È possibile per noi esseri umani, esseri umani che vivono nel mondo terribile che abbiamo creato, trasformarci radicalmente?
Il problema è tutto qui. Alcuni filosofi e altri hanno affermato che il condizionamento umano non si può cambiare radicalmente; lo si può modificare, rifinire e migliorare, ma la qualità fondamentale del condizionamento non si può alterare. Sono in molti a pensarla così, gli esistenzialisti, ad esempio. Perché accettiamo questo condizionamento? State seguendo, spero, il ragionamento. Perché accettiamo il nostro condizionamento, che ha prodotto un mondo letteralmente folle, dissennato?
Dove vogliamo la pace e vendiamo armamenti, dove vogliamo la pace e creiamo divisioni nazionalistiche, economiche, sociali, dove vogliamo la pace e tutte le religioni, le organizzazioni religiose, ci fanno sentire separati come lo sono loro. C’è un’enorme contraddizione tanto all’esterno che dentro di noi. Mi chiedo se ci rendiamo conto di tutto questo dentro di noi, non di quello che succede fuori.
La maggior parte di noi sa cosa sta succedendo fuori, non occorre un’intelligenza particolare, basta osservare. E la confusione esterna è in parte responsabile del nostro condizionamento. Ci chiediamo: è possibile trasformare radicalmente questa situazione dentro di noi? Perché solo allora avremo una buona società, dove non ci si ferisce a vicenda psicologicamente o fisicamente.
Quando ci poniamo
questa domanda, che risposta c’è nel profondo? Siamo condizionati, non solo in
quanto inglesi, tedeschi o francesi, ma condizionati anche da varie forme di
desiderio, credenza, piacere e conflitto, ivi compreso il conflitto psicologico.
Tutto questo e altro contribuisce al condizionamento. Prenderemo in esame
l’argomento. Ci stiamo chiedendo, stiamo riflettendo insieme, mi auguro, se
questo condizionamento, questa prigione umana fatta di pena, di solitudine, di
angoscia, di affermazione personale, di pressioni, di soddisfazione, e tutto il
resto... questo è il nostro condizionamento, la nostra coscienza, e la coscienza
è il suo contenuto... se tutta questa struttura possa essere trasformata.
Altrimenti non ci sarà mai pace in questo mondo. Interverrà forse qualche
piccola modifica, ma l’uomo continuerà a combattere, a scontrarsi, in perpetuo
conflitto con se stesso e con l’esterno. Dunque questa è la nostra domanda.
Possiamo rifletterci insieme?
Allora sorge la
domanda: “Che fare?”. Ci si rende conto di essere condizionati, si è
consapevoli, coscienti, di esserlo. Questo condizionamento ha origine dai propri
desideri, dalle attività egocentriche, dalla mancanza di un giusto rapporto con
gli altri, dal proprio sentimento di solitudine. Si può vivere in mezzo alla
gente, si possono avere rapporti intimi, ma c’è sempre questo senso di
smarrimento e di vuoto dentro di sé. Tutto questo è il nostro condizionamento,
intellettuale, psicologico, emotivo, e anche fisico, naturalmente. Ora, è
possibile trasformarlo completamente? Questa, io credo, è la vera rivoluzione.
Una rivoluzione senza violenza.
Allora, possiamo farla
insieme? Oppure, se uno di noi la fa, se comprende il condizionamento e risolve
quel condizionamento mentre l’altro è condizionato, la persona che è
condizionata ascolterà l’altro? Forse qualcuno non è condizionato. Lo ascolterò?
E cosa mi spingerà ad ascoltare? Quale pressione, quale influenza, quale
ricompensa? Cosa mi spingerà ad ascoltarlo con il cuore, la mente, tutto il mio
essere? Perché se si ascolta così completamente, forse una soluzione c’è. Ma a
quanto pare non ascoltiamo. Perciò ci chiediamo: cosa porterà un essere umano,
che è cosciente del proprio condizionamento, come lo è la maggior parte di noi,
se siamo consapevoli in maniera intelligente... cosa lo porterà a cambiare? Per
favore, ponetevi questa domanda, scoprite cos’è che porta ciascuno di noi a
realizzare un cambiamento, una libertà dal condizionamento. Non a saltare in un
altro condizionamento. Per esempio, lascio il cattolicesimo e divento buddhista:
lo schema è identico.
Quindi cosa porterà
ciascuno di noi... e sono certo che tutti noi vogliamo costruire una buona
società... cosa ci farà cambiare? La promessa di un cambiamento si è servita di
ricompense: il paradiso, un nuovo tipo di carota, una nuova ideologia, una
nuova comunità, una nuova serie di gruppi, di nuovi guru. Oppure di punizioni:
se non fai questo andrai all’inferno. Quindi tutto il nostro modo di pensare si
basa sul principio di ricompensa e punizione. “Lo farò se ne ricavo qualcosa”.
Ma quel tipo di atteggiamento, quel modo di pensare, non produce un cambiamento
radicale. E un cambiamento del genere è assolutamente necessario. Sono certo che
tutti ne siamo consapevoli. Perciò, cosa fare?
Alcuni di voi hanno
ascoltato chi vi parla per molti anni; chissà perché. E dopo aver ascoltato,
diventa un nuovo tipo di “mantra”. Sapete cosa significa quella parola?
E una parola sanscrita il cui vero significato è non essere egocentrici,
riflettere sul nondivenire. Ecco cosa significa. Abolire l’egocentrismo e
riflettere, meditare, osservare se stessi, in modo tale da non diventare
qualcosa. Il vero significato di quella parola è stato sciupato da assurdità
come la meditazione trascendentale.
Quindi alcuni di voi
hanno ascoltato per molti anni. Ma ascoltiamo davvero, e di conseguenza
cambiamo, oppure ci siamo abituati alle parole e ci limitiamo a tirare avanti?
Cosa spinge un essere umano che ha vissuto per milioni di anni ripetendo le
stesse vecchie abitudini, ereditando gli stessi istinti di autoconservazione,
paura, sicurezza, importanza personale con il grande isolamento che produce...
cosa lo spingerà a cambiare? Un nuovo dio, una nuova forma di spettacolo, una
nuova edizione religiosa della partita di calcio, un nuovo circo equestre con
annessi e connessi? Cosa ci farà cambiare? il dolore, a quanto pare, non ha
cambiato l’uomo, dato che abbiamo sofferto tanto, non solo individualmente ma
anche collettivamente. Come genere umano abbiamo sofferto in misura enorme:
guerre, malattia, afflizione, morte. Abbiamo sofferto enormemente, e a quanto
pare il dolore non ci ha cambiati. Nemmeno la paura ci ha cambiati, dato che la
nostra mente va costantemente a caccia, alla ricerca del piacere, e anche quel
piacere e sempre lo stesso in forme diverse, e non ci ha cambiato. Quindi, cosa
ci farà cambiare?
Non sembriamo capaci
di fare nulla di nostra spontanea iniziativa. Facciamo le cose dietro pressione.
Se non fossimo pressati da qualcosa, se non ci fosse l’idea di una ricompensa o
di una punizione... ma è ridicolo anche solo pensare a ricompense e punizioni!
Se non ci fosse l’idea di un futuro... non so se avete riflettuto su questa
faccenda del futuro, che forse è il nocciolo del nostro autoinganno di tipo
psicologico, ce ne occupiamo fra un attimo. Se abbandonate idee del genere, che
qualità avrà una mente che si confronta senza riserve col presente? Capite la
mia domanda? Stiamo comunicando? Vi prego, rispondete sì o no, non so a che
punto siamo. Non sto parlando da solo, spero?
Ci si rende conto di
aver creato da sé la propria prigione? E per “sé” intendo il risultato del
passato, genitori, nonni, e così via... la prigione psicologica ereditata,
acquisita, imposta in cui viviamo, E ovviamente l’istinto è quello di evadere
dalla prigione. Ci si rende conto di questo, non in teoria, non concettualmente,
ma come dato di fatto, un fatto psicologico? Quando si guarda in faccia quel
fatto, perché anche allora non c’è alcuna possibilità di cambiamento? Capite la
mia domanda?
Il problema è stato
affrontato da tutte le persone serie che hanno a cuore la tragedia umana, la
sofferenza umana, e che si chiedono perché non cominciamo a fare luce dentro di
noi, non diamo spazio alla libertà, alla nostra bontà fondamentale. Non so se
avete notato che gli intellettuali, i letterati, gli scrittori, e i cosiddetti
leader mondiali hanno smesso di parlare di come costruire una buona società.
L’altro giorno parlavo con alcune di queste persone, e il commento è stato:
“Sciocchezze, è un’idea antiquata, lascia perdere. L’idea di buona società è
superata. È roba vittoriana, ingenuità, sciocchezze. Dobbiamo accettare le cose
come sono e conviverci”. E probabilmente per la maggior parte di noi è così.
Perciò noialtri, voi e io, che ne parliamo come fra amici, cosa dobbiamo fare?
L’autorità di un altro
non produce questo cambiamento, giusto? Se ti accetto come mia autorità perché
voglio realizzare una rivoluzione dentro di me, e così realizzare una buona
società, l’idea stessa di io che seguo e tu che mi istruisci è la morte della
buona società. Capite cosa voglio dire? Non sono buono perché mi dici di essere
buono, o perché ti accetto come autorità suprema in fatto di rettitudine e ti
seguo. L’accettazione stessa dell’autorità e dell’obbedienza è di fatto la
distruzione di una buona società. Non è così? Capite cosa voglio dire? Possiamo
approfondire l’argomento?
Se ho un guru...
grazie al cielo non ce l’ho, ma se ho un guru e lo seguo, che servizio ho reso a
me stesso? Cosa ho fatto per il mondo? Niente. Mi insegnerà qualche sciocchezza
sulla meditazione, su questo e quell’altro, e io avrò un’esperienza
meravigliosa, leviterò o altre sciocchezze del genere; mentre quello che voglio
è costruire una buona società dove si può essere felici, dove c’è posto per
l’affetto, per relazioni senza barriere, questa è la mia aspirazione. Ti scelgo
come guru, e che ho fatto? Ho distrutto proprio la cosa che volevo, perché,
lasciando da parte l’autorità della legge e simili, l’autorità psicologica
divide, per sua natura è separativa. Tu là sopra e io qua sotto, tu sali sempre
più in alto e anch’io salgo sempre più in alto, per cui non ci incontriamo mai!
– [risate] – È ridicolo, certo, ma facciamo davvero così.
Quindi, mi rendo conto
che l’autorità, con il suo corollario organizzativo, non mi può liberare?
L’autorità dona un senso di sicurezza. “Non so, sono confuso, però tu sai, o
almeno penso di sì e tanto basta; investo la mia energia e il mio bisogno di
sicurezza su di te, su quello che dici”.
Poi attorno a questo creiamo un’organizzazione, e l’organizzazione stessa si trasforma in prigione. Capite cosa voglio dire? Ecco perché non bisognerebbe appartenere a nessuna organizzazione spirituale, per quanto promettente, per quanto affascinante, per quanto romantica. Possiamo convenirne, constatarlo insieme? Capite la mia domanda? Constatare insieme il fatto, per cui una volta che l’abbiamo constatato finisce lì. Constatare che – per loro stessa natura – autorità e obbedienza, e l’organizzazione che ne deriva, religiosa o quant’altro, sono separative, tengono in piedi un sistema gerarchico, come appunto accade nel mondo, e dunque fanno parte del carattere distruttivo del mondo: constatare la verità di questo e farla finita. Possiamo farlo? Così che nessuno di noi... mi dispiace... che nessuno di noi faccia più parte di un’organizzazione spirituale, cioè di organizzazioni religiose: cattoliche, protestanti, induiste, buddhiste, nessuna esclusa.
Poi attorno a questo creiamo un’organizzazione, e l’organizzazione stessa si trasforma in prigione. Capite cosa voglio dire? Ecco perché non bisognerebbe appartenere a nessuna organizzazione spirituale, per quanto promettente, per quanto affascinante, per quanto romantica. Possiamo convenirne, constatarlo insieme? Capite la mia domanda? Constatare insieme il fatto, per cui una volta che l’abbiamo constatato finisce lì. Constatare che – per loro stessa natura – autorità e obbedienza, e l’organizzazione che ne deriva, religiosa o quant’altro, sono separative, tengono in piedi un sistema gerarchico, come appunto accade nel mondo, e dunque fanno parte del carattere distruttivo del mondo: constatare la verità di questo e farla finita. Possiamo farlo? Così che nessuno di noi... mi dispiace... che nessuno di noi faccia più parte di un’organizzazione spirituale, cioè di organizzazioni religiose: cattoliche, protestanti, induiste, buddhiste, nessuna esclusa.
Appartenere a qualcosa
ci dà un senso di sicurezza, è chiaro. Ma appartenere a qualcosa produce
invariabilmente insicurezza, perché è per natura separativo. L’uno segue un
certo guru, una certa autorità, è cattolico, protestante, e l’altro è
qualcos’altro. Perciò non si incontrano mai, anche se tutte le religioni
organizzate dicono di collaborare al servizio della verità. Quindi è possibile,
ascoltandoci a vicenda, ascoltando il fatto, bandire dal nostro modo di pensare
ogni forma di accettazione dell’autorità, dell’autorità psicologica, e quindi
le organizzazioni che vi ruotano attorno? Allora cosa accade? Ho lasciato cadere
l’autorità perché me lo hai detto tu, o perché vedo la natura distruttiva delle
cosiddette organizzazioni? E lo vedo come fatto, e quindi con intelligenza? O mi
limito a un’accettazione generica? Non so se mi state seguendo. Se si vede il
fatto, la percezione stessa di quel fatto è intelligenza, e in
quell’intelligenza c’è sicurezza, non in qualche sciocchezza superstiziosa.
Capite cosa sto dicendo? Ditemi, vi prego, ci stiamo incontrando?
PUBBLICO: Si.
KRISHNAMURTI: No, non a parole. A parole
è facilissimo perché parliamo tutti l’inglese, il francese, o quel che volete.
Se è intellettuale, a parole, non è un incontro. L’incontro c’è quando si vede
il fatto insieme.
Ora, possiamo... è una
domanda... possiamo osservare il fatto del nostro condizionamento? Non l’idea
del nostro condizionamento. Essere inglesi, tedeschi, americani, russi, indiani,
orientali, o quel che volete, è una cosa. Il condizionamento fisico, prodotto da
cause economiche, dal clima, dal cibo, dal vestiario, e così via. Ma oltre a
questo c’è una grossa dose di condizionamento psicologico. Possiamo osservarlo
come fatto? Prendiamo la paura. Potete guardarla? O se al momento non ci
riuscite, possiamo guardare le offese che abbiamo subito, le ferite, le ferite
psicologiche che abbiamo accumulato, che abbiamo ricevuto fin dall’infanzia.
Guardare, non analizzare. Gli psicoterapeuti tornano indietro a esplorare il
passato. Ossia, cercano la causa delle ferite ricevute, esaminando e analizzando
il movimento globale del passato. Quello che in genere si chiama analisi, in
psicoterapia. Ma scoprire le cause serve a qualcosa? E c’è voluto molto tempo,
magari anni, è un gioco che facciamo tutti perché non vogliamo mai affrontare il
fatto ma preferiamo dire: “Cerchiamo di capire da dove vengono i fatti”. Non so
se mi state seguendo?
Quindi si investe una
gran quantità di energia, e probabilmente di denaro, nell’esame professionale
del passato; o nell’esame in proprio, se si è capaci di farlo. E stiamo dicendo
che un’analisi di questo tipo è separativa, perché l’analizzatore crede di
essere diverso dalla cosa analizzata. Mi seguite? Quindi la divisione è tenuta
in piedi dall’analisi, laddove il fatto ovvio è che l’analizzatore è
l’analizzato. Capite? Nel momento in cui si riconosce che l’analizzatore è
l’analizzato... perché se sei arrabbiato lo sei... l’osservatore è l’osservato.
Quando è presente la realtà di fatto, l’analisi non ha più senso, c’è solo una
pura osservazione del fatto che accade ora. Capite cosa voglio dire? Potrebbe
risultare difficile, perché in generale siamo condizionati al processo
analitico, all’autoesame, all’investigazione introspettiva, siamo talmente
abituati a questo, condizionati da questo, che la prima reazione di fronte a
un’idea nuova può essere di immediato rifiuto o di chiusura. Quindi vi chiederei
di esplorare, di esaminare la questione..
Ci stiamo chiedendo: è
possibile guardare il fatto così come accade ora... la rabbia, la gelosia, la
violenza, il piacere, la paura, quel che sia... guardarlo, non analizzarlo,
semplicemente guardarlo; e in quell’osservazione, l’osservatore si limita a
osservare il fatto come qualcosa di separato da “sé”, oppure è il fatto? Non so
se è chiaro. Riesco a spiegarmi? Capite la differenza? Generalmente siamo
condizionati a credere che l’osservatore sia diverso dalla cosa osservata. Sono
stato avido. Oppure, sono stato violento. Al momento della violenza non c’è
divisione, è solo dopo che il pensiero ci torna su e si separa dal fatto. Quindi
l’osservatore è il passato che guarda quello che succede adesso. Perciò, si può
guardare il fatto... che sei arrabbiato, avvilito, solo, quel che sia...
guardare il fatto senza l’osservatore che dice: “Sono separato”, e che lo guarda
come fosse diverso? O invece riconosce che il fatto è lui, non c’è divisione fra
il fatto e lui stesso? Il fatto è lui stesso. Non so se capite.
E cosa accade, perciò,
quando si rivela il dato di fatto? Badate, la mia mente è stata condizionata a
guardare il fatto, la solitudine, ad esempio... no, siamo partiti dalle ferite
dell’infanzia, restiamo su quello. Sono portato, sono stato abituato a credere
di essere diverso dalla ferita, giusto? Di conseguenza il mio modo di trattare
la ferita sarà o soffocarla e ignorarla, oppure circondarla di una barriera
difensiva per non essere ferito di nuovo. Per cui quella ferita mi rende sempre
più isolato, sempre più timoroso.
Quindi la divisione si
è prodotta perché mi credo diverso dalla ferita. Mi state seguendo? Ma la ferita
sono io. Il “me” è l’immagine di me stesso che ho creato, e che è ferita,
giusto?
Quindi ho creato
un’immagine sulla base dell’educazione, la famiglia, la società, sulla base di
tutte le idee religiose riguardo a un’anima, all’essere separati, all’individuo,
e via discorrendo. Ho creato un’immagine di me stesso, e quando calpesti
l’immagine mi sento offeso. Poi dico che la ferita non sono io, che devo cercare
di rimediare a quella ferita. Quindi tengo in piedi la divisione fra la ferita e
me stesso. Ma il fatto è che l’immagine sono io che sono stato ferito. Giusto?
Perciò, posso guardare quel fatto?
Guardare il fatto che l’immagine è me, e che fino a quando ho un’immagine di me è destinata a essere calpestata. È un fatto. Ma la mente può liberarsi da quell’immagine? Perché è chiaro che fino a quando esiste l’immagine le verrà fatto qualcosa, verrà punzecchiata, e da ciò nascerà una ferita, da cui l’isolamento, la paura, la resistenza, il muro che mi costruisco attorno... tutto questo ha origine dalla divisione fra l’osservatore e l’osservato, ossia la ferita. Questa non è teoria, badate. Non è altro che comunissima osservazione di “sé”, quella che all’inizio abbiamo chiamato “consapevolezza di sé”.
Guardare il fatto che l’immagine è me, e che fino a quando ho un’immagine di me è destinata a essere calpestata. È un fatto. Ma la mente può liberarsi da quell’immagine? Perché è chiaro che fino a quando esiste l’immagine le verrà fatto qualcosa, verrà punzecchiata, e da ciò nascerà una ferita, da cui l’isolamento, la paura, la resistenza, il muro che mi costruisco attorno... tutto questo ha origine dalla divisione fra l’osservatore e l’osservato, ossia la ferita. Questa non è teoria, badate. Non è altro che comunissima osservazione di “sé”, quella che all’inizio abbiamo chiamato “consapevolezza di sé”.
Allora cosa accade
quando l’osservatore è l’osservato... nei fatti, non in teoria... cosa accade?
Sono stato ferito fin dall’infanzia, dalla scuola, dai genitori, dagli altri
bambini e bambine, capito... sono stato ferito, offeso, al livello psicologico.
Mi porto dietro quella ferita per tutta la vita, nascosto, ansioso, spaventato,
e so quali sono le conseguenze. E ora vedo che fino a quando l’immagine che ho
creato, che è stata costruita, esisterà, ci sarà una ferita. Quell’immagine sono
io. Posso guardare quel fatto? Non guardarlo in teoria, ma guardare il fatto
concreto che l’immagine è ferita, l’immagine sono io. È chiaro questo? Possiamo
incontrarci, riflettere insieme, se non altro su questo punto?
Allora
cosa accade? Prima, l’osservatore cercava di rimediare in qualche modo. Ora
l’osservatore è assente. Perciò non può far nulla per rimediare. Chiaro? Capite
che cos’è successo? Prima, l’osservatore si sforzava di soffocarla, di tenerla
sotto controllo, di non venire ferito, di isolarsi, resistere, e via
discorrendo: faceva un enorme sforzo. Ma quando si vede il fatto che l’osservatore
è l’osservato, cosa accade? Volete che ve lo dica io?
Allora non siamo approdati a nulla, allora quello che vi dico non avrà senso. Ma se ci siamo incontrati, se riflettiamo insieme e arriviamo a questo punto, allora scoprirete da soli che fino a quando c’è sforzo resta in piedi la divisione, giusto? Quindi nella pura osservazione non c’è sforzo, per cui la cosa che è stata prodotta in forma di immagine comincia a dissolversi. Tutto qua.
Jiddu Krishnamurti
Allora non siamo approdati a nulla, allora quello che vi dico non avrà senso. Ma se ci siamo incontrati, se riflettiamo insieme e arriviamo a questo punto, allora scoprirete da soli che fino a quando c’è sforzo resta in piedi la divisione, giusto? Quindi nella pura osservazione non c’è sforzo, per cui la cosa che è stata prodotta in forma di immagine comincia a dissolversi. Tutto qua.
Jiddu Krishnamurti
Tratto da: Può cambiare l'umanità? (Ubaldini ed.)
fonte: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/krishnamurti/vedereilproprio.htm
fonte: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/krishnamurti/vedereilproprio.htm
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