lunedì 23 marzo 2015

Tre pii egoisti (Jiddu Krishnamurti)

 
L’altro giorno son venuti a trovarmi tre pii egoisti. Il primo era un sanyasi, un uomo cioè che aveva rinunciato al mondo; il secondo, un orientalista e fermo credente nella fratellanza del genere umano; e il terzo un saldo fautore di una meravigliosa utopia. Ognuno dei tre era un fervente apostolo della sua fede e considerava gli atteggiamenti e le azioni altrui un po’ dall’alto, e attingeva forza dalle sue proprie convinzioni. Ognuno amava ardentemente il suo credo e tutti e tre erano, in uno strano loro modo, spietati.

Mi dissero, più di tutti l’utopista, d’essere pronti a rinnegare o sacrificare se stessi e i loro amici per amore della loro fede. Apparivano umili e dolci, segnatamente l’uomo che credeva nella fratellanza, ma mostravano una durezza di cuore e quell’intolleranza peculiare che è caratteristica del superiore. Essi erano gli eletti, i ministri; essi erano gli iniziati e possedevano la verità.

Il sanyasi disse, durante una conversazione molto seria, che si stava preparando alla sua prossima vita. Quella presente, dichiarò, aveva ben poco da offrirgli, perché egli aveva visto in fondo a tutte le illusioni delle cose mondane e abbandonato le vie del mondo. Aveva alcune debolezze personali e certe difficoltà a raccogliersi, aggiunse, ma nella prossima vita egli sarebbe stato l’ideale che si era proposto di essere.

Tutti i suoi interessi, tutta la sua vitalità erano riposti nella convinzione che egli sarebbe stato qualche cosa d’importante nell’altra vita. Chiacchierammo abbastanza diffusamente, ed egli poneva l’accento sempre sul domani, sul futuro. Il passato, disse, esisteva, ma sempre in rapporto al futuro; il presente non era che un passaggio al futuro e l’oggi interessava solo per il domani. Se non ci fosse stato nessun domani, si chiedeva, allora perché affaticarsi? Tanto sarebbe valso vegetare o essere come la mucca pacifica.


Tutta la vita non era che un movimento continuo dal passato, attraverso il presente momentaneo, al futuro. Noi dobbiamo usare il presente, disse, per essere qualche cosa nel futuro: essere saggi, essere forti, essere compassionevoli. Tanto il presente quanto il futuro erano transeunti, ma il domani maturava il frutto. Insistette che l’oggi non è che un mezzo per raggiungere un fine e noi non dovremmo essere troppo ansiosi o esigenti riguardo all’oggi: dobbiamo avere ben chiaro in mente l’ideale del domani e compiere il viaggio con risultati soddisfacenti. Tutto sommato, non poteva sopportare il presente.

L’uomo della fratellanza era più colto e il suo modo di parlare più poetico; sapeva adoperare con abilità le parole ed era del tutto soave e convincente. Egli pure s’era intagliato una divina nicchia nel futuro. Doveva essere anche lui qualche cosa. Idea che gli confortava il cuore e per cui aveva raccolto proseliti. La morte, disse, è una cosa bella, perché porta l’uomo più vicino alla nicchia divina, e ciò rende possibile la vita in questo brutto mondo di lacrime.

Egli era tutto volto a cambiare e abbellire il mondo e operava con ardore per la fratellanza umana. Stimava che l’ambizione, con le sue dipendenti crudeltà e corruzione, fosse inevitabile in un mondo dove occorre agire; e sfortunatamente, se si voleva che si eseguissero certe attività organizzative, bisognava schierarsi un po’ dal lato della durezza. Operare era importante, perché aiutava il genere umano, e chiunque si opponesse a questo operare andava messo da parte: ma con dolcezza, naturalmente. L’organizzazione di questo operare era del massimo valore e non andava trascurata.  «Altri hanno le loro vie» egli disse  «ma la nostra è essenziale e chiunque si intrometta non è uno di noi.»

L’utopista era uno strano miscuglio d’idealista e di uomo pratico. La sua Bibbia era non il vecchio, ma il nuovo. Egli credeva implicitamente nel nuovo. Sapeva l’esito del futuro, perché il libro nuovo prediceva quale sarebbe stato. Il suo piano consisteva nel disorientare, organizzare, eseguire. Il presente, disse, era corrotto, andava distrutto e su questa distruzione si sarebbe costruito il nuovo. Il presente andava sacrificato per il futuro. Importantissimo era l’uomo futuro, non quello presente.

 «Noi sappiamo come creare l’uomo futuro» disse  «possiamo foggiare la sua mente e il suo cuore; ma dobbiamo avere il potere per fare il bene. Sacrificheremo noi stessi e altri per portare in essere uno stato nuovo. Uccideremo chiunque si ponga sulla nostra strada, poiché i mezzi non hanno importanza: il fine giustifica i mezzi.»

Per la pace definitiva, si sarebbe dovuta usare ogni forma di violenza; per la definitiva libertà dell’individuo, la tirannide nel presente era inevitabile.  

«Quando avremo il potere nelle nostre mani» dichiarò  «ricorreremo a ogni forma di coazione per creare un mondo nuovo senza distinzioni di classe, senza preti. Dalla nostra tesi centrale non ci scosteremo mai; noi vi siamo radicati, ma la nostra strategia e la nostra tattica dipenderanno dalla variabilità delle circostanze. Noi facciamo progetti, organizziamo e agiamo per distruggere l’uomo presente per l’uomo futuro.»

Il sanyasi, l’uomo della fratellanza e l’utopista vivono tutti per il domani, per il futuro. Non sono ambiziosi nel senso mondano, non vogliono grandi onori, ricchezza o riconoscimenti; ma sono ambiziosi in un modo molto più sottile. L’utopista s’identifica con un gruppo che, egli ritiene, avrà il potere di orientare in altro senso il mondo; l’uomo della fratellanza aspira ad essere esaltato e il sannyasi a raggiungere il suo fine. Tutti sono consumati dal loro divenire, dalla loro meta e dalla loro espansione. Essi non vedono che questo desiderio nega la pace, la fratellanza e la felicità suprema.

L’ambizione, sotto ogni specie, (per la comunità, per la salvezza individuale, o per il compimento spirituale),  non è che azione posposta. Il desiderio è sempre del futuro; il desiderio di divenire non è che inazione nel presente. L’oggi ha un significato più grande del domani. Nell’oggi è contenuto tutto il tempo e comprendere l’oggi vuol dire essere liberi dal tempo. Il divenire è la continuazione del tempo, del dolore. Il divenire non contiene l’essere.

L’essere è sempre nel presente ed essere è la più alta forma di trasformazione. Il divenire non è che continuità modificata e c’è radicale trasformazione soltanto nel presente, nell’essere.


Jiddu Krishnamurti 
(da La mia strada è la tua strada)


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