“La conoscenza sta passando dall’essere un bene pubblico
all’essere un oggetto commerciale."
(Zygmunt Bauman)
Il
17 aprile 2015, nell’Università del Salento (Lecce), Zygmunt Bauman ha
tenuto la Lectio Magistralis intitolata: “Sulle difficoltà e sul bisogno
del dialogo” che condivido nella traduzione italiana curata dalla
professoressa Francesca Bianchi.
“Magnifico
Rettore, Docenti, Studenti, Signore e Signori, Amici, sono veramente
toccato dall’attenzione che avete voluto dare al mio lavoro e vi sono
estremamente grato per questo pensiero. Credo che questa onorificenza
non abbia nulla di personale, non sia stata data a Zygmunt Bauman;
infatti, l’unica cosa di rilievo che io come persona abbia fatto è a mio
parere quella di avere vissuto a lungo e di avere visto più luoghi di
qualsiasi altra persona, avere visto più cose e sentito più opinioni.
Ritengo
piuttosto che si tratti di un riconoscimento all’importanza, alla
gravità e all’urgenza di alcune delle questioni a cui ho dedicato nel
tempo la mia attenzione e con le quali ci scontriamo tutti oggigiorno.
Come ha detto il Rettore Vincenzo Zara nella sua introduzione “viviamo,
lavoriamo in un luogo di cui conosciamo le contraddizioni e le
difficoltà”. Vorrei dirlo con le parole di Hannah Arendt, grande
filosofa del 20° secolo, “viviamo in tempi bui”.
Ovviamente
non sto dicendo che siamo ciechi: vediamo benissimo ciò che ci sta
intorno, ma piuttosto che, come accade al buio, riusciamo a vedere solo
ciò che sta immediatamente vicino a noi, ma non oltre. Inoltre, come
disse Ludwig Wittgenstein, altro grandissimo filosofo del 20° secolo,
"comprendere significa sapere come andare avanti". E questo è proprio
ciò che a noi manca: la capacità di comprendere.
Abbiamo
a disposizione un'enorme quantità di informazioni ma abbiamo una minore
capacità di comprendere cosa sta accadendo e cosa sta per accadere
rispetto ai nostri antenati che godevano invece di una salutare
ignoranza relativa. La situazione è paradossale: abbiamo a disposizione
un'enorme quantità di informazioni, almeno in teoria; se consideriamo
per esempio il numero di risposte a un singolo quesito che possiamo
trovare in Google, la quantità di informazioni è praticamente infinita,
se paragonata alle capacità del cervello umano.
Giusto
un paio di esempi: una singola edizione domenicale del New York Times
contiene una quantità di informazioni superiore a quella che i grandi
filosofi dell’Illuminismo avevano acquisito durante l’intera vita. Come
secondo esempio vi dico che secondo alcuni esperti, ogni giorno vengono
prodotti 2 miliardi di miliardi di byte di informazioni, ovvero un
milione di informazioni in più di quanto il cervello umano sia in grado
di assorbire in tutta la vita.
Di
conseguenza, questa enorme quantità di informazioni è paradossalmente
un ostacolo per la nostra capacità di comprendere le cose. Se da un lato
la quantità di informazioni aumenta, dall’altra diminuiscono le nostre
conoscenze. La mia generazione sognava un mondo con più informazioni e
di conseguenza maggiore conoscenza, ma allo stato attuale abbiamo
ottenuto l’opposto: maggiore quantità di informazioni non significa
migliore capacità di comprensione della realtà e consapevolezza di come
continuare. Questa è una delle ragioni per cui siamo confusi e ci
sentiamo come se ci muovessimo nel buio.
L’altra
ragione è la fede nella conoscenza, e qui mi avvicino al mondo che
meglio conosco, quello accademico. Le università stanno attraversando un
periodo di grande cambiamento e il risultato di questo cambiamento, che
è stato loro imposto e non necessariamente da loro voluto, è il fatto
che la conoscenza sta passando dall’essere un bene pubblico all’essere
un oggetto commerciale. Se prima le università rispondevano ai bisogni
dell’uomo, ora sono costrette a rispondere alle regole del mercato.
Ed
è un paradosso che il crescente bisogno di vedere nel buio vada di pari
passo con una crescente difficoltà nel comprendere le condizioni
attuali e nel decidere dove andare e come continuare. E ricollegandomi
al discorso del Rettore Vincenzo Zara sulla gravità dei problemi che ci
troviamo ad affrontare e la difficoltà di gestirli, vorrei elencare
alcuni di questi problemi, i quali richiedono immediata attenzione.
Innanzitutto vi è il problema dell’ineguaglianza, che a mio parere
rappresenta un sorta di campo minato.
Come
in un campo minato, sappiamo che prima o poi avverrà un’esplosione, ma
non sappiamo dove e non sappiamo quando. A questo proposito vorrei
ricordarvi le parole di Papa Francesco. Naturalmente sono costretto a
leggerle nella traduzione inglese, che verrà poi ulteriormente tradotta
in italiano ed è scontato che il testo finale non potrà risultare
esattamente identico all’originale pronunciato dal Papa. Nella sua Prima
Esortazione Apostolica, del 2013, Papà Francesco disse “No ad una
economia della diseguaglianza e dell’esclusione.”
Così
come il comandamento che dice “non uccidere” cerca di porre limiti a
favore della salvaguardia della vita umana, oggi dovremmo dire: “non si
deve fare” a una economia basata sull’esclusione e la diseguaglianza.
“Un’economia di questo tipo uccide. Come è possibile che, quando una
persona anziana e senza casa muore per essere stata all’addiaccio, la
notizia non sia riportata dai giornali, mentre se il mercato azionario
perde due punti la notizia è riportata in prima pagina?
Questo
è un chiaro caso di esclusione. Possiamo continuare a tenere la testa
alta in un momento in cui viene gettato via il cibo e le persone muoiono
di fame? Questo è un chiaro caso di diseguaglianza. Oggigiorno tutto
segue le leggi della concorrenza e della sopravvivenza del più forte,
leggi in cui il più potente trae forza ed energia vitale dalla
distruzione del debole. Come conseguenza di ciò, grandi masse di persone
si trovano escluse e marginalizzate, senza lavoro e senza possibilità,
senza possibilità di fuggire da questa condizione.”
Ed
ora vi prego di porre attenzione, poiché questo punto è particolarmente
importante: “gli esclusi non sono le persone sfruttate, ma quelle
scartate dalla società”. Sì, è proprio questa la nuova situazione:
quella dell’esclusione, dell’essere considerati inutili, di troppo.
Ricordo bene come in un passato non molto lontano questi concetti, il
fatto che una persona potesse essere considerata inutile, di troppo, da
escludersi perché́ inutile, semplicemente non esistevano. Si poteva
perdere il lavoro, ma mai essere considerati inutili.
Una
conseguenza diretta di queste forme di messa ai margini è la
migrazione, mai tanto massiccia quanto oggi. Secondo stime recenti, 175
milioni di persone si stanno spostando verso un nuovo Paese con la
speranza di poter riscostruire la propria vita. Secondo altre stime, nei
prossimi 20 anni, il fenomeno migratorio riguarderà 1 miliardo di
persone, che andranno a bussare alle porte di Paesi in cui sperano di
trovare condizioni umane di vita, pane, acqua potabile e scuole per i
bambini. Queste enormi masse di migranti determinano un ulteriore
problema, la “diasporizzazione”.
Abbiamo
tutti sotto gli occhi come la nostra società, il Paese che amiamo e in
cui siamo cresciuti stia cambiando e stia diventando multiculturale. A
differenza di quanto accadeva in passato, diciamo 50-60 anni fa, le
persone che arrivano nel nuovo Paese vi trovano una società già
multiculturale e molto frantumata al suo interno, e non hanno
intenzione, non hanno la possibilità né sono invitati a integrarsi in
questa società, ma possono al massimo a interagire con gli individui e
le etnie a loro più vicine.
Da
qui nasce il bisogno e la difficoltà del dialogo: una nuova arte che
deve essere acquisita. Un’arte di cui però non sappiamo di avere
bisogno, pensando che siano le persone che vengono nel nostro Paese a
dover abbandonare le loro tradizioni e le loro identità per adattarsi
alla nostra. Lasciate che aggiunga ancora un problema a questo mio
elenco: l’interdipendenza dell’umanità.
Gli
strumenti in nostro possesso per un’azione collettiva efficace sono
stati creati dai nostri predecessori per servire unità territoriali
autonome e sovrane che noi chiamiamo Stati. Questi strumenti, per quanto
non eccellenti, sono comunque riusciti ad espletare la loro funzione,
ovvero sostenere l’indipendenza degli Stati. Oggi però ci troviamo di
fronte a una realtà differente, basata sull’interdipendenza.
Reti
di dipendenza reciproca si estendono da una parte all’altra del nostro
pianeta. E, ad ora, non esiste ancora una sola istituzione politica in
grado di gestire la coesistenza pacifica e reciprocamente benefica tra
persone. Siamo ben consapevoli di questi pericoli e delle loro terribili
conseguenze che colpisco l’intera umanità.
E
siamo anche consapevoli del fatto che questi problemi possono essere
affrontati solo se ce ne occupiamo tutti, in maniera solidale. Gli
strumenti di cui disponiamo al momento promuovono solo preoccupazioni
egoistiche all’interno di ciascuna enclave territoriale. In altre parole
non abbiamo strumenti adatti per un compito tanto arduo. Devo ammettere
che oggi la questione che più mi preoccupa è il potere e il limite
della parola.
Nonostante
la massa di informazioni che ci soffoca e nonostante le nostre
università non riescano a offrirci la conoscenza come bene comune,
dobbiamo trovare il modo di modificare gli strumenti in nostro possesso,
sviluppati per influenzare la condizione umana, affinché risultino
adeguati alle nuove sfide sociali.
Nel
1975, Elias Canetti raccolse alcuni suoi saggi in un volume dal titolo:
“La coscienza delle parole”. Il volume inizia citando un’affermazione
fatta il 23 agosto 1939, alle soglie della Seconda Guerra mondiale, da
un anonimo intellettuale, il quale scrisse: “È finita. Se io fossi
davvero uno scrittore, dovrei essere capace di impedire la guerra”.
Questa
affermazione è interpretata da Canetti come la necessità di assumersi
la responsabilità per qualsiasi azione che può essere espressa tramite
le parole e di fare penitenza per l’incapacità delle parole di impedire
il disastro. Tutti noi, che ascoltiamo ed elaboriamo le parole,
condividiamo questa responsabilità. All’uscita del volume, Canetti
conclude che non esistono veri scrittori al giorno d’oggi, ma dovremmo
desiderare ardentemente che ve ne fossero.
Sono
passati anni, abbiamo persone come Papa Francesco, capaci di parlare
con ardore direttamente al cuore delle persone, ma il tipo di scrittore
auspicato da Canetti continua a non esistere. Ma il vero problema è che
se anche ve ne fossero, se vi fossero veri scrittori, potrebbero essi
prevedere e impedire l’arrivo di una guerra o di una catastrofe?
Pensateci
bene. Mi dispiace lasciarvi con questa nota di pessimismo, la stessa
nota di pessimismo mostrata da Arthur Koestler, un altro grande autore
che scriveva all’epoca della seconda guerra mondiale, quando ricorda che
i profeti Amos, Osea e Geremia, sebbene eccellenti oratori, non furono
in grado di scuotere il loro popolo e avvisarlo del pericolo incombente.
(Zygmunt Bauman)
fonte: http://lacompagniadeglierranti.blogspot.it/2017/04/sulle-difficolta-e-sul-bisogno-del.html
Nessun commento:
Posta un commento