Sotto le politiche forti di Donald Trump, gli U.S.A. stanno
sperimentando lo stesso rapido decentramento che altre federazioni, poi
divisesi, hanno visto.
Ovvio, gli States non hanno le stesse cause di origine etnica,
linguistica e religiosa che hanno contribuito a dissolvere l’Unione
Sovietica, la Jugoslavia e la Cecoslovacchia: ma le azioni unilaterali
del governo federale stanno portando ad un allontanamento degli stati
dalla capitale. Trump e relativi consiglieri, in campagna elettorale
sostenitori dei diritti dei singoli stati membri, hanno mostrato una
tendenza ad ignorare la loro autorità e la loro rappresentanza nel
Congresso, a favore di un forte esecutivo unitario. Il desiderio di
independenza degli stati, nonché il tentativo di Trump di sopprimere i
loro interessi, è pieno di pericoli.
Le forme federali di governo hanno successo solo quando esiste un
dialogo continuo tra il governo nazionale e quelli subnazionali. Quando
il centro inizia a dare dettami unilaterali, gli altri si oppongono e lo
ignorano. La poll tax imposta dalla Thatcher negli anni ’80 contribuì
ad allontanare Scozia, Galles ed Irlanda del Nord da Londra. Da lì
nacquero i movimenti indipendentisti, soprattutto scozzesi.
L’immobilismo dei vari governi belgi portò ad una suddivisione del paese
in tre zone: Fiandre (di lingua olandese), Vallonia (di lingua
francese) e regione di Bruxelles-Capitale, ognuna con i propri
parlamenti e governi.
Dato che gli stati americani non possono legalmente separarsi, a
causa dalla sconfitta militare degli Stati Confederati nella guerra
civile, si potrebbero esplorare altre vie.
La spinta verso l’autonomia è aumentata grazie alle politiche
dell’attuale amministrazione: in particolare, quelle relative
all’ambiente, all’assistenza sanitaria, ai dati elettorali, ai rapporti
con Cuba, alla politica sull’immigrazione ed al commercio estero. Anche
se ci sono delle frizioni tra il presidente ed i suoi sostenitori al
Congresso, i suddetti motivi sono l’appiglio cui si aggrappano molti
Stati americani per autodeterminarsi.
La decisione di uscire dall’Accordo di Parigi ha portato alla
creazione della «United States Climate Alliance», un gruppo di Stati che
rimangono impegnati a raggiungere gli obiettivi del suddetto,
indipendentemente dai desideri di Washington. I primi tre stati ad
averla fondata sono stati California, Washington e New York, col
Connecticut a ruota. Anche i governatori repubblicani di Massachusetts e
Vermont hanno aderito all’alleanza, ponendo fine alla critica che
questa fosse una mossa del Partito Democratico. Si sono poi aggiunti
anche Rhode Island, Oregon, Hawaii, Virginia, Minnesota e Delaware.
Altri Stati che rimangono impegnati a sostenere l’Accordo di Parigi ma
che non hanno formalmente aderito all’alleanza sono Colorado, Maryland,
Montana, North Carolina, Ohio, Pennsylvania, New Mexico, Illinois, Iowa e
Maine. Il distretto di Columbia e Porto Rico, che non sono stati veri e
propri, hanno anch’essi aderito.
Il Climate Alliance è servito ad alcuni governatori per condurre
colloqui bilaterali con leader di governi stranieri, non solo
sull’ambiente ma anche sull’immigrazione. Il governatore dello stato di
Washington, Jay Inslee, si è incontrato col primo ministro canadese
Justin Trudeau a Seattle per sostenere congiuntamente l’Accordo di
Parigi. Inslee ha anche discusso dell’immigrazione messicana nel proprio
stato in colloqui col presidente Enrique Pena Nieto a Città del
Messico. Jerry Brown, governatore della California, è volato fino a
Pechino per incontrare Xi Jinping. Lì, i due leader hanno ribadito il
loro appoggio all’accordo di Parigi e hanno discusso di interessi
economici bilaterali.
Questi includono accordi tra Cina e California, in
un periodo in cui Trump sta minacciando di scatenare una guerra
commerciale globale.
Quando si tratta di non rispettare l’amministrazione Trump,
gli Stati della West Coast – che stanno diventando una sorta di congrega
all’interno degli Stati Uniti – sono sempre in prima fila.
Washington, Oregon e California hanno ignorato le minacce del
procuratore generale Jeff Sessions di iniziare ad applicare le leggi
federali sulla marijuana. I tre stati hanno legalizzato la marijuana per
uso sia medico che ricreativo. A questi stati si è recentemente
aggiunto il Nevada, che, come Washington e Colorado, si è anch’esso
accorto che legalizzandola le casse statali ne hanno tratto beneficio.
Dato che i funzionari di Trump non hanno offerto garanzie sulle
compensazioni per la perdita di entrate da marijuana, gli stati hanno
sostanzialmente detto a lui, a Sessions ed alla Drug Enforcement
Administration di non intromettersi. Tra gli stati pro-marijuana ci sono
ora anche Alaska, Massachusetts e D.C.
Un altro gruppo di Stati ha dichiarato la propria volontà di
espandere i benefici dell’obamiana Medicaid, rifiutandone i tagli
proposti dai repubblicani. Ancora una volta, in prima fila ci sono
California, Oregon e Washington, assieme ad Alaska, Hawaii, Nevada,
Arizona, Nuovo Messico e Colorado. Altri stati favorevoli all’espansione
del Medicaid sono Montana, North Dakota, Minnesota, Iowa, Arkansas,
Illinois, Louisiana, Michigan, Indiana, Kentucky, West Virginia,
Pennsylvania, New Jersey, Maryland, Delaware, Rhode Island, New York,
Connecticut, Massachusetts, Vermont e New Hampshire.
Si sta assistendo ad un principio di devolution, visibile anche in altri àmbiti.
Ben 44 stati hanno respinto la richiesta di registrare i dati degli
elettori fatta dalla Commissione sull’Integrità delle Elezioni, anche
nota come «Commissione Kobach», dal nome del segretario dello stato del
Kansas Kris Kobach. La commissione è uno stratagemma per sopprimere in
massa il diritto di votare, sullo stile deil Mississippi di una volta
con gli afro-americani. In un tweet, Trump ha chiesto: «cosa cercano di
nascondere [questi stati]?». La risposta è niente, vogliono solo
proteggere i dati personali. È sconvolgente che il presidente non
capisca le leggi basilari, federali e statali, sul rispetto della
privacy.
Il segretario di Stato della California, Alex Padilla, ha lanciato il
guanto di sfida: “Non fornirò informazioni sensibili sugli elettori ad
una commissione che ha già detto erroneamente che milioni di
californiani hanno votato illegalmente”. Il segretario dello stato del
Mississippi, il repubblicano Delbert Hosemann, ha detto alla commissione
Kobach di «gettarsi nel Golfo del Messico: il nostro è un ottimo stato
da cui saltare».
La decisione di Trump di recedere dagli accordi fatti con Cuba da
Obama ha anch’essa scatenato una ribellione tra gli Stati che vedono
benefici nella collaborazione tra i due paesi.
La decisione ha incontrato la resistenza, tra gli altri, del
Minnesota. Il Democratico lieutenant governor ha guidato una delegazione
commerciale bipartisan a Cuba che ha dichiarato il suo sostegno alle
politiche distensive inaugurate da Obama. Il governatore Democratico
della Louisiana, John Bell Edwards, ed il commissario agricolo dello
Stato, il repubblicano Mike Strain, hanno dichiarato che le sanzioni di
Trump contro Cuba non influenzeranno il crescente commercio agricolo
della Louisiana con l’isola. Vogliono aumentare il commercio con Cuba,
non diminuirlo, indipendentemente dalle azioni del presidente.
L’altra questione che ha spinto gli Stati a sfidare l’autorità di
Trump è l’immigrazione. Il primo aspetto è il travel ban, che ha creato
problemi nel concedere visti ai rifugiati provenienti da sei paesi
musulmani: Iran, Siria, Sudan, Yemen, Libia e Somalia (in un primo
momento anche l’Iraq era nell’elenco). Tra gli stati che hanno fatto
causa al governo per questo, troviamo due degli Stati ribelli del
Pacifico – Oregon e Washington.
Il secondo aspetto è il rastrellamento e successiva deportazione
degli immigrati clandestini da parte del Dipartimento della Sicurezza
Interna. La California sta per diventare un «sanctuary state», il che
significa che impedirà che gli immigrati illegali vengano incarcerati.
Potrebbe però essere il commercio estero il vero catalizzatore. Le
multiculturali Hawaii, che hanno un forte movimenti indipendentista,
sono l’unico stato a denunciare l’amministrazione per
l’incostituzionalità del travel ban. Lo stato si considera l’ingresso
americano per il Pacifico e l’Asia, per cui la libertà di viaggio è
fondamentale. Le Hawaii non parteciperanno alla guerra commerciale di
Trump, come testimoniano i suoi uffici commerciali molto attivi a
Pechino e Taipei.
Anche altri Stati, in particolare i ribelli del Pacifico, non
adotteranno le politiche commerciali dell’amministrazione. La
Costituzione americana stabilisce che il commercio estero sia
responsabilità del governo federale: perciò questo sarà il motivo delle
prime fratture tra Washington e gli Stati. La California ha un grande
ufficio commerciale a Pechino, Washington ed Oregon ce li hanno a
Shanghai. Alcuni rappresentanti del commercio dei singoli stati ricevono
le stesse cortesie diplomatiche di un console. Gli stati non
rinunceranno alle proprie opportunità di commercio estero per soddisfare
i capricci di un megalomane come Trump.
Le forze di decentramento attualmente attive sono in gran parte
bipartisan e transcontinentali – ad eccezione di alcuni retrìvi southern
states e di alcuni stati nelle praterie e nelle montagna dell’ovest – e
non mostrano segni di pausa. Se questa è la situazione sei mesi dopo
l’insediamento del governo, gli scienziati politici si chiedono se ci
saranno proprio degli Stati «Uniti» alla fine del mandato di Trump,
specialmente se ciò accadrà nel gennaio ’25.
Wayne MADSEN
Fonte:
Strategic-Culture.org
http://www.controinformazione.info/la-rapida-devolution-degli-stati-uniti/
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