lunedì 30 marzo 2015

Nella pienezza del mutamento. Una conversazione (Jiddu Krishnamurti - Carlo Suarès)

Suarès: E’ possibile condensare in una breve affermazione quello che le sembra essere il problema principale che si pone dinanzi a noi in questo momento?
Krishnamurti: Direi che è assolutamente necessario e urgente provocare una radicale rivoluzione nello spirito umano, un reale mutamento dell’intera struttura psicologica dell’uomo.
Suarès: Comprendo che il suo disegno consiste nel mostrare la necessità di decondizionare lo spirito. Qualunque sia il numero di chi lo ascolta, sembra che lei parli a ciascuno individualmente al fine di trasmettergli questa nozione di necessità e di urgenza. E, secondo lei, questo decondizionamento dello spirito – o della coscienza – può e deve essere totale. Arrivo qui a un punto che pare abbastanza sconcertante: lei afferma che questa modificazione non prende nessun tempo. Evidentemente sorvoliamo sul tempo necessario alla comprensione di una esposizione, quale essa sia. Intende affermare che questo cambiamento radicale non può essere il prodotto di una volontà, né di un processo evolutivo?
Krishnamurti: Non può prodursi né per l’intervento della volontà, né per quello del tempo. Se fosse il risultato di un processo evolutivo, non lo chiamerei mutamento. Un mutamento è immediato.

Suarès: Posso ammetterlo. Ma non posso immaginare un mutamento che non implichi insieme ad esso la risultante di tutto il passato. L’uomo modifica il suo ambiente e l’ambiente lo modifica.
Krishnamurti: No. L’uomo modifica il suo ambiente e l’ambiente modifica la parte dell’uomo che è collegata alla modificazione dell’ambiente, non l’uomo intero, nella sua profondità estrema. Nessuna pressione esteriore può fare ciò: essa non modifica che delle parti superficiali della coscienza.
Suarès: L’uomo storico…
Krishnamurti: Se vuole…Nessuna influenza può provocare una mutazione psicologica profonda. Tanto meno un’analisi psicologica, perché ogni analisi si situa nel campo della durata. E nessuna esperienza può provocarla, per quanto esaltata e ‘spirituale’ sia. Al contrario, più essa appare come una rivelazione, più condiziona. Nei primi due casi - modificazione psicologica prodotta da una pressione esterna e modificazione prodotta attraverso l’analisi o l’introspezione – l’individuo non subisce alcuna trasformazione profonda: non è che modificato, plasmato, riaggiustato in modo da essere adattato al sociale. Nel terzo caso – modificazione condotta da un’esperienza detta spirituale, sia essa conforme a una fede organizzata, sia tutta personale -, l’individuo è proiettato nell’evasione che gli detta l’autorità di qualche simbolo.
Suarès: Vorrei approfondire un po’ questi ultimi punti. Vuole che cominciamo dall’adattamento?
Krishnamurti: Prima di tutto eliminiamo la distinzione fittizia e troppo comoda tra la coscienza e l’inconscio. Il mondo moderno tende a imporci una grande attività esteriore che ci porta a mettere l’accento sulla coscienza di superficie, detta coscienza, mentre la coscienza profonda è assai raramente chiamata a intervenire, sia nello svolgimento e nell’organizzazione dei nostri affari, sia per le nostre lotte quotidiane, le nostre ambizioni, le nostri aspirazioni, le nostre angosce. Questa intensa polarizzazione della coscienza superficiale rigetta nell’ombra i livelli stratificati in profondità e impedisce loro di manifestarsi. Per quello che concerne il processo analitico, osservi che nessun analista ha mai preteso decondizionare la totalità della coscienza. Una simile proposizione, d’altronde, non può apparire a loro che stravagante. Noti anche che ogni analisi ha per limiti il condizionamento dell’analista stesso. 

Questo condizionamento dell’osservatore, del censore, del giudice, si oppone necessariamente a ogni mutamento, perché una mutamento a venire è, per definizione, qualcosa che non si conosce, mentre l’analisi ha per fine di condurre tutto nel conosciuto, nelle spiegazioni, nel quadro chiaro e preciso di un’armatura psicologica. Ogni analisi, così come ogni sistema, ha uno scopo, si propone un punto d’arrivo. C’è dunque conflitto tra l’osservatore e ciò che osserva; conflitto che, se il metodo trionfa, va a finire in un adattamento del soggetto. Il mutamento non è possibile se non quando l’osservatore interno è sparito. L’adattamento può darsi di buon grado o attraverso l’operazione di uno psicologo-riparartore incaricato di ‘ridurre’ le reazioni. 

Può darsi in favore di una società cattiva, ma in cui ci vien detto che bisogna comunque vivere, oppure di una società ideale come un ordine religioso, o nell’anticipazione di una società a venire. In tutti i casi, c’è l’azione di una forza costringente che si appoggia su una morale sociale, vale a dire uno stato di contraddizione e di conflitto. Ogni società è in sé contraddittoria. Ogni società esige degli sforzi da parte di quelli che la costituiscono. Ora, contraddizione, conflitto, sforzo, competizione, sono barriere insormontabili che impediscono ogni mutamento.
Suarès: Perché? Lo dica in poche parole.
Krishnamurti: Perché mutamento vuol dire libertà. Uno stato di conflitto è l’opposto. Ritorneremo su quello che è la libertà.
Suarès: Per il momento noi non stiamo altro che esaminando ciò che non è mutamento e non abbiamo finito. Credo che lei abbia sufficientemente introdotto l’argomento dell’adattamento. Passiamo all’evasione nei simboli. Questo interrogativo mi interessa particolarmente.
Come possono le persone che si dicono serie accettare che i simboli psicanalitici non siano che la degradazione immaginifica di verità da scoprire e che le si deve sciogliere, annullare, allorquando pretendono che i grandi simboli religiosi siano segni immutabili, dei portali bloccati attraverso i quali si sale verso verità superiori? Non c’è gerarchia nei simboli. Ogni simbolo è una caduta.
Krishnamurti: Non c’è immagine simbolica se non nelle parti inesplorate della coscienza. Vado più lontano: le parole non sono che simboli. Bisogna sciogliere le parole.
Suarès: Le teologie, questi assurdi tentativi di pensare l’impensabile…
Krishnamurti: Lasciamo le teologie dove sono. Ogni pensiero teologico manca di maturità. Non perdiamo il filo della nostra conversazione. Eravamo all’esperienza e dicevamo che ogni esperienza è condizionante. In effetti, ogni esperienza vissuta – e non mi riferisco solamente a quelle dette spirituali – ha necessariamente le sue radici nel passato, perché non c’è esperienza se non quando c’è riconoscimento.Che si tratti della realtà o del mio vicino, quello che riconosco implica un’associazione con il passato. Ogni esperienza vissuta è una reazione proveniente da questa associazione. Una esperienza detta spirituale è la risposta del passato alla mia angoscia, al mio dolore, alla mia paura, alla mia speranza. 

Questa risposta è la proiezione di una compensazione a uno stato miserevole. La mia coscienza proietta il contrario di ciò che è, perché sono persuaso che questo contrario esaltato e felice sia una realtà consolante. Così, la mia fede cattolica o buddhista, costruisce e proietta l’immagine della Vergine o del Buddha e queste fabbricazioni risvegliano una emozione intensa nei medesimi strati inesplorati della coscienza che, avendola fabbricata senza saperlo, la prendono per realtà. Poi si installano come memoria nella coscienza che dice: "Lo so, perché ho avuto un’esperienza spirituale". Allora le parole e i condizionamenti si vitalizzano mutualmente nel circolo vizioso di un circuito chiuso.
Suarès: Un fenomeno d’induzione.
Krishnamurti: Il ricordo dell’emozione intensa, di uno choc, dell’estasi, genera un’aspirazione verso la ripetizione dell’esperienza e il simbolo diviene la suprema autorità interiore, l’ideale verso cui tendono tutti gli sforzi. Captare la visione diventa un fine; pensarci senza interruzione e disciplinarsi un mezzo. Ma il pensiero è proprio ciò che crea una distanza tra l’individuo così come è e il simbolo o l’ideale. Simile processo, lungi da decondizionare, è essenzialmente condizionante. Non c’è mutamento possibile se non si muore a questa distanza. 

Il mutamento è possibile solo allorquando ogni esperienza cessa totalmente. L’uomo che non vive più alcuna esperienza è un uomo risvegliato. Vede quello che succede dappertutto: si cercano sempre esperienze più profonde e vaste. Si è persuasi che vivere delle esperienze è vivere realmente. Abbiamo appena esaminato il processo dell’esperienza e abbiamo visto che ciò che si vive non è la realtà, ma il simbolo, il concetto, l’ideale, la parola. Viviamo delle parole. Nondimeno, la parola, l’immagine, non è la cosa. Se la vita detta spirituale è un perpetuo conflitto è perché si trasmette la pretesa di nutrirsi di concetti, come se avendo fame ci si potesse nutrire della parola ‘pane’. 

Per la maggior parte noi viviamo di parole e non di fatti. Di tutti i fenomeni della vita, che si tratti della vita spirituale, della vita sessuale, dell’organizzazione materiale dei nostri affari o dei nostri piaceri, noi ci stimoliamo per mezzo delle parole. Le parole si organizzano in idee, in pensieri, e su questi stimolanti crediamo di vivere tanto più intensamente quanto abbiamo saputo meglio, grazie ad esse, creare distanza tra la realtà (noi, così come siamo) e un ideale (la proiezione del contrario di ciò che siamo). Così giriamo le spalle al mutamento.
Suarès: Ricapitoliamo i non possum. Finché esiste nella coscienza un conflitto, quale che sia, non si dà mutamento. Finché domina sui nostri pensieri l’autorità della Chiesa o dello Stato, non si dà mutamento. Finché la nostra esperienza personale si erige in autorità interiore, non si dà mutamento. Finché l’educazione, l’ambiente sociale, la tradizione, la cultura, in breve, la nostra civiltà con tutti i suoi congegni ci condiziona, non si dà mutamento. Finché c’è adattamento, non si dà mutamento. Finché c’è evasione di qualunque natura sia, non si dà mutamento. Finché mi sforzo verso un’ascesi, finché credo a una rivelazione, finché ho un’ideale quale esso sia, non si dà mutamento. Finché cerco di conoscermi analizzandomi psicologicamente, non si dà mutamento. Finché c’è sforzo verso un mutamento, non si dà mutamento. Finché c’è un’immagine, un simbolo, delle idee o anche delle parole, non si dà mutamento. Ho detto abbastanza? No, perché giunti a questo punto non posso non essere portato ad aggiungere: finché c’è pensiero, non si dà mutamento.
Krishnamurti: E’ esatto.
Suarès: Ma allora, che cos’è?

Sulla sabbia. Nota su Krishnamurti e Suarès
(Federico Battistutta)

Vidi uno che si era rifugiato nel deserto.
Non era né eretico né ortodosso.
Non aveva religione, né Dio, né verità, né legge, né certezze.
Chi in questo mondo avrebbe tale coraggio?

Omar Khayyam

1. Questa quartina del celebre poeta persiano Omar Khayyam la possiamo incontrare nelle prime righe di un testo di p. Giovanni Vannucci in cui viene presentata, sebbene in forma sintetica, l’opera e la figura di Krishnamurti. Ed è fuori di dubbio che difficilmente si sarebbe potuto scovare incipit più pertinente. Ma è bene procedere per gradi: forse qualche lettore si starà domandando chi fosse l’uomo che ha pronunciato le frasi appena lette, quei discorsi così ardui che sembrano non lasciare alcuna via d’uscita, abbandonandoci smarriti lungo strada.

Jiddu Krishnamurti nacque alla fine dell’Ottocento nel sud dell’India. Fu adottato ed educato all’interno del movimento teosofico, i cui membri vollero vedere in lui il veicolo terreno in cui si sarebbe incarnato Maitreya, il futuro "Istruttore del Mondo". Ma non trascorse molto tempo che in modo assolutamente inaspettato Krishnamurti sovvertì ogni attesa e ogni progetto, rompendo con il ridondante credo teosofico, propugnando una ricerca libera da ogni forma, da ogni dipendenza, da ogni organizzazione. Il giorno in cui prese la decisione di sciogliere l’organizzazione che avrebbe dovuto promuovere nel mondo il suo insegnamento, inizierà il discorso con tali parole: "Io sostengo che la verità è una terra senza sentieri, e non potete accostarvici percorrendo un sentiero, appartenendo a una religione o a una setta". Probabilmente in queste poche essenziali parole può essere condensata la sostanza del suo insegnamento, e in fondo il nucleo pulsante riscontrabile nei discorsi, nelle conferenze, negli incontri e nei dibattiti che terrà per oltre cinquant’anni in varie parti del mondo - fino al sopraggiungere della morte nel 1986 - stanno racchiusi in quella manciata di parole, nella convinta affermazione che la verità altro non è che una radura spaziosa ove nessun sentiero la può insidiare.

Con questo non si pensi che il percorso di Krishnamurti sia stato esente da contraddizioni, godendo di una collocazione così rarefatta e perfetta, come potrebbe apparire ad una prima occhiata. Tutt’altro. A cominciare dall’ambiguità di chi pur rifiutando il ruolo di maestro, con il contorno di discepoli e il resto, ha finito per ritrovarsi per lo più circondato da chi in tale maniera persisteva a trattarlo. E ancora: dall’aver consumato parole e parole, libri su libri, per ripetere null’altro che l’indicibilità della verità, evocando nella memoria dell’ascoltatore i versi di uno dei più potenti testi sapienziali: "Si fanno libri e libri senza fine/ per troppo studio la carne sfiorisce" (Qohelet, 12, 12). Senza dire poi gli agiti, gli inciampi e i limiti umani che in quanto tali delimitano anche in maniera acuta. Si potrebbe proseguire, ma non è questo il punto e in fondo non ci riguarda più di tanto.

2. Irritazione, dell’imbarazzo o un certo sconcerto può essere affiorato in chi ha seguito riga dopo riga il dialogo fra Krishnamurti e Suarès, sino ai passaggi conclusivi e alla domanda ‘che cos’è’, la quale chiude sì la conversazione, ma lascia aperta l’interrogazione, affidandola alle nostre mani. Rimaniamo pure nello sconcerto, può essere fertile, così come il sostare nella domanda: intraprendendo un simile lavorio di alleggerimento, di sottrazione che cos’è che accade? Senza farne un quesito ozioso di chi sta a guardare gli altri mentre giocano. Ha senso entrare nel discorso e proseguire tale riflessione solo se avvertiamo che quel che cos’è non è mera curiosità, ma ci riguarda, dice anche di noi. E’ vero, non è mia, l’ho trovata, ma posso indossare una simile scarpa perché quell’orma da sempre era lì ad aspettarmi ed ora, mentre cammino, sento che mi appartiene.

Per un verso non c’è poi molta ragione per stupirsi. Tutte le tradizioni religiose, occidentali quanto orientali, possiedono una sorta di approccio negativo per dire appieno l’esigenza di superamento dei limiti del pensiero, delle sue operazioni, come delle sue categorie. Il silenzio radicale di Buddha circa la realtà ultima, ad esempio, non si pone come una forma particolare di risposta - silente, appunto - ma coinvolge e travolge la domanda stessa. Nell’ambito cristiano si suole definire ‘apofatismo’ un approccio simile. Invero, può suscitare la domanda riguardante il fatto quanto un approccio negativo di questo tipo sia imparentato con una sorta di fallimento di quello positivo. Il pensiero discorsivo, logico e analitico, lineare e unidimensionale, percorre la sua strada fino a una soglia e proprio lì si deve arrestare. Per questo Tommaso d’Aquino, il Divus Thomas, - il quale sosteneva fra l’altro la dimostrabilità dell’esistenza di Dio in base ad argomentazioni che non richiedessero altro che l’ausilio della sola ragione - diceva che a un certo punto bisogna procedere per eliminazione, perché Dio nella sua immensità è più grande di qualunque concetto la nostra intelligenza possa produrre.

E’ bene anche vigilare su quanto un approccio del genere stia davvero sotto il segno della via negationis oppure solo in apparenza, come forma. Viene appunto il sospetto che possa divenire all’uopo un rivestimento dell’approccio positivo, il quale sotto mentite spoglie s’insinua, avanzando indebite pretese e ripetendo: non c’è niente da capire, la soluzione c’è già, c’è una meta positiva enunciata e anticipata, sta lì esibita dal pensiero e codificata dalla tradizione, prima ancora che tu possa muovere un passo o battere ciglio. Proprio su questo piano possiamo incontrare le parole di Krishnamurti con i suoi squarci veritieri. Lo scompiglio che ci procurano possono rivelarsi salutari e riportarci a quel camminare da cui non ci siamo mai allontanati, nell’invito a toccare la vita nel punto in cui non è stata toccata da nessuno prima di noi, restituendoci così la pulsazione di quel lieto annuncio che sempre è vivo e palpitante. Nel corso di una conversazione dirà Krishnamurti al suo interlocutore: "Vi fu un uomo, infinitamente più grande di ciascuno di noi, che seguì la propria via che lo condusse al Golgota, senza che si preoccupasse se i discepoli l’avrebbero seguito, o se il suo annuncio sarebbe stato accolto". Ed è con questo richiamo di Krishnamurti all’uomo di Nazareth, i cui anni di esistenza pubblica stanno tutti nelle prima dita di una mano e il cui dramma finale non vorremmo augurare a nessuno, che ci piace concludere queste note. Osservando che proprio quell’uomo non ci ha lasciato niente di scritto e anzi l’unica volta che si dice l’abbia fatto i segni li tracciò sulla sabbia, a ricordarci che ogni volta che scriviamo qualcosa, per quanto reputiamo possegga fors’anche un supposto valore o si appoggi su qualche ipse dixit, in realtà lo stiamo facendo sempre e comunque sulla sabbia.

3. Addenda. La conversazione tra Krishnamurti e Suarès, di cui compare la traduzione del secondo di otto colloqui, è apparsa in un libricino dal titolo Entretiens avec J. Krishnamurti, Paris, Le Courier du Livre, 1966. I libri di Krishnamurti sono numerosi e si possono leggere in italiano (per lo più editi da Ubaldini di Roma e Aequilibrium di Milano), così come nell’originale inglese e in diverse altre lingue. Una bibliografia (in parte datata) sull’argomento è di Susunaga Weeraperuma, A bibliography of the life and teaching of Jiddu Krishnamurti, Leiden-Koln-London, Brill, 1974. Una biografia, in parte agiografica, comunque corredata da testimonianze, documenti immagini e lettere è quella di Mary Lutyens, La vita e la morte di Krishnamurti, tr. it., Roma, Ubaldini, 1990. Un breve e ironico quadro del contraddittorio entourage krishnamurtiano, a cui sopra si accennava, lo troviamo nel romanzo di René Daumal, La grande bevuta, tr. it., Milano, Adelphi, 1970, pp. 114-115. Il discorso di Krishnamurti di scioglimento dell’organizzazione e della struttura che doveva promuoverlo come nuovo messia è apparsa e ricomparsa in vari testi; tra i più recenti segnaliamo l’edizione speciale in italiano del "Bollettino della Fondazione Krishnamurti", giugno 1986, pp. 4-10.

Alcune parole anche per presentare colui che è stato uno dei più stimolanti interlocutori di Krishnamurti. Carlo Suarès è nato ad Alessandria d’Egitto nel 1892 e si è sempre dichiarato alessandrino, dicendo in proposito: "E’ essere troppo profondamente religioso per essere credente". Successivamente si trasferì a Parigi dove si laureerà in architettura. Lui e la moglie Nadine saranno per lungo tempo legati a Krishnamurti da una particolare amicizia fino alla metà degli anni Sessanta, quando a causa di alcuni dissidi interni al gruppo che coordinava in Francia gli incontri di Krishnamurti si allontaneranno in modo definitivo. Suarès contribuì con diversi scritti e traduzioni a far conoscere Krishnamurti nel mondo francese. Intorno agli anni Trenta, insieme ad alcuni amici, fra cui il poeta e scrittore Joe Bousquet, elaborerà una sorta di dottrina, chiamata ‘présentisme’, direttamente ispirata all’insegnamento krishnamurtiano (Cfr: Ph. Lamour, J. Bousquet, C. Suarès, Voie libre, Paris, Au sens pareil, 1930). In italiano è stato tradotto di Suarès, Saggio su Krishnamurti, tr. it., Genova, Lattes, 1929. Successivamente, dopo la rottura con Krishnamurti, rivolgerà sempre di più l’attenzione alle sue radici ebraiche applicandosi allo studio della qabbalah, pubblicando saggi sull’argomento. Tra questi segnaliamo: Le Sepher Yetsira, Genève, Editions du Mont-Blanc, 1968 e Le Cantique des cantiques, Genève, Editions du Mont-Blanc, 1969. Suarès è scomparso nel 1976.

Infine, il volume di Giovanni Vannucci ricordato all’inizio di queste note è: La ricerca della parola perduta, Sotto il Monte, Servitium, 1996 (cap. intitolato "La vita senza stampelle: Krishnamurti", pp. 99-108. Si può anche vedere il cap. "Disarticolare la mente: Carlo Suarès", pp. 230-237).


Tratto da: “La Stella del Mattino”, laboratorio trimestrale per il dialogo religioso, n.1, gennaio/marzo 2003. Sito web: www.lastelladelmattino.org/rivista

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