“Chi si mette in mostra non risplende,
chi si gloria non è illustre, chi si vanta non emerge,
chi si identifica con le proprie opere non dura.”
(Lao Tzu)
“Perché
dobbiamo tanto bramare che si riconoscano i nostri meriti, che ci si
prenda sul serio, che ci si incoraggi di continuo? Perché dobbiamo
essere tanto snob? Perché teniamo tanto alla esclusività del nostro
nome, della nostra posizione, delle nostre acquisizioni? L’essere
anonimi è forse degradante, l’essere sconosciuti forse spregevole?
Perché diamo tanto la caccia a tutto ciò che è popolare, famoso? Perché
non ci accontentiamo di essere noi stessi?
Abbiamo
tanta paura e vergogna di quel che siamo che nome, posizione e
acquisizioni divengono così supremamente importanti? È strano come sia
forte il desiderio di essere stimati, ammirati, applauditi.
Nell’eccitazione di una battaglia, si fanno cose incredibili, per cui si
è poi onorati; si diviene eroi per avere ucciso dei propri simili.
Grazie a privilegi, abilità, o capacità ed efficienza, si giunge presso
la vetta, anche se la vetta non è mai la vetta, perché c’è sempre in
misura maggiore l’ubriacatura del successo.
Il
paese o l’industria sono voi stesso; da voi dipende la soluzione di
grandi problemi, voi siete il potere. La religione costituita offre
posizione, prestigio, onore; anche là siete qualcuno, distinto e
importante; oppure diventate il discepolo di un capo, di un guru o di un
maestro, o collaborate con loro. Siete ancora importante, li
rappresentate, partecipate alle loro responsabilità, voi date e altri
ricevono. Anche se in loro nome, voi siete ancora il mezzo. Potete
cingere un perizoma o indossare la tunica di un monaco, ma siete voi che
fate il gesto, voi che rinunciate.
In
un modo o nell’altro, con sottigliezza o grossolanamente, l’io si nutre
e si mantiene. Indipendentemente dalle sue attività antisociali e
nocive, chi ha l’io che mantenga se stesso? Sebbene ci troviamo nel
tumulto e nella pena, tra piaceri momentanei, perché l’io si afferra a
soddisfazioni intime ed esterne, a ricerche che inevitabilmente portano
infelicità e dolore? La sete di un’attività positiva come opposta alla
negazione ci fa sforzare di essere; i nostri sforzi ci fanno sentire che
siamo vivi, che c’è uno scopo alla nostra vita, che riusciremo
progressivamente a liberarci delle cause del conflitto e del dolore.
Abbiamo
l’impressione che se la nostra attività cessasse, noi non saremmo più
nulla, saremmo smarriti, la vita non avrebbe più significato alcuno; e
così continuiamo a vivere nel conflitto, nella confusione,
nell’antagonismo. Ma siamo anche consci che c’è qualche cosa di più, che
c’è una alternativa che è al di sopra e al di là di tanto dolore. Così
siamo in costante battaglia entro noi stessi.
Più
grande la dimostrazione esterna, maggiore la povertà interiore; ma
l’affrancamento da questa povertà non è il perizoma. La causa di questa
vacuità interiore è il desiderio di divenire e qualunque cosa facciate
questo vuoto non potrà mai essere colmato. Potrete sfuggirvi in modo
crudo, o con molte raffinatezze, ma resterà vicino a voi come la vostra
ombra. Può darsi che non vogliate affondare lo sguardo in questo vuoto,
ma ciononostante, esso sarà sempre presente.
Gli
adornamenti e le rinunce che l’io assume non potranno mai coprire
questa intima povertà. Mediante queste attività, intima ed esterna, l’io
cerca di trovare arricchimento, chiamandolo esperienza o dandogli un
nome diverso, a seconda della sua convenienza e del suo piacere. L’io
non può mai essere anonimo; può assumere una nuova veste, prendere un
altro nome, ma l’identità è la sua stessa sostanza. Questo processo
d’identificazione impedisce la consapevolezza della sua propria natura.
Il
processo cumulativo d’identificazione costruisce l’io, positivamente o
negativamente; e la sua attività è sempre imprigionante, per vasta che
sia la prigione. Ogni sforzo dell’io di essere o di non essere è un moto
di allontanamento da ciò che è. Indipendentemente dal suo nome, dai
suoi attributi, idiosincrasie e proprietà, che cos’è l’io?
C’è
sempre l’io, il se stesso quando le sue qualità siano state tolte? È
questa paura di essere niente che spinge l’io all’attività; ma essa è
nulla, non è che un vuoto. Se siamo capaci di guardare bene in faccia
quel vuoto, di essere con quella dolorosa solitudine e malinconia,
allora la paura scompare del tutto e avviene una trasformazione
radicale. Perché ciò accada, ci deve essere la sperimentazione di quel
nulla la quale viene impedita se c’è uno sperimentatore.
(Jiddu Krishamurti)
fonte: http://lacompagniadeglierranti.blogspot.it/2017/05/riconoscimenti.html
Nessun commento:
Posta un commento