “concetto di personalità”. In questo periodo avete modo di cimentarvi con l’“Io sono”. Potete essere tutto quello che volete, ma ascoltate, non credeteci... “Sono Dio!”; “Sono una nullità, non valgo niente, sono solo una formica in un formicaio. Sono uno zero, sono solo un numero, una rotella dell’ingranaggio...”, è sempre una creazione, vero?
Posso assemblarmi come Dio unico onnipotente o un povero derelitto. Ma sono solo costruzioni, e la consapevolezza non crede a nessuna di quelle condizioni. Le vede, ne prende atto, ma non ci si attacca. È un modo che ho scoperto per chiarirmi le idee. Cos’è la pura consapevolezza, e cos’è la personalità? È importante che capiate la differenza, che abbiate fiducia, non in un dogma, ma nella chiarezza. Prendete atto che la consapevolezza è qui e ora. “Io sono... Achaan Sumedho” viene e va. “Sono buono, sono cattivo”... I ricordi vanno e vengono, ma la consapevolezza si autosostiene, non è una creazione ed è sempre affidabile. È sempre qui e ora. Vederlo chiaramente vi libera dall’attaccamento alla sakkāya-diṭṭhi, all’io, senza bisogno di rifiutarlo. Do ancora l’impressione di essere una personalità, vero? E voi mi vedete come Achaan Sumedho. Quindi non divento una specie di zombi o un tipo anonimo e incolore. Ma so riconoscere una personalità, invece di identificarmici e farmi trascinare dalle sue abitudini.
– da “Il suono del silenzio” di Achaan Sumedho –
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