giovedì 11 maggio 2017

Sulle difficoltà e sul bisogno del dialogo

 
La conoscenza sta passando dall’essere un bene pubblico
all’essere un oggetto commerciale."
(Zygmunt Bauman)

Il 17 aprile 2015, nell’Università del Salento (Lecce), Zygmunt Bauman ha tenuto la Lectio Magistralis intitolata: “Sulle difficoltà e sul bisogno del dialogo” che condivido nella traduzione italiana curata dalla professoressa Francesca Bianchi.

“Magnifico Rettore, Docenti, Studenti, Signore e Signori, Amici, sono veramente toccato dall’attenzione che avete voluto dare al mio lavoro e vi sono estremamente grato per questo pensiero. Credo che questa onorificenza non abbia nulla di personale, non sia stata data a Zygmunt Bauman; infatti, l’unica cosa di rilievo che io come persona abbia fatto è a mio parere quella di avere vissuto a lungo e di avere visto più luoghi di qualsiasi altra persona, avere visto più cose e sentito più opinioni.

Ritengo piuttosto che si tratti di un riconoscimento all’importanza, alla gravità e all’urgenza di alcune delle questioni a cui ho dedicato nel tempo la mia attenzione e con le quali ci scontriamo tutti oggigiorno. Come ha detto il Rettore Vincenzo Zara nella sua introduzione “viviamo, lavoriamo in un luogo di cui conosciamo le contraddizioni e le difficoltà”. Vorrei dirlo con le parole di Hannah Arendt, grande filosofa del 20° secolo, “viviamo in tempi bui”.

Ovviamente non sto dicendo che siamo ciechi: vediamo benissimo ciò che ci sta intorno, ma piuttosto che, come accade al buio, riusciamo a vedere solo ciò che sta immediatamente vicino a noi, ma non oltre. Inoltre, come disse Ludwig Wittgenstein, altro grandissimo filosofo del 20° secolo, "comprendere significa sapere come andare avanti". E questo è proprio ciò che a noi manca: la capacità di comprendere.

Abbiamo a disposizione un'enorme quantità di informazioni ma abbiamo una minore capacità di comprendere cosa sta accadendo e cosa sta per accadere rispetto ai nostri antenati che godevano invece di una salutare ignoranza relativa. La situazione è paradossale: abbiamo a disposizione un'enorme quantità di informazioni, almeno in teoria; se consideriamo per esempio il numero di risposte a un singolo quesito che possiamo trovare in Google, la quantità di informazioni è praticamente infinita, se paragonata alle capacità del cervello umano.

Giusto un paio di esempi: una singola edizione domenicale del New York Times contiene una quantità di informazioni superiore a quella che i grandi filosofi dell’Illuminismo avevano acquisito durante l’intera vita. Come secondo esempio vi dico che secondo alcuni esperti, ogni giorno vengono prodotti 2 miliardi di miliardi di byte di informazioni, ovvero un milione di informazioni in più di quanto il cervello umano sia in grado di assorbire in tutta la vita.

Di conseguenza, questa enorme quantità di informazioni è paradossalmente un ostacolo per la nostra capacità di comprendere le cose. Se da un lato la quantità di informazioni aumenta, dall’altra diminuiscono le nostre conoscenze. La mia generazione sognava un mondo con più informazioni e di conseguenza maggiore conoscenza, ma allo stato attuale abbiamo ottenuto l’opposto: maggiore quantità di informazioni non significa migliore capacità di comprensione della realtà e consapevolezza di come continuare. Questa è una delle ragioni per cui siamo confusi e ci sentiamo come se ci muovessimo nel buio.

L’altra ragione è la fede nella conoscenza, e qui mi avvicino al mondo che meglio conosco, quello accademico. Le università stanno attraversando un periodo di grande cambiamento e il risultato di questo cambiamento, che è stato loro imposto e non necessariamente da loro voluto, è il fatto che la conoscenza sta passando dall’essere un bene pubblico all’essere un oggetto commerciale. Se prima le università rispondevano ai bisogni dell’uomo, ora sono costrette a rispondere alle regole del mercato.

Ed è un paradosso che il crescente bisogno di vedere nel buio vada di pari passo con una crescente difficoltà nel comprendere le condizioni attuali e nel decidere dove andare e come continuare. E ricollegandomi al discorso del Rettore Vincenzo Zara sulla gravità dei problemi che ci troviamo ad affrontare e la difficoltà di gestirli, vorrei elencare alcuni di questi problemi, i quali richiedono immediata attenzione. Innanzitutto vi è il problema dell’ineguaglianza, che a mio parere rappresenta un sorta di campo minato.

Come in un campo minato, sappiamo che prima o poi avverrà un’esplosione, ma non sappiamo dove e non sappiamo quando. A questo proposito vorrei ricordarvi le parole di Papa Francesco. Naturalmente sono costretto a leggerle nella traduzione inglese, che verrà poi ulteriormente tradotta in italiano ed è scontato che il testo finale non potrà risultare esattamente identico all’originale pronunciato dal Papa. Nella sua Prima Esortazione Apostolica, del 2013, Papà Francesco disse “No ad una economia della diseguaglianza e dell’esclusione.”

Così come il comandamento che dice “non uccidere” cerca di porre limiti a favore della salvaguardia della vita umana, oggi dovremmo dire: “non si deve fare” a una economia basata sull’esclusione e la diseguaglianza. “Un’economia di questo tipo uccide. Come è possibile che, quando una persona anziana e senza casa muore per essere stata all’addiaccio, la notizia non sia riportata dai giornali, mentre se il mercato azionario perde due punti la notizia è riportata in prima pagina?

Questo è un chiaro caso di esclusione. Possiamo continuare a tenere la testa alta in un momento in cui viene gettato via il cibo e le persone muoiono di fame? Questo è un chiaro caso di diseguaglianza. Oggigiorno tutto segue le leggi della concorrenza e della sopravvivenza del più forte, leggi in cui il più potente trae forza ed energia vitale dalla distruzione del debole. Come conseguenza di ciò, grandi masse di persone si trovano escluse e marginalizzate, senza lavoro e senza possibilità, senza possibilità di fuggire da questa condizione.”

Ed ora vi prego di porre attenzione, poiché questo punto è particolarmente importante: “gli esclusi non sono le persone sfruttate, ma quelle scartate dalla società”. Sì, è proprio questa la nuova situazione: quella dell’esclusione, dell’essere considerati inutili, di troppo. Ricordo bene come in un passato non molto lontano questi concetti, il fatto che una persona potesse essere considerata inutile, di troppo, da escludersi perché́ inutile, semplicemente non esistevano. Si poteva perdere il lavoro, ma mai essere considerati inutili.

Una conseguenza diretta di queste forme di messa ai margini è la migrazione, mai tanto massiccia quanto oggi. Secondo stime recenti, 175 milioni di persone si stanno spostando verso un nuovo Paese con la speranza di poter riscostruire la propria vita. Secondo altre stime, nei prossimi 20 anni, il fenomeno migratorio riguarderà 1 miliardo di persone, che andranno a bussare alle porte di Paesi in cui sperano di trovare condizioni umane di vita, pane, acqua potabile e scuole per i bambini. Queste enormi masse di migranti determinano un ulteriore problema, la “diasporizzazione”.

Abbiamo tutti sotto gli occhi come la nostra società, il Paese che amiamo e in cui siamo cresciuti stia cambiando e stia diventando multiculturale. A differenza di quanto accadeva in passato, diciamo 50-60 anni fa, le persone che arrivano nel nuovo Paese vi trovano una società già multiculturale e molto frantumata al suo interno, e non hanno intenzione, non hanno la possibilità né sono invitati a integrarsi in questa società, ma possono al massimo a interagire con gli individui e le etnie a loro più vicine.

Da qui nasce il bisogno e la difficoltà del dialogo: una nuova arte che deve essere acquisita. Un’arte di cui però non sappiamo di avere bisogno, pensando che siano le persone che vengono nel nostro Paese a dover abbandonare le loro tradizioni e le loro identità per adattarsi alla nostra. Lasciate che aggiunga ancora un problema a questo mio elenco: l’interdipendenza dell’umanità.

Gli strumenti in nostro possesso per un’azione collettiva efficace sono stati creati dai nostri predecessori per servire unità territoriali autonome e sovrane che noi chiamiamo Stati. Questi strumenti, per quanto non eccellenti, sono comunque riusciti ad espletare la loro funzione, ovvero sostenere l’indipendenza degli Stati. Oggi però ci troviamo di fronte a una realtà differente, basata sull’interdipendenza.

Reti di dipendenza reciproca si estendono da una parte all’altra del nostro pianeta. E, ad ora, non esiste ancora una sola istituzione politica in grado di gestire la coesistenza pacifica e reciprocamente benefica tra persone. Siamo ben consapevoli di questi pericoli e delle loro terribili conseguenze che colpisco l’intera umanità.

E siamo anche consapevoli del fatto che questi problemi possono essere affrontati solo se ce ne occupiamo tutti, in maniera solidale. Gli strumenti di cui disponiamo al momento promuovono solo preoccupazioni egoistiche all’interno di ciascuna enclave territoriale. In altre parole non abbiamo strumenti adatti per un compito tanto arduo. Devo ammettere che oggi la questione che più mi preoccupa è il potere e il limite della parola.

Nonostante la massa di informazioni che ci soffoca e nonostante le nostre università non riescano a offrirci la conoscenza come bene comune, dobbiamo trovare il modo di modificare gli strumenti in nostro possesso, sviluppati per influenzare la condizione umana, affinché risultino adeguati alle nuove sfide sociali.

Nel 1975, Elias Canetti raccolse alcuni suoi saggi in un volume dal titolo: “La coscienza delle parole”. Il volume inizia citando un’affermazione fatta il 23 agosto 1939, alle soglie della Seconda Guerra mondiale, da un anonimo intellettuale, il quale scrisse: “È finita. Se io fossi davvero uno scrittore, dovrei essere capace di impedire la guerra”.

Questa affermazione è interpretata da Canetti come la necessità di assumersi la responsabilità per qualsiasi azione che può essere espressa tramite le parole e di fare penitenza per l’incapacità delle parole di impedire il disastro. Tutti noi, che ascoltiamo ed elaboriamo le parole, condividiamo questa responsabilità. All’uscita del volume, Canetti conclude che non esistono veri scrittori al giorno d’oggi, ma dovremmo desiderare ardentemente che ve ne fossero.

Sono passati anni, abbiamo persone come Papa Francesco, capaci di parlare con ardore direttamente al cuore delle persone, ma il tipo di scrittore auspicato da Canetti continua a non esistere. Ma il vero problema è che se anche ve ne fossero, se vi fossero veri scrittori, potrebbero essi prevedere e impedire l’arrivo di una guerra o di una catastrofe?

Pensateci bene. Mi dispiace lasciarvi con questa nota di pessimismo, la stessa nota di pessimismo mostrata da Arthur Koestler, un altro grande autore che scriveva all’epoca della seconda guerra mondiale, quando ricorda che i profeti Amos, Osea e Geremia, sebbene eccellenti oratori, non furono in grado di scuotere il loro popolo e avvisarlo del pericolo incombente.

La voce di Cassandra, se ricordate Omero, era in grado di bucare le pareti eppure la guerra di Troia non fu evitata. Chiudo il mio discorso ponendo alla vostra attenzione una domanda: è indispensabile attendere che accada una catastrofe per ammettere che la catastrofe sta arrivando? Il pensiero è raccapricciante, ma non possiamo non porcelo.”


(Zygmunt Bauman)


fonte: http://lacompagniadeglierranti.blogspot.it/2017/04/sulle-difficolta-e-sul-bisogno-del.html

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